Archivio | luglio, 2012

Andrzej Bursa

16 Lug

 

Andrzej Bursa

   Nacque il 21 marzo 1932 a Cracovia e morì nella stessa città il 15 novembre 1957, a causa di una grave malformazione congenita dell’aorta. Della sua breve intensa vita soltanto 3 anni furono dedicati all’attività letteraria, come poeta, prosatore, drammaturgo e giornalista. Studiò slavistica all’Università Jaghellonica di Cracovia, specializzandosi in lingua e letteratura bulgara. Nel 1952 sposò Ludwika Szemiot, una studentessa dell’Accademia di Belle Arti di Cracovia, e nello stesso anno nacque il figlio Michał. Debuttò come poeta sul settimanale “Życie Literackie” nel 1954. Da questo stesso anno fino al 1957 lavorò come reporter presso il giornale “Dziennik Polski” di Cracovia. Individualista, non fu legato a nessuno dei pur numerosi gruppi letterari allora esistenti.  Dal 1967 ai giovani poeti viene assegnato il Premio Letterario che porta il suo nome.

   La sua creazione fu pubblicata postuma. Essa comprende: il poema “Luiza”, “Wiersze” (Poesie, 1958), “Utwory wierszem i prozą” (Opere in versi e prosa, 1969, più volte riedito), il romanzo “Zabicie ciotki” (L’uccisione della zia, 1981, adattato per lo schermo nel 1984), i drammi grotteschi “Karbunkuł” (Carbonchio), messo in scena nel 1957 al Teatro Cricot, “Żakeria” (Jacquerie), “Zwierzęta hrabiego Cagliostro” (Gli animali del conte Cagliostro), messo in scena al Teatro Groteska di Cracovia nel 1972, lo sketch “Rozmówki chłopskie, czyli Socjalistyczne daleko” (Conversazioni contadine, ovvero Socialista lontano), rappresentato nel 1957 dal celebre cabaret Piwnica pod Baranami di Cracovia, il racconto grottesco “Smok” (Il drago). In particolare la sua creazione poetica viene suddivisa in: poesie ribelli, poesie in cui emergono sogni arcadici non realizzati (ad esempio il poema “Luiza”) e la lirica riflessiva, sorprendente per profondità di pensiero, la maturità della forma e il celato lirismo.

   “La sua poesia ribelle – scrive Jarosław Fazan nel Dizionario degli scrittori polacchi edito da “Zielona Sowa” nel 2004 –  circondata dalla leggenda, rappresenta un elemento essenziale della svolta del 1956, smaschera in modo intransigente la falsità dell’ideologia e discredita gli schemi del realismo socialista. La suggestiva, pessimistica aura di questa creazione rispecchia gli umori della metà degli anni cinquanta”. E’ una creazione in cui troviamo molto spesso la ribellione, la brutalità e il cinismo. Era un poeta che cercava i valori umanistici duraturi e la verità sull’uomo e su se stesso. Ma la ribellione contro le norme della vita sociale, della tradizione romantica, contro le convenzioni, la moralità è soltanto ciò che si percepisce da una lettura superficiale della creazione di Bursa. Il poeta vedeva il male che lo circondava e lo rappresentava con adeguati mezzi letterari, tuttavia nelle sue opere si avverte una evidente esigenza di ricerca del bene.

  

5 poesie di Andrzej  Bursa tradotte da Paolo Statuti

 

Il telegramma 

In redazione è giunto un telegramma

Dal contenuto seguente

“Ammazziamo tutti i poeti

Dal primo settembre”

 

Il cronista impallidì come bollettino

Si può inserire

Si può inserire

Questo telegramma giunto fuori tempo

Con un contenuto così ambiguo

Dunque chiama il Capo

Ma nella cornetta rimbombò un qualche demone

E’ disorientato

Non ne sa niente

 

Dunque cerca nelle enciclopedie

Sotto  “antipoetizzazione” e nei bollettini

E nei volumi di Lenin

Ma anche in Lenin niente

 

E soltanto notte parete di piombo

E al Comando Provinciale chi trova a quell’ora

E con questo telegramma

E con questi poeti

 

Ah nerissima disperazione del redattore

 

1956

 

Colloquio col poeta

 

Come rendere il profumo in poesia…

certo non con una semplice parola

ma tutto il verso deve odorare

sia la rima

che il ritmo

devono avere le temperature d’una radura color miele

ed ogni balzo ritmico

qualcosa del soffio d’una rosa

lanciata su un giardino

 

abbiamo parlato in perfetta simbiosi

fino al momento in cui ho detto:

“ti prego porta fuori quel secchio

perché si muore dalla puzza di piscio”

forse fu una mancanza di tatto

ma non potevo più resistere.

 

1957

 

*  *  *

Diversamente avevo immaginato la morte

credevo ingenuamente

che l’orgasmo culminate dello spavento

mi avrebbe tolto alfine dalla sfera del dolore

 

Invece tutto sento

             tutto vedo

restando nei diritti di un cadavere

             senza possibilità di gemito

                                           di tremore

                                           di movimento

partecipo con tutta la scorta di paura e sofferenza

alla solita solfa del dr Tulp

Uno studente timido e zelante

mi trapana il cervello con uno strano arnese

Guardando la brutta faccia del ragazzo

l’abituccio fuori moda la peluria sopra il labbro

penso

           è possibile ch’egli sia ancora illibato

e una maligna soddisfazione mi arreca un certo sollievo

              (per quanto si possa provare sollievo

              durante la trapanazione del cervello)

 

Conosco tutti i vizi del vecchio professore

pelato come un uovo

conosco le cupe facezie degli studenti

riuscii a ricordare gli assurdi paroloni della medicina

la cui copertura è a quanto pare

il mio corpo straziato

condannato a scoprire

i sempre più crudelmente sorprendenti

mazzi di fiori delle torture.

 

1957

 

Amore

 

Solo attento che non ci scappi un bambino

solo attento che non ci scappi un bambino

 

Questo neonato inesistente

è il beniamino del nostro amore

gli compriamo i corredini nelle farmacie

e nei negozietti di tabacco

nonché cartoline con le vedute di monti e laghi

ci occupiamo di lui più che se esistesse

eppure malgrado ciò

                                     …aaa

                                             piange e fa l’isterico

allora bisogna raccontargli una storiella

sulle pinze di precisione

il cui tocco non duole

e non lascia traccia

allora si calma

ma non per molto

                               purtroppo.

 

 

 

 

 

 

 

Il buon psichiatra

(ventoaeroterapia)

 

Dapprima era come supponevo

percosse

docce gelate

compagnia puzzolente

d’ ispirati artigiani di provincia

finché non è giunto un buon psichiatra

non ci faceva domande stupide

non ci maltrattava

 

su lunghe corde

ci permise di volare a volontà sul giardino

la lunghezza delle corde superava l’altezza

delle più vertiginose sommità delle nostre visioni

 

oh come stavamo bene

il dottore incitava ancora

più in alto più in alto miei cari

oh come stavamo bene

 

questo metodo si chiama

ventoaeroterapia

ven-to-aero-te-ra-pia

ven-ta-pia

ae-ra-pia

pia!pia!pia!

 

1957

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

Mieczyslaw Jastrun

15 Lug

 

Mieczyslaw Jastrun

   Nacque a Korolówka il 29 ottobre 1903. Scrisse più di venti raccolte di poesie, numerosi saggi critici e tradusse in modo esemplare autori francesi e russi (tra cui: Baudelaire, Rimbaud, Eluard, Apollinaire, Puszkin, Bagrickij, Pasternak). Studiò filologia polacca, germanica e filosofia all’Università Jaghellonica di Cracovia. Nel 1950 sposò la poetessa Mieczysława Buczkówna, dalla quale ebbe il figlio Tomasz, che oggi è un noto poeta. Nel 1957, dopo la chiusura del mensile “Europa” di cui era stato uno dei fondatori, imposta dalle autorità, abbandonò il partito comunista. Fu uno dei firmatari della “List 34” degli scrittori e intellettuali polacchi, in difesa della libertà di parola (1964).

   Jastrun fu uno straordinario erudito. Ricevette un’educazione che gli permise di muoversi liberamente nella sfera della tradizione polacca ed europea, e di risalire alle fonti della cultura mediterranea, all’antichità. Avendo studiato il greco e il latino al liceo classico, egli lesse in originale Omero, Sofocle, Orazio e Virgilio.

   La poesia – parente stretta della filosofia – tende a una totale visione del mondo, rifiuta la sua suddivisione nelle singole sfere della conoscenza, in ciò cui apparentemente siamo condannati. La poesia – come la intendeva Jastrun – permette all’uomo di superare l’orizzonte datogli dalla natura, ed è quindi un genere trascendentale, ha una funzione autoterapeutica e consolatoria. E’ stato detto che la poesia di Jastrun è trasparente, bianca, benché, similmente a un raggio di luce bianca, essa sia di quel genere di biancore in cui si concentrano tutti i colori dell’iride. Nella sua creazione predomina l’orientamento riflessivo-filosofico, che accomuna le esperienze del tardo simbolismo alla retorica e al pathos della poesia romantica. Attraverso le sue raccolte seguiamo il cammino del poeta: dal catastrofismo di prima del 1939, alla dolorosa esperienza dell’occupazione nazista, fino alla scettica riflessione sulla mutabilità della storia e sulla limitatezza dell’esistenza umana.   

      Morì a Varsavia il 22 febbraio 1983.

 

5 poesie di Mieczysław Jastrun tradotte da Paolo Statuti

 

L’ombra

Quando la terra la mia ombra assorbirà,

Quando la voce si sperderà nei fiati

Del mondo tremendo che ho presentito

Nei miei sogni non del tutto saldati,

Quando sul sangue immolato alla nullità,

Il tempo che sempre tutto ha rinverdito,

La sua erba di cimitero spargerà,

Mostrati, vieni mia ombra, t’invito!

Da qualche biblioteca silenziosa

In un caldo pomeriggio d’estate,

Ove freddo dormirò nell’aria afosa

Ore ardue, profonde, impensate,

Mi porteranno al frondoso canto

Mani non partorite ancora,

E il mio sangue annerito da tanto

Arderà in una nuova dimora.

 

E quando rinascerà il mio cuore,

Con che gioia, con quale spavento

Vedrò un uccello tagliare il bagliore,

Vedrò i salci che oscillano al vento…

Nel patrio parlare entrerò un mattino

Di polvere coperto e stremato,

Sapendo d’essermi svegliato

Perché la morte sia il mio cuscino.

 

1941

 

 

Da: “Il poema della lingua polacca

Tra i libri da tante pupille lucidati

(La loro freschezza col tempo non si arrende)

C’è un libro nuovo coi fogli ancora inviolati,

Che aspetta l’ora di vivere doppiamente.

In esso entrerà come da non sprangata porta

Colui che recava il bestiame alla pastura,

E che d’inverno presso la lucerna smorta

Rinascerà in una bella vita futura.

Irrompe dalla strada vispa una ragazza,

Portando in sala un viluppo d’aria nevosa,

E con movenze da rubiconda Grazia 

Prende il secondo tomo per sapere cosa

C’è poi. Poi? Non conta solo il fatto

Che si sposeranno. Per lei è la mutazione

Della parola in storia. E tutta ristà a un tratto

Nel sole la bibioteca…

 

1952

 

 

Cristo del Mantegna

 

Cristo del Mantegna disteso a terra,

Con gli enormi piedi nello scorcio prospettico.

Non ci mostra forse così nello scorcio dei secoli

L’epoca i suoi piedi forati, enormi,

I piedi di un cadavere, purtroppo, che noi vivi

Tentiamo di cingere col fiato, di immergere nella pioggia di

                                                                                       lacrime

Di questo Lazzaro, in cui Dio s’è mutato,

Per non morire nella sua terribile gloria.

 

1975

 

Marte

 

C’è l’acqua lassù? chiedono con le guance infocate

c’è lassù nei composti di idrati di carbonati l’acqua della vita

o soltanto oscurità per i nostri occhi oppure

il nulla per i nostri laboratori le nostre leggende oppure

un’estensione senza tempo in uno spazio immensurabile

forse apparente come il tempo per il cosmo come il luccichio

delle stelle e delle galattiche come le spade d’arcangelo

delle comete nel nero baratro

                                                             Forse il raggio laser

di Dio che sposta lo spazio come un calessino coi bambini

solleverà un braccio e lo abbasserà

prenderà una manciata di sabbia e sparirà

E il cielo sul pianeta scarlatto sarà rosa

come le rose qui sulla scura vecchia Terra.

1977

 

L’albero imprigionato

L’uccello s’è impigliato tra i rami

batte le ali di un antichissimo canto

folto l’albero in sé lo imprigiona

l’uccello passa ma l’albero rimane

Non per la prima volta sento il fruscio delle foglie

vedo il bosco di abeti il grano prima della raccolta

e soltanto guardo quando si avvererà

il mio sogno di una terra giusta

1981

 

(C) by Paolo Statuti

Tymoteusz Karpowicz

14 Lug

Tymoteusz Karpowicz

(nato il 15 dicembre 1921 a Zielona nei pressi di Vilno – morto il 29 giugno a Oak Park nei pressi di Chicago)

 

6 poesie di Tymoteusz Karpowicz tradotte da Paolo Statuti

 

Il sasso

Muto e piccolo

un sasso piatto

sta nel fiume

Intimorito

s’aggrappa al fondo

sotto i gorghi

Ma quando l’afa

le acque asciuga

lui levigato

arcua il dorso

l’ultime gocce

con la pietrosa

palma uccide

1957

 

Lezione di silenzio

Quando la farfalla

con troppo impeto

a volte ha congiunto le ali –

si è gridato: per favore calma!

Appena la piuma

di un uccello spaventato

ha sfiorato un raggio –

si è gridato: per favore silenzio!

Così si è insegnato

a camminare silenziosamente

a un elefante sul tamburo

all’uomo sulla terra

Si alzavano gli alberi

senza rumore nel campo

come si rizzano

i capelli per lo spavento

1957

 

L’agitatore

Un leone vi ha divorato

alberi nel giardino

il pesciolino d’oro

ti ha inghiottito le mani

 

Una foglia di geranio

caduta dal balcone

ha schiacciato la strada

piena di gente

 

Sarebbe tutto

meraviglioso al mondo

se non fosse per l’occhio

di un uccello morto

 

In esso nudo

senza la membrana della palpebra

giacendo sulla strada

un tratto di cielo è riflesso

 

Dunque amici

Quando un uccello muore

fate sì che abbia

la pupilla coperta

 

1958

 

Sogno

 

Che ha sognato di orribile il poeta

ch’è balzato dal sonno

quasi cervo da un bosco in fiamme?

 

Ecco la farfalla della sua metafora

l’ha coperto con la sua ala

 

e la maniglia descritta

s’è mossa sulla porta

 

 

La montagna incantata

 

Non si ripeteranno:

il cielo iscritto dall’ala d’un uccello

l’albero con la tonda eco nel mezzo

la pazienza del paltò e la rivolta d’una scintilla

il primo viaggio d’un letto in fiamme

il primo fiume con i capelli di Ofelia –

non si ripeteranno nella nostra

vita tascabile

sono costanti nella fugacità

come noi nell’evidenza

Allora baciamo le cose fugaci:

le bianche betulline delle gambe i pipistrelli dei palmi

i portali degli occhi donde si esce

con un campanello nel cuore o un’ascia nel cervello

gli azzurri cavalli che sguazzano nell’acqua

il flusso aereo di tutti gli occhi della terra

 

Mefistofele non c’indurre all’immortalità

Prendi una foglia nei capelli e una nube in mano –

esse sono caduche esse scompaiono

e questo noi guardiamo da un’alta montagna argentata

 

da: La musica pietrificata, 1958

 

 

Studio del silenzio dell’albero

 

l’albero inudito con la musica interiore

nella folta eco scava la sua chioma

le incomplete presumibili foglie

saltano di ramo in ramo sempre più su

e sotto la scorza la sordità dell’albero

non sviluppata e di colore incompiuto

all’albero stesso ostile disalberata

il suono deforma sparge scoiattoli

più silenziosi del pensiero di nota

dunque essi e non le verdispuntate

foglie l’albero all’esterno edificano

 

nell’albero si entra da sotto terra

da un viottolo fibroso stretto plurilato

per questo gli scoiattoli che saltano

piatto ai rami non possono più tornare

sommando in sé vani salti dopo salti

silenziosi a turno saltano in se stessi

amplificati riacquistano il peso

cadono giù come fulve goccioline

 

e allora l’albero nella doppia nudità

due volte sordo due volte disfogliato

è ormai esattamente impensabile

eppure vive perché ancora visibilmente

accumula sotto di sé la fulva peluria

degli scoiattoli anch’essi due volte assorditi

e inchinandosi sul vuoto ginocchio

di peluria-ruggine colma le orecchie d’albero

 

da: Segni d’uguaglianza, 1960

 

 

(C) by Paolo Statuti

Aleksander Wat

14 Lug

Aleksander Wat

 

   Aleksander Wat, originariamente Chwat, nacque il 1 maggio 1900 a Varsavia. Discendeva da una antica e famosa famiglia ebrea che annoverava tra i suoi membri anche il famoso kabalista del XVI secolo Isaac Luria. Studiò filosofia, psicologia e logica presso l’Università di Varsavia, dove entrò in contatto con l’avanguardia letteraria. Co-fondatore del futurismo polacco. Negli anni venti fu redattore di importanti riviste letterarie, come ad es. “Nowa Sztuka” e “Miesięcznik Literacki”, attraverso le quali contribuì a far conoscere Majakovskij e il futurismo russo. Prima della guerra fu un convinto comunista.

   Nel 1939 allo scoppio della seconda guerra mondiale si rifugiò a Leopoli, allora occupata dai russi, dove prese parte alla vita culturale locale. Ma, accusato prima di sionismo e poi di trotskismo, nel 1940 fu arrestato e rinchiuso in diverse prigioni sovietiche (egli stesso ne contò 14). Durante la prigionia, unico ebreo fra tanti prigionieri polacchi cattolici, si convertì al cattolicesimo più per un bisogno di comunione spirituale con gli altri prigionieri, che per un abbandono della sua identità ebreo-polacca. Nel 1942 fu costretto all’esilio nel Kazakhistan, dove poté riabbracciare la moglie Paulina e il figlio Andrzej, e dove rimase fino al 1946, anno in cui tornò in Polonia, malgrado avesse ormai preso le distanze dal comunismo stalinista. Fu ignorato dalle case editrici e soltanto dopo il disgelo (1956), poté tornare alla vita pubblica, ricevendo anche un premio dalla rivista”Nowa Kultura” per la sua opera poetica (1957).

   Nel 1959 espatriò con la famiglia in occidente e dal 1961 si stabilì a Parigi. Afflitto già da anni da una incurabile malattia che gli procurava dei fortissimi mal di testa, il 29 luglio 1967 si suicidò ingerendo una forte dose di analgesici. E’ sepolto nel cimitero Les Champeaux a Montmorency.

   Le sue prime opere sono ispirate al futurismo e al surrealismo. Tra esse ricordiamo la raccolta di poesie pubblicata nel 1920 “Ja z jednej strony i Ja z drugiej strony mopsożelaznego piecyka” (Io da un lato e Io dall’altro della mia stufa di ferro) e la raccolta di racconti “Bezrobotny Lucyfer” (Lucifero disoccupato), che gli diede fama e che tratta in modo originale la profonda crisi spirituale della civiltà occidentale postbellica, che andava incontro alla nuova catastrofe della seconda guerra mondiale. Le sue poesie della maturità invece, uscite postume nel 1968 col titolo “Ciemne świecidło” (Lume oscuro) sono profondamente umane e di notevole portata filosofica, e mostrano bene quel dissidio esistenziale di Wat tra ebraismo, ateismo e cattolicesimo, che ha giocato un ruolo essenziale nella creazione dello scrittore. Aleksander Wat fu anche traduttore delle letterature anglosassone, francese, tedesco, russa e sovietica.

   Nel 1964 Wat fu invitato all’Università di Berkeley in California, dove Czesław Miłosz registrò più di 40 colloqui con lui. Queste conversazioni autobiografiche furono pubblicate a Londra nel 1977 dallo stesso Miłosz col titolo “Mój wiek” (Il mio secolo).

   In Italia l’opera di Aleksander Wat è stata fatta conoscere da Luigi Marinelli, professore ordinario di Lingua e letteratura polacca presso l’Università La Sapienza di Roma.

 

Nel compilare questo mio breve profilo di Aleksander Wat mi sono avvalso tra l’altro di Wikipedia, l’enciclopedia libera.

 

 

 

Poesie di Aleksander Wat tradotte da Paolo Statuti

 

Salci ad Alma-Ata

 

I salci sono salci ovunque…

 

Sei bello nella brina e nel bagliore, salcio di Alma-Ata,

Ma se mai ti dimenticherò, o secco salcio di via Rozbrat,

Si dissecchi la mia mano.

 

Le montagne sono montagne ovunque…

 

Davanti a me il Tien Shan naviga nei violetti –

Spuma di luce, roccia di colori, si sbianca e svanisce –

Ma se mai ti dimenticherò, lontana vetta dei Tatra,

Torrente Biały, ove con mio figlio sognavo navigazioni colorate,

Salutati dal quieto sorriso della nostra buona patrona,

Che mi tramuti in pietra del Tien Shan.

 

Se vi dimenticherò…

Se ti dimenticherò,         

Mia città natale…

 

O notte di Varsavia, o pioggia, o temporale, dove si udiva

“sull’uscio il vecchio tende la mano

Il cane gli lacera il pastrano”…

 

Dormi tesorino…

Spargo le mani gemendo, come polacco salcio piangente.

 

Se vi dimenticherò,

Lampade a gas di via Żórawia – stazioni del mio tormento d’amore,

Lucenti cuori immersi nel buio riserbo delle foglie,

E brusìo e sussurro e pioggia, strepito di carrozza nel viale

E oropiumata alba dei colombi…

 

Se ti dimenticherò, pugnante Varsavia,

Schiumosa di sangue Varsavia, bella d’orgoglio per le tue tombe…

 

Se Ti dimenticherò…

Se Vi dimenticherò…

 

Alma-Ata, gennaio 1942

 

 

Paesaggio lunare

 

Dai secondi incalzanti l’adieu gettato

scacciavo soffiando sul pollice

ed ecco il portiere accostando una tromba d’oro alla bocca mi urlò:

dove!

oh prima ah prima era diverso ed ero così felice

nessuno esigeva da me che fossi un chilowatt

i tram tinnivano dolci come allodole

e i palloni rombavano sulla testa come angeli

le famiglie si enfiavano nella gioia e le mosche nel canto

i cavalli avevano il pennacchio della patrona e i sonagli

gli aquiloni volavano nel cielo della domenica e dell’ossigeno –

parola che sempre mi stupiva dietro il vetro della farmacia

                                                                                        all’angolo

non ricordo in quale strada pendeva l’insegna del turco baffuto

il piffero del guardiano fiorendo di fiori e di uccelli

cullava i fianchi delle carrozze assonnate

nessuno mutava il vino del mio sangue nell’acqua della poesia

nessuno mi chiamava col duro nome di aleksander

ed ora non so perché non riesco a spiegarmi

perché tutto ah tutto è cambiato in peggio

e perché ah perché

la mia testa annega nella bava di una bionda cavalla

che non è una cavalla ma è la luna la solita luna

e perché la bocca vuole baciare la bocca d’ogni passante

mendico d’amore eternamente chiedere la carità! –

E quando la sacca del cuore mi si gonfia di baci

li estraggo e li accendo

perché brillino come candeline

sulla triste cieca pietra della strada.

 

 

Visione

 

Il cielo – azzurro immacolato,

il mare – turchese insonnolito,

non vedo il sole, ma tutto qui è sotto il suo sguardo ardente.

Tutto – cioè: il vuoto, le particelle d’aria, e il brulichio delle

                                                                             molecole d’acqua.

Oltre a questo niente.

 

Ed ecco qualunque cosa sia sotto lo zenit,

nel concavo cielo si delinea adagio

– come disegno da sotto la mano –

un mandala: già distinguo

l’enorme madreperla, finemente intagliata.

Su di essa è servita una salma. Uno scheletro. Da un Totentanz.

Lungo. Le ginocchia piegate. Sorridente. Vivo.

 

 

*  *  *

 

Di nuovo questa notte, a mezzanotte passata

è venuto da me P.B..

Questa volta sotto forma di lombrico,

4 metri e 20, così ho misurato

a prima vista. E la mia stanza

ha meno di 3 metri.

Perciò si è contratto

come molla sotto il dito.

Poi si è avvolto a me, senza fretta,

con mosse cadenzate. Sempre più ermeticamente.

Attraverso la sua mordida pelosità sentivo le vertebre

dure come caucciù. Non gridavo, benché dolesse.

Lo so: ciò che fa, lo fa per amore mio.

 

 

Colloquio sul fiume

 

–  „Guarda

la luce si disperde

come profumo dalle anfore.”

 

–  Non occorre la poesia

rinuncia alle metafore.”

 

–  La notte ci ha sorpresi

comprime nelle zampe.

 

Il giorno si è disperso

come profumo

come profumo.”

 

La voce è cessata. Una stella s’è spenta.

Afa soffocante.

–  “Sii fiducioso! Aguzza gli occhi!”

 

Oscurità

Oscurità

 

1952

 

Sogni dal Mar Mediterraneo

                                             Alle mie sorelle, Seda e Cesia

                             4

Dietro la vetrina del Greco il mare – spugne, gamberi –

fino all’inverosimile. In mostra le pastarelle

con le pance a punta, bionde, verdi oliva, coralline.

Dietro la vetrina passano tre mie sorelle, una dietro l’altra.

Dove vanno? – medito. Dietro la vetrina dunque il mare.

Abbiamo fatto un salto dal Greco. Ma il mare, molesto mare,

                                                                          [ fino all’inverosimile,

tutti gli strati è impossibile contare. Per giunta sono così

increspati. Le paste, certo: 1, Ѵ- 7, alef  ̊,: 0.

Sto falsando, lo so. Però il Greco dà il resto giusto: tre copechi

di rame, il suo gusto sento nelle dita: qui manca solo questo,

per riportarmi pei capelli ai primi sogni dell’infanzia!

Dunque sogno. Sogno, ergo dormo. Tanto meglio. Sogno in Eastman-

Color. Come chiamarlo, Askanas? Un altro sistema – ma perché?

                                                                                            [non ricordo.

Chiacchiero, e tre mie sorelle continuano a ferirsi alle gambe.

                                                                                              [La quarta,

delicata e minorenne, aspetta in basso, presso la porta. Che Ola

mi porti via dal mare. Andiamocene. Con la slitta. Nel parco,

                                                                                        [l’Ujazdowski,

mi fermerò sul ponticello di canne,

guarderò i cigni, scoppierò a piangere. I capelli volati via

dal cranio (dove si è inserito un gambero centenario, mio piccolo

                                                                                                  [coetaneo,

striato di zaffiro e di minio), – come medusa

argentata emergeranno, soli, senza di me.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

Edward Stachura

12 Lug

Edward Stachura

 

   Edward Stachura, poeta e prosatore –  leggenda, “Sted” per gli amici, nacque il 18 agosto 1937 a Charvieu in Francia e morì suicida a Varsavia il 24 luglio 1979. Nel 1948 assieme alla famiglia partì per la Polonia, come tanti altri polacchi che in quel periodo facevano ritorno in patria. Giunse a Kujawy – una terra a lui sconosciuta, persone sconosciute, anche se consanguinee e fraterne, la lingua polacca che doveva perfezionare. La scuola. La maturità. Poi la tappa decisiva – inizio della carriera letteraria. Si iscrive alla Università Cattolica di Lublino, quindi gli studi interrotti, il trasferimento a Varsavia, le prime pubblicazioni. Riprende a studiare, si laurea in filologia romanza all’Università di Varsavia nel 1965. Comincia ad emergere da questo curriculum uno degli elementi fondamentali che caratterizzeranno la breve intensa vita del poeta, vale a dire il meccanismo della fuga incessante. La fuga da tutto ciò che – già conosciuto, ma non assorbito fino in fondo – si tramuta in lui in vincoli, nella routine, nella detestata Regola, in una prigione sotterranea, ciò che viene chiaramente espresso nel suo poema “La doppietta”, poema appunto della fuga, della caccia e della liberazione  (o anche di una particolare accettazione del mondo).

   Debuttò come poeta nel 1957. Negli anni 1962 e 1963 uscirono rispettivamente la raccolta di racconti ”Un giorno” e quella di poesie “Molto fuoco”. In entrambi questi lavori Stachura mira a superare i limiti fissati dalle convenzioni letterarie, a realizzare l’unità di scrittura e vita. In essa tratta questioni assai semplici, e per questo dimenticate o semplicemente non rilevate dagli altri nella vita quotidiana. E’ la scoperta della vita di tutti i giorni, di ogni suo istante, di ogni minimo frammento dell’esistenza. Ecco cosa scrisse Jarosław Iwaszkiewicz nella sua recensione al volume di racconti “Un giorno”, apparsa sul quotidiano della capitale “Życie Warszawy”: „…la raccolta ha suscitato in me entusiasmo ed emozione. E’ una prosa insolita, con una sintassi quasi elementare, il periodo limpido ha strane ripetizioni, la malinconia e il profondo intimo amore per la vita, la gioia per tutto ciò che essa arreca a questo cosiddetto vagabondo, la percezione del paesaggio polacco e della vita polacca di tutti i giorni, la nostalgia per l’amore e la fede nell’amore – tutto ciò è così giovane e pieno d’incanto…Chi può dire che non sia una bella prosa?”.

   Nel 1966 uscì il secondo volume di racconti “Ondeggiando al vento”, e nel 1968 i poemi “Mi accosto a te” e “Gozzovigli la locusta nel giardino”. Seguirono quindi i romanzi “Vistosità assoluta” e “Il canto della scure”. Quasi ogni opera di Stachura non è un piatto preparato e servito, ma è una sfida e al tempo stesso una testimonianza. Una sfida lanciata ai letterati che limitano il compito del poeta alla composizione di belle frasi. Ed è una testimonianza di lotta per conferire forza alla parola poetica. Altre opere di Stachura che meritano di essere menzionate sono: il romanzo “Missa pagana”, uscito nel 1978, e il dialogo filosofico-poetico “Fabula rasa”, uscito l’anno dopo. Nella sua produzione poetica rientrano anche le traduzioni, principalmente dal francese e di poeti latino-americani, e le canzoni. Quest’ultime nella vita di Sted svolgevano un grande ruolo. Erano come un ago della bilancia , una tappa intermedia che preludeva spesso alla successiva nascita dei suoi poemi più belli. Le canzoni di Edward Stachura – come del resto tutta la sua produzione letteraria – sono un riflesso della singolare personalità dell’autore. Anche qui appare nel ruolo di protagonista il poeta-giramondo, il girovago tra la gente e la natura, il seguace della bellezza della vita, ma anche l’attento osservatore dei suoi lati oscuri. Il mondo di queste canzoni non è il facile mondo della concordia e della gioia, del sentimento e dell’armonia interiore. Se in esse c’è l’amore – da qualche parte sono sempre in agguato su di esso l’abbandono, il rimpianto, l’insicurezza; dietro l’appagamento c’è l’insoddisfazione, dietro il chiarore ci sono le tenebre.

   Stachura era assai spontaneo nei suoi atteggiamenti. Era sensibile alle quesioni morali, ai valori supremi del Bene, della Bellezza e della Verità. Nei suoi scritti c’è solo quello che ha vissuto. Era nemico della menzogna, anche di quella letteraria. Dovunque apparisse – ricordano gli amici – egli portava quella freschezza e quel sorriso senza i quali non si può respirare normalmente, e che sono così rari nel mondo contemporaneo. Era diverso, esigente nei propri confronti e tollerante verso gli altri. Malgrado le apparenze era insolitamente delicato. Ha ingannato molti il suo abbigliamento da vagabondo-ribelle (jeans scoloriti, giaccone, la sciarpa attorno al collo e la chitarra in mano). Era uno di quelli che proclamano apertamente le proprie verità, procurandosi in tal modo molti seguaci, ma soprattutto molti nemici, che del resto hanno sempre circondato le persone geniali. Si opponeva a tutto ciò che è male, che è contro l’uomo. Dichiarava che la fonte di tutti i mali è la ricchezza. Intimamente non amava il denaro e se avesse potuto, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Lo usava dunque in minime quantità, disprezzava i facili guadagni, non lo interessavano i suoi diritti d’autore. Se non giungevano i compensi che gli spettavano, accettava il primo lavoro che gli capitava. Il lavoro, e soprattutto il lavoro manuale, i contatti con la gente vera, i numerosi viaggi in Polonia e all’estero (fu tra l’altro in Siria, Libano, Norvegia, Francia, Messico e Stati Uniti) – tutto questo era la fonte d’informazione essenziale per le sue opere. Visse soltanto per la letteratura, che considerava una grande missione. Negli ultimi anni della sua vita aveva “abbagliamenti mistici”, e sempre più inesorabile lo attaccava la malattia mentale. Cominciò a donare le sue cose ai poveri e più volte pensò al suicidio.

   Stachura in Polonia è una leggenda. Gli sono stati intitolati concorsi letterari, incontri poetici e biblioteche pubbliche. Diversi suoi testi sono stati adattati per il teatro e le sue opere sono ripetutamente pubblicate, Nel 1982, a tre anni di distanza dalla morte, la prestigiosa casa editrice di Varsavia “Czytelnik” ha stampato la sua produzione letteraria in 5 volumi, che è diventata subito un bestseller.

   Ecco un brano tratto dai diari dello scrittore:

   “…Hai un cuore, dove c’è posto per qualcuno, quel qualcuno è in questo mondo, cercalo, cercatelo, scrivi un messaggio su un foglietto e domani, quando sarai sul treno, gettalo dal finestrino, ma cosa scrivere? – ciò che ti detta il cuore, niente di più:

                            Messaggio per qualcuno nel mondo

                         Se tu mi darai un po’ – io ti darò molto

                         Se tu mi darai molto – io ti darò molto di più

                         Se tu mi darai tutto – anch’io ti darò tutto

non c’è male, può andare, scrivi questo su un foglietto e domani gettalo dal finestrino del treno, gettalo pensando che deve arrivare a qualcuno, a quel qualcuno, e se deve andare distrutto, perché di certo sarà così, la pioggia, l’umidità del terreno, ecc. ecc., che almeno prima il vento lo trascriva nel cielo, questo messaggio del foglietto e che scorra col vento là, dove deve scorrere e arrivare scorrendo”.

 

Poesie e un racconto di Edward Stachura tradotti da Paolo Statuti

 

La nebbia s’è posata

La nebbia s’è posata e la città si risveglia

tonda fugge via la notte

qualcuno in silenzio qualcuno aspetta

le stelle sono a meno di un passo…

Un cane gironzola randagio nel campo

vola ai quattro venti la nostalgia

e la terra gira la sua incantevole gobba

gira, gira la ruota del destino…

Tu che piangi perché qualcuno possa ridere

basta così

scaccia i cupi pensieri, basta con le lacrime

lascia che tutto scompaia con la nebbia

perché un nuovo giorno è spuntato

un nuovo giorno…

Dal sonno soffocante la città riemerge

laggiù il sole sorge

un tram alla fermata è sbacciato come una rosa

fuggono le ombre nei portoni

tirano i carretti i lattai

sui tetti si alza la nebbia di sogni delle ragazzine

e la terra gira la sua incantevole gobba

gira, gira la ruota del destino…

Tu che piangi perché qualcuno possa ridere

basta così

scaccia i cupi pensieri

abbandona lo sguardo smarrito

che tutto questo sparisca con la notte

perché un nuovo giorno spunta,

perché un nuovo giorno spunta

un nuovo giorno…

 

 

La Bianca Locomotiva

Andava per i prati neri

Andava per il bosco arso

Superava le ceneri dei portoni

Scorreva sul ricordo delle città

La Bianca Locomotiva

Com’è giunta nel paese della morte

Spettro vivente vero prodigio

Qui tra vuoti futili versi

Qui dove c’è solo polvere nera

La Bianca Locomotiva

Oh di chi oh di chi è

Un così bel generoso gesto

Chi me l’ha mandata qui

Per fuggire da qui

Con la Bianca Locomotiva

Oh chi chi può essere

Senza di me chi non sa vivere

E di risuscitare m’implora

Di svegliarmi al caro richiamo

Della Bianca Locomotiva

Andiamo per i prati neri

Andiamo per il bosco arso

Superiamo le ceneri dei portoni

Scorriamo sui ricordi delle città

Con la Bianca Locomotiva

Dove frusciano le api i gorghi il fiume

Dov’è il sole e l’ombra degli alberi

Da quella che nella vita mi aspetta

Alla vita riportami riportami

O Bianca Locomotiva

 

*  *  *

Ho appena trascorso la notte e nessuno mi accoglie

nessuno nessuno mi dice – salve

rimani a colazione e a cena

e che il sonno ti possieda tra questo e quello

Ho appena trascorso la notte  e nessuno mi accoglie

e ho lavorato sodo a cercare

a ricercare queste porte immortali

in cerca di queste porte perdute

Ho appena trascorso la notte e nessuno mi chiede

nessuno nessuno mi chiede – come sei passato

come anche tu sei passato tra il nero fogliame

Ho trascorso la notte dico e sono stanco

non mi ha visitato il fauno né l’angelo custode

e nemmeno la più piccola lucciola

 

Ite Missa Est (Canto per l’uscita)

 

Va’ o uomo, va’, spargi la voce

Tutti voi chiunque siate andate

Sia di colore, sia bianchi e neri

Andate specie voi, o tapinelli

attraverso gli aperti cancelli

 

Per tutti c’è posto sufficiente

Sotto la grande volta celeste

 

Spargetevi per le strade

Per i prati, per le vaste pianure

Per campi, praterie e pasture

Sotto le nubi o sotto il sole

 

Spargetevi nei bassipiani

Spargetevi negli altipiani

Dovunque voi vorrete

Sotto le nubi o sotto il sole

 

Per tutti c’è posto sufficiente

Sotto la grande volta stellata

Sulla terra che né tu né io

Muteremo in melma insanguinata.

 

Questo racconto di Edward Stachura è inserito nella mia antologia di racconti polacchi “Viaggio sulla cima della notte”, pubblicata nel 1988 da Editori Riuniti.

 

Vegliate su di me, amate aurore

 

– E’ lei?

   – Sono io, signora.

   – Accenda pure la luce, tanto non dormo.

   – No, non occorre. Vado in cucina.

   – Oh, Gesù, ha di nuovo i lividi, per questo non vuole accendere la luce.

   – No, non voglio accendere la luce, perché i suoi occhi riposino al buio. Anche se non dorme. Così ho pensato oggi. E non ho i lividi. Vado in cucina per starmene un po’ seduto e mangiare qualcosa.

   – Sulla stufa c’è la minestra, se la riscaldi. Sul fornello, perché la stufa deve essersi spenta da un pezzo.

   – Va bene, grazie. A proposito. I soldi li avrò la settimana prossima. Quindi questa settimana non potrò ancora pagare.

   – Peccato.

   – Perché?

   – Beh, perché anch’io prenderò la pensione la settimana prossima, e non è rimasto molto. Non so se ce la faremo.

   – Non lo sapevo. Domani cercherò di portare qualcosa. Buonanotte, signora.

   – Davvero non ha i lividi, non è per questo che non vuole accendere la luce?

   – No, sul serio. Buonanotte.

   – Non attacchi briga con quella banda dell’altro quartiere. Sono giovani delinquenti e sono capaci di tutto.

   – Certamente.

   – La prego. E non resti in cucina a lungo. Lei dorme così poco. Io sono io. Non ci riesco. Ma lei dovrebbe dormire almeno otto ore al giorno.

   – Certamente.

   – Ecco, vede. Mi dà ragione ma continua a fare di testa sua. Buonanotte.

   – Buonanotte, signora. La stimo molto.

   Me ne andai in cucina e accesi la luce. Misi la minestra sul fornello, attaccai la spina e mi sedetti sullo sgabello. Silenzio. L’intero palazzo dormiva già. Erano quasi le undici e mezza. Tutti già dormivano profondamente. Sui tetti si levavano i sogni. C’era un silenzio meraviglioso. La sveglia ticchettava. Nel pentolino la minestra cominciava a sfrigolare e ad odorare. Mescolai, perché non si attaccasse. Tagliai un po’ di pane, aspettai ancora un po’ per la minestra, quindi posai il pentolino sul tavolo e misi sul fornello l’acqua per il tè.

   Avevo fame. Tornavo da una ronda. Per alcune ore avevo girato e rigirato attorno al punto dove sabato mi avevano pestato quei quattro coi capelli piatti. Per quale motivo, non vale neanche la pena di parlarne. Per niente. Per l’innocenza, come si dice. La sera era vicina, cioè il tardo pomeriggio stava entrando nella sera. Del resto non è importante. Mi hanno pestato tranquillamente su una grande strada, sotto gli occhi di tutti. Nessuno ha mosso un dito. Non ci ho fatto caso. Non so, forse a più di uno sono tremate le mani o un misero rimasuglio di coscienza, forse più di uno ha inghiottito perfino la saliva, per intervenire. Non ci ho fatto caso. Ha vinto la saggezza delle saggezze, l’antica regola infallibile e ben sperimentata, che è meglio non intromettersi. Molto meglio. Forse una moglie tratteneva addirittura il marito per la manica, sussurrando una candida norma di vita: lascia perdere, resta qui, verrà la polizia, ti prenderanno, ti registreranno e ti faranno testimoniare in questura oppure in tribunale, e poi quelli possono vendicarsi, ricordati che hai me e i bambini. Così è stato, oppure non mi sbaglio di molto. Proprio così, mi hanno tranquillamente pestato sulla strada, sotto gli occhi di tutti. Poi se ne sono andati e io mi sono alzato, mi sono tirato su lentamente ed era come se mi tisassi su non dalla terra, ma dall’acqua. Mi sono fatto forza e sono arrivato pian piano alla fontana sulla piazza, dove mi sono lavato con un fazzoletto, che ha cambiato completamente colore. Ero tranquillo come di rado. Una strana calma mi aveva preso, come un lusso. Non so, ma anziché sentirmi peggio, mi sentivo meglio. Mi sentivo bene. Non pensavo ancora alla vendetta , non pensavo a niente. Non mi doleva nulla e non pensavo che domani tutto avrebbe cominciato a dolermi: la testa, le ossa, sarebbero saltati fuori i lividi e nuove macchie scure mi avrebbero turbato la mente. Non pensavo a questo, né alla vendetta, non pensavo a niente. Una certa calma si era impadronita di me ed era come se avessi dimenticato di vivere. Era sabato. Mi sentii così bene abbastanza a lungo. Qualche buona ora estratta dalla corrente. Poi tornai alla pensione e soltanto allora mi ribollì il sangue. Ma era già domenica.

   Oggi è la mezzanotte dal mercoledì al giovedì e sto finendo di mangiare. Ho pulito il piatto con il pane e l’ho messo nel lavandino. Mi sono riseduto sullo sgabello, ho tirato fuori una sigaretta e l’ho accesa lentamente. Ancora mi dolgono le dita della mano  destra, la spalla destra e la schiena. Ma, lentamente, torniamo alle origini. C’è un silenzio meraviglioso. La sveglia ticchetta, come se misurasse non il tempo, ma il silenzio. Per il momento sono libero dal tempo. Per il momento il tempo non m’interessa. M’interessa quella faccia che oggi finalmente ho visto, dopo una giornata di appostamenti e a una certa ora, ma dico tanto per dire, perché per il momento per me il tempo non conta e non conterà finché non avrò sistemato ciò che devo sistemare. Oggi finalmente l’ho visto. Lui. Il primo a gettarmi sull’erba. Erano in due. Non so se anche l’altro mi ha preso a calci. Se era uno di quelli. Hanno camminato un po’ insieme, poi si sono salutati e divisi. Ho seguito il mio uomo. E ho scoperto dove abita, fratello.

   Adesso so ciò che per il momento deve bastarmi, posso quindi fumare tranquillamente, bere il tè e pensare a tutt’altra cosa. A tutta un’altra cosa. Al fatto che ancora non sono sconfitto. Non mi riferisco alla circostanza che mi hanno percosso, che sabato mi hanno pestato e che la settimana prossima, forse anche di sabato, appena arriveranno i soldi e avrò pagato il conto per il vitto e l’alloggio, salderò, pagherò anche l’altro debito: percosso e pestato sarà un altro. Non mi riferisco a questo, benché così possa sembrare. E’ solo apparenza. Ciò che penso adesso, fumando la sigaretta, bevendo lentamente il tè, è una cosa completamente diversa. Posso essere pestato ancora dieci volte e posso riuscire a vendicarmi solo una volta o nemmeno una, e lo stesso dirò che ancora non sono sconfitto, perché non si tratterà di questo. Non di tali percosse. Non di tale lotta. E nemmeno di quella in cui cado e sento l’organo sonare. Perché qui non si tratta nemmeno della morte, – come ti amo, vita mia, – ma proprio della vita, di questo passaggio verso.

   Di questo voglio parlare adesso. E’ un racconto del tutto nuovo.

   Ancora non sono sconfitto. Ancora no, dico. Ancora a lungo no, e poi neanche per sogno. Non ho un cattivo presentimento. Non mi zufolano le orecchie. Finché sarò quello che sono, non sarò sconfitto. Sarò indistruttibile. Lo so. Forse vedrò e udrò ancora molto, forse imparerò ancora parecchio, forse molte cose cambieranno, forse cambierò il mio vestito preferito, forse cambierò parere su due o tre cose, forse cambierò perfino il mio giudizio definitivo su una sola cosa. Tutto questo è possibile, non sono un fanatico, non sono di scorza dura, la mie visioni sono smisurate in tre direzioni, forse mi aspetta il fondo, o forse mi si apriranno davanti grandi spazi e altezze addirittura inimmaginabili, tre direzioni. Non dico di no, tutto questo è possibile, non so cosa mi aspetta, cosa mi accadrà, mi può accadere di tutto, ma sarò sempre e continuamente così come sono.

   Fumo e bevo lentamente il tè. C’è un silenzio meraviglioso. Mi è difficile dire come sono. E come sarò sempre e continuamente. Sarebbe difficile con due parole. Ma anche soltanto con due parole sarebbe possibile. Sarebbe la cosa più facile. Perché quante più parole usassi, tanto peggio sarebbe, tanto più sarebbe impossibile, benché sembri il contrario. Ma così sembra soltanto. E’ solo apparenza con la lingua di fuori. A lungo, ad esempio, ho pensato che quante più ore, giorni, settimane, mesi e anni avrò alle spalle, tanto più saprò e tutto dovrà rischiararsi. A lungo ho pensato così, a lungo mi sono detto che più fossi andato avanti, più cose avrei saputo e tutto si sarebbe schiarito. Perché sembrava come se dovesse essere così. Ma è solo apparenza, con la lingua beffardamente di fuori.

   Perché in realtà non è così. Niente affatto. Mi si è schiarito ben poco con gli anni e ben poso continua a schiarirmisi. Quante nuove macchie scure appaiono. Vegliate su di me, amate aurore, luminosi mattini. Appena capisco una cosa dopo profondo racoglimento, lungo tempo e scorrere di acque, appena capisco una cosa, al suo posto saltano subito fuori dieci nuove macchie scure, dieci ombre si posano subito su chi se n’è liberato. Vegliate su di me, amate aurore, perché sguazzo nell’oscurità che infittisce.

   Ma sempre sarò così come sono. E ripeto che mi è difficile dire come sono. E sarò. Con due parole è difficile, e con molte parole è ancora peggio, perché ad ogni parola si aprirebbero nuovi canali e labirinti  e non finirei mai. Ne uscirebbe fuori un moto perpetuo. Ciò che appunto adesso mi sta succedendo. Una spirale interminabile. Un labirinto.

   Mi si chiarisce ben poco col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi e degli anni. Da una parte sono un po’ più saggio, dall’altra sono sempre più stupido, perché vedo che ciò che ho capito dopo profondo raccoglimento e molte perdite non è altro che una piuma fluttuante in confronto a ciò che è e gira. Ben poco mi si schiarisce con l’andare del tempo, parlo, e ho davanti agli occhi cerchi sempre più grandi. Spalanco sempre di più gli occhi, ma non posso abbracciarli.

   Tre domande come esempio. Tre normali semplici domande. Ad esempio, cos’è la musica? Cos’è questa musica? Cos’è che suona? Non chi suona e cosa suona: l’arpa, il violino, la tromba, il tamburo. Non si tratta di questo, soltanto cos’è che suona, che ora vola in alto, ora in basso, ora tutto si sparge, striscia l’intera struttura e di colpo tutto si solleva, il vento, le foglie tornano sugli alberi, i portoni si sollevano, gli archi, le braccia da sole si slanciano in alto, un pianto di gioia scuote le fondamenta. Oh!

   E chi sono quelli che la mattina s’incontrano alla stazione davanti a una birra e ci salutano: «Ciao, Mundek. Dove sei stato tutta la notte?» Dunque chi sono costoro? Dove girano di notte? Dove siete stati tutta la notte?

   E che cos’è, cos’è la forza di un uomo debole?

   Erano tre domande. Soltanto, appena, unicamente tre domande fatte di numeri infiniti. E semplici. O piuttosto, molto semplici. Non ricercate. Non di quelle terribili. Di quelle che penetrano in profondità e rodono il cervello.

   Si sa ben poco. Io so ben poco. E tuttavia penso che altri sappiano ancora di meno. E penso come si possa parlare così come alcuni parlano, quelli che sanno tutto, che hanno una risposta per tutto e che volta per volta generalizzano, tranquillamente, con disinvoltura, per decorazione. Io ascolto. Io ascolto e dubito, anche se sono giovane. Ma io penso che un giovane non ha troppe risposte e che non si può, non è possibile generalizzare volta per volta, perché io penso che la generalizzazione è qualcosa di più della verità, è un’intera catena, e che si può generalizzare una volta sola nella vita, sul letto di morte, ma anche allora è meglio di no.

   Si sa ben poco. Io so ben poco in questa prima ora dopo mezzanotte. Ma so che bisogna imparare, e so che devo essere così come sono. Altrimenti sarò sconfitto. Altrimenti soccomberò. Per me la vita soccomberà. E, lo ripeto, mi è difficile dire come sono. E come devo essere. Con due parole è difficile, e con più parole: è una spirale senza fine.

   E’ passata l’una, cominciano le due. Dovrei andarmene a letto, perché domattina devo cercare di guadagnare qualcosa. Penso che andrò alla torbiera fuori città. Ho visto là i carrettieri che trasportano la torba al vivaio comunale, che poi la sparge sui prati dove il terreno è magro o c’è soltanto sabbia e l’erba non vuol saperne di crescere. Quindi vi si butta sopra un bel po’ di torba e soltanto dopo seminano l’erba. Andrò là. Vi ho conosciuto un vecchio. Gli caricherò il carro e lui dovrà andare soltanto avanti e indietro. Farà sei o sette viaggi. A trenta zloty a corsa, perché è un lavoro a cottimo: in sette ore circa riceve da centottanta a duecentodieci. Se io gli carico il carro, può fare due viaggi extra. Quindi guadagnerà di più, anche togliendo un po’ di zloty per me. E poi non carica lui, anche se la torba non è come il carbone, comunque sia. Recentemente si è lamentato con me, dicendo che a tenere il cavallo in città ci si rimette, non conviene. E’ finita un’era. Si guadagnano duecento zloty al giorno, di cui quasi cento se ne vanno per il cavallo, per tenerlo in forma. La biada: quattrocento zloty al metro. La paglia: centottanta al metro. Il fieno: due zloty al chilo. Non c’è più niente a buon mercato. In campagna è tutta un’altra cosa. In campagna adesso, in genere, si arricchiscono tutti. Adesso sono dei signori. E senza cavalli. Fanno tutto le macchine. In campagna adesso la gente è come se vincesse al lotto.

   L’una e mezza. Dovrei andarmene a letto. Ma è un peccato. E’ un peccato andarsene così, in quello straccio di letto, sotto l’imbottita e sprofondare in un sonno selvaggio, morire per qualche ora, lasciare il nuovo giorno già iniziato, mentre prima di mezzanotte è un peccato lasciare il giorno non ancora finito. E’ un peccato, dico, morire per alcune ore, lasciare tutto questo privo di me, questa vita verso l’alto e verso il basso spaventosa, stupenda, questo mondo bianco e nero. E’ un peccato, dico.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

Jerzy Harasymowicz

9 Lug

Jerzy Harasymowicz – Un poeta che amava le vecchie icone e i sentieri di montagna

Wislawa Szymborska e Jerzy Harasymowicz

 

   Jerzy Harasymowicz nacque il 24 luglio 1933 a Puławy e morì il 21 agosto 1999 a Cracovia. Nel 1953 terminò il liceo forestale a Limanowa e debuttò nel 1956 con la raccolta di versi “Meraviglie”. Cominciò quindi la sua attività letteraria contemporaneamente a poeti quali: Białoszewski, Grochowiak e Herbert, e le sue poesie – assieme a quelle di questi ultimi – furono subito accolte come un lieto segno di rinascita della lirica polacca, dopo alcuni “anni di magra” per gli amanti della poesia.

   I critici e i lettori restarono incantati dalla immediatezza dei sentimenti, nonché dall’immaginazione figurativa del poeta, sotto la cui penna la realtà assumeva tratti fantastico-fiabeschi. Nei suoi versi, pieni di humor e di grazia, fu visto un ritorno alle più autentiche, originarie fonti della poesia, scorte con lo sguardo fresco e ingenuo di un bambino o di un artista popolare. Ecco cosa scrisse il poeta e critico Mieczysław Jastrun, dopo aver letto i versi giovanili di Harasymowicz: “…Nei componimenti del giovane Harasymowicz mi ha colpito l’autenticità dell’immaginazione, la freschezza dei colori del mondo…Spesso i versi giovanili, perfino di grandi poeti, risultano deboli e convenzionali. Harasymowicz è subito montato in sella, e non una sella qualsiasi, ma quella splendente dell’oro puro della poesia. Qualunque cosa egli tocchi, sia che parli dell’infanzia, di una partita a scacchi, dell’amore, dell’inverno o di gatti, tutto nelle sue parole comincia a risplendere. Proprio da questo riconosciamo un poeta…”

   L’elemento che in particolar modo contraddistingue la lirica di Harasymowicz è lo scenario poetico che fa da sfondo alle sue opere e che mostra la bellezza dell’antica cultura. Tale scenario è formato anzitutto dal paesaggio delle regioni predilette dal poeta: i Beskidy di Nowy Sącz, la valli del fiume Poprad, Muszyna e Krynica. I monti Beskidy e i boschi, l’arte popolare legata a questo paesaggio, le chiesette ortodosse nei villaggi abitati un tempo dai Rusnaki d’Ucraina, le piccole cappelle e le nicchie coi santi lungo le strade,, madonne medioevali intagliate nel legno (che poi costituiranno il tema di un distinto ciclo di versi intitolato “Madonne polacche”), icone bizantine annerite – ecco i motivi che il poeta ravviva con la sua fantasia, trasforma, dà loro foggia di fiaba con tutte le caratteristiche di questo genere: straordinarietà e prodigiosità, animazione dei fenomeni naturali e attribuzione ad essi di tratti umani.

   Il clima della poesia di Harasymowicz, benché fondamentalmente assai omogeneo, nelle sue singole raccolte ha subito certi cambiamenti. All’inizio l’insieme dei motivi del mondo della natura e dell’arte cantati dal poeta, si compongono in un modello idilliaco di paese della felicità, di un’ Arcadia che protegge il poeta dalla molesta prosa della vita. Ciò è soprattutto evidente nella seconda raccolta dal titolo significativo “Ritorno al mite paese”. Nella raccolta successiva – “La torre della malinconia” –  il poeta sembra sostituire l’estasi beata con il timore, lo sgomento, le visioni minacciose di sogni agitati. Ma è soltanto una breve parentesi, perché il substrato principale della sua immaginazione è formato non dai miraggi dei sogni, ma dalla veglia, dal mondo della natura e dal mondo umano, dall’area culturale in cui il poeta è profondamente inserito. In quest’area – accanto alla natura dei Beskidy e al mondo dell’arte popolare – rientra anche Cracovia, la città in cui Harasymowicz vive e che costituisce uno dei temi più frequenti dei suoi versi.

   Ha scritto una trentina di raccolte di poesie, talvolta pubblicandone anche più di una all’anno. A questo poeta che ha definito la poesia “la bolletta della luce dell’anima”, una volta un critico chiese: “Dove prende la forza per questo straordinario ritmo lavorativo?” E Harasymowicz rispose: “E’ semplicemente un nostro dovere”. Vengono in mente le parole di Apollinaire: “Il dovere non è una parola vuota, è la base stessa della vita sociale, senza di esso gli uomini diventano amorali. Non bisogna amare il dovere a metà; o tutto o niente, siamo creati per amarlo interamente, ma in libertà e con piacere, con interesse e senza costrizione”.

   Dopo un periodo di calorosa approvazione da parte dei critici più illustri (ad esempio Kazimierz Wyka, morto nel 1975, e Jerzy Kwiatkowski) che hanno sottolineato gli alti valori dell’immaginazione poetica di Harasymowicz, la sua creazione a volte è stata accolta freddamente. Gli è stata imputata l’omissione dei più importanti problemi della vita contemporanea, la mancanza di approfondimento intellettuale, il sentimentalismo e l’adescamento dei lettori con i facili effetti dello stile. “Vale comunque la pena di rilevare – scrive il critico Ryszard Matuszewski – che spesso simili addebiti vengono rivolti (specialmente nei circoli specialistici) alla poesia i cui valori consentono di ottenere una vasta popolarità. Essi non vennero risparmiati neanche al poeta K.I. Gałczyński, al quale Harasymowicz viene spesso paragonato”.

   Sorprende e suscita rispetto  la coerenza del poeta che non abbandona la sua strada, benché si renda conto che su di essa lo aspetta la solitudine, perché non è la strada maestra della contemporaneità. Ma egli ha consapevolmente scelto i poco frequentati sentieri di montagna, volendo lasciarsi alle spalle tutti i conflitti, le lotte, le mode, le illusioni e i timori della nostra epoca. Forse anche da questo deriva la popolarità del poeta, forse proprio per questo le persone stanche della civiltà leggono così volentieri le sue poesie, nelle quali trovano parole e immagini ristoratrici, come una sorgente nel bosco, durante la canicola.

 

5 poesie di Jerzy Harasymowicz tradotte da Paolo Statuti

 

Mochnaczka (1)

Arrivo III ottobre ‘77

 

Il larice dorato nel buio

m’indicava la strada per giungere a Te

con la spada fiammante dell’autunno

– adesso

mi guarda soltanto

e nulla dicono le Sue maniche

corrugate dallo stupore

Non dice una parola

la Sua camicetta ricamata

col paesaggio del luogo

Con la ricamata

rosa selvatica

del cuore

E’ tranquilla

ed è un normale

giorno pieno di arnesi

E stiamo

faccia a faccia senza parlare

sulla stretta passerella

– del pavimento

sotto il quale fruscia

la nostra vita selvaggia

E vedo

nei suoi occhi riflesse

due chiese

colme di lacrime

E lei vede

i miei capelli

coperti di brina

Per i quali un giorno

si tolse di dosso senza parlare

il giorno dei suoi vent’anni

 

(1) Campagna nel voivodato di Nowy Sącz.

 

Somigliante a una Zingara

Così piccola

che potrebbe

abitare in un verso

Somigliante a una Zingara

ricoperta

dell’oro puro

della giovinezza

con i tratti d’Ucraina

neri come selva

Con la gonna nera

tutta a fiori

di questo mattino

Tre giorni ha volato

vicino alla mia mano

come farfalla

Non credendo a nessuna

delle mie parole

 

Il bosco

I funghi velenosi

ad ogni costo

vogliono essere colti

Il sempreverde

taglia le mani

come rasoio

Gli acquitrini cercano

di vendere a ciascuno

i loro tappeti

Nella radura

è nero dal tanto veleno

Ti sorridono

la cicuta e il veratro

Il bosco è silenzioso

e mite

 

 

Dalla veranda

Dalla veranda riconosco il bosco

Livido d’inizio primavera

Sul tavolo batte la pioggia

Consacra i primi anemoni

Dalla veranda riconosco il Poprad

Che lava lo sporco dell’inverno

Tra le betulle la luna nitrisce

Come un roano grigio

E il mondo riconosce me

Quello che viene con la parola

Quello che i blocchi di ghiaccio

Spezza a metà come un ferro di cavallo…

 

I gatti

Che facciamo la mattina? Già, la mattina dormiamo,

sempre che qualcuno non ci tiri per la coda all’improvviso.

Eh sì, perché noi allora soniamo la sirena dei pompieri.

E nel pomeriggio? Nel pomeriggio, noi gatti, come Colombo

andiamo chissà dove lungo il recinto, lontano,

pensando profondamente ai topi e al latte.

E la sera?

La sera saltiamo giù chissà dove. Attraverso lucenti scodelle-

                                                                                               lune

mordiamo i baffi e tiriamo fuori le sciabole

prima di scendere nelle silenziose cantine.

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Adam Ważyk (1905-1982)

8 Lug

 

8 poesie di Adam Ważyk tradotte da Paolo Statuti

 

Il mare

Adam Ważyk

Porti sono ovunque.

Anche Varsavia è una marina.

Ogni giorno aspettando il tranvai,

Guardo lo yacht in vetrina.

E domani o dopo ci sarà

L’Atlantico o l’Aviatico blu.

Come gli occhi – la nave mi porterà

Sopra o sotto, correndo sempre più.

Chi dice che dodici anni dopo il naufragio

Non si può sul Titanic viaggiare?

Ogni sera, ogni notte salpiamo,

Partiamo senza salutare –

Ed or che scrivo di nuovo, dopo il lungo abbandono,

Il mar non ci divide, credi. Con te io sono.

1924

 

Gli uccelli di Varsavia bruciata

Gli uccelli, di Varsavia bruciata spettatori,

volano e piangono nel secolo-squallore.

La verità nel loro becco è una festuca,

al sole guizza la loro ombra minuta.

Una figlia di Varsavia guarda scalza gli uccelli,

che non faranno il nido nei suoi capelli.

Un uccello le invidia la spina nel piede,

e canta la città dell’amore e della fede.

Posando i mattoni in terra l’uomo costruisce

la città, che da sotto le palpebre conosce.

1945

 

Orfeo

Tutti ma tutti gli alberi lungo la strada

tendono su di me i neri gracili rametti

in incredibili orditi di trina

come se altri colori non avesse mai visto la terra

ma essi sono essi splendono in questo viale estremo

davanti a me va come Euridice

una fanciulla già donna

con un berretto di lana rossa

coi guanti di lana rossa

e il paltò coi polsi d’agnello

Questa scena si rinnova dinanzi a me da anni

la scena si ripete ma ogni volta è qualcun’altro

irripetibile

Lo so anche senza vedere il suo volto

E’ per me il più bel sapere

la più bella discesa lungo il pendio del tempo

è per me la disperazione

1963

 

Giugno di sangue 1956

Appendete le coscienze nell’armadio

appoggiatevi con un braccio all’aria

sprofondate nelle rovine dei sogni

discutete pure

Una vecchietta porta nel fazzoletto due pani

                                            forati dai proiettili

la radio trasmette un mazzetto di suoni

il segnale geodetico

che nessuno capisce

Così dev’essere

le parole non contano più

troppe ne sono cadute

giugno finisce

come questi versi

nel silenzio

 

Ibico

Svegliato nel cuore della notte

sei come Ibico aggredito dai ladri

ma non hai testimoni in cielo

non ci sono le tue gru

soltanto un cieco pipistrello vola qua e là

Cieco e reale

e da nessun’altra parte che

dal sogno o da vecchi versucoli

E il risveglio è sempre continuamente sogno

Alla memoria  di  A. W.

Passando un ponticello tutti gli sguardi

si perdono nell’acqua tersa

Passando le rotaie corrose dalla ruggine

tutte le speranze muoiono

Passando dal sogno all’interpretazione

tutte le chiavi si spezzano

Tra il ricordo e l’allucinazione

tutte le coscienze tacciono

 

Romanticismo

                                                  Alla memoria di Nerval

Nel parco a primavera dove il poeta un tempo

pensava triste che la gioia lo scansava

quando una bella donna gli passava accanto

sconosciuta lontana e chissà chi amava

sedevo avendo davanti a me il viale

così deserto ed oltre il gioco del destino

quando lei passò rincorrendo l’irsuto spaniel

col suo casco di capelli nero corvino

e il rosso vestito sull’agile figura

il volto da pallide efelidi macchiato

e negli occhi aveva la prodiga natura

è risonato un riso e il tempo s’è fermato

 

 

Lo sbaglio

Ho alzato il ricevitore

ho fatto il numero di conoscenti

dall’altra parte s’è inserita

una vocina infantile interrogante

era la mia voce che giungeva da un passato lontano

la mia voce distante di anni irreparabili

Posando il ricevitore borbottai ho sbagliato

Era colpa del telefono

o era guasto il meccanismo del cosmo?

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Stanislaw Baranczak, Ryszard Krynicki, Adam Zagajewski

7 Lug

poeti della nouvelle vague polacca („Nowa Fala”)  tradotti da Paolo Statuti

 

Stanisław Barańczak (1946)

 

Perché restate lì

Stanislaw Baranczak

Donne mature,

vecchiette, pensionati:

perché vi siete eretti

a muro di quel palazzo,

nel cui anello di mattoni

è montato il brillante

della vetrina: “LA CARNE”?

Perché quel muro,

quel coro di tragedia,

per quale senso comune,

generale e necessario,

legato alla fila

di lontana memoria?

Perché insistete

un giorno dopo l’altro,

a chi date l’esempio

con quei vostri occhi spenti?

Quale legge difendete

col vostro muro

di volti ottusi?

Per quale nebbia,

per quale stolta pena,

dalle quattro di mattina,

come condannati al muro,

pensate che dalla nebbia

arrivi in tempo la grazia?

 

Perché restate,

non so cosa c’è dietro

a tutta questa storia,

o donne stremate e scialbe,

o miei pensionati ingobbiti,

là contro il muro

spinti da una speranza

invisibile,

là contro un senso oscuro –

oscuro, eppure anche mio,

e anch’io sto lì per esso,

a costo di lacerarmi,

spezzarmi, fuggire via,

 

sì, anch’io, nel coro

silenzioso e stanco.

 

 

Guardiamo la verità negli occhi

 

guardiamo la verità negli occhi: negli assenti

occhi di qualcuno urtato per caso

che passa col bavero alzato; nei rappresi

occhi rivolti all’orario delle partenze

dei treni a lungo raggio; nei miopi

occhi accostati alle righe dei giornali;

negli occhi lavati in fretta la mattina

da un sogno indocile, in fretta liberati

di giorno da lacrime indocili, in fretta

coperti con monete, perché anche la morte

è indocile, troppo incalza nei vicoli ciechi

delle orbite; quindi tutto cediamo

di noi a questi sguardi, restiamo all’altezza

degli occhi, come una scritta sul muro, osiamo guardare

la verità negli occhi grigi, così insistenti,

che sono dovunque, inchiodati alla strada sotto i piedi,

incollati a un manifesto e fissi alle nubi;

e benché sotto di noi mai si pieghino

le gambe, questo solo riuscirà a metterci

in ginocchio.

 

1970

 

 

Se proprio devi urlare, fallo sottovoce

 

Se proprio devi urlare, fallo sottovoce (le pareti

hanno

le orecchie), se proprio devi fare all’amore,

spegni la luce (il vicino

ha

il binocolo), se proprio devi

alloggiare, non sbarrare la porta (il potere

ha un mandato),

se proprio

devi soffrire, fallo a casa tua (la vita

ha

i suoi diritti), se

proprio devi vivere, limitati in tutto (tutto

ha

i suoi limiti)

 

N.N. comincia a porsi domande

 

Parlare una lingua, in cui la parola “sicurezza”

desta il brivido dell’orrore, e la parola “verità” è

il titolo d’un giornale, le parole “libertà” e

“democrazia” sono soggette per motivi di servizio

a un generale di polizia;

com’è accaduto, che abbiamo cominciato

a scherzare con questo. Con questi giochi di parole. Calembour,

papere, capovolgimenti di significato,

con questa poesia linguistica.

Vivere in tempi pieni d’incessante ammiccamento,

d’occhiatine eloquenti, di moniti col dito

alzato (non posso farci niente,

lei capisce), di pacche sul ginocchio

sotto il tavolo presidenziale (in privato la compatisco,

compagno), di cordiali abbracci

dei delatori di ieri;

che cosa insomma ci succede, che continuiamo

a scherzare con questo. Con questi gesti di rito, segni

d’intesa. Svaghi movimentati all’aria più aperta,

con questa ginnastica artistica.

Vivere su un territorio “detto giustamente il nostro campo”,

dove un piatto di carne alla luce di recentissime

ricerche risulterebbe nocivo,

dove ogni aumento dei prezzi significa

benessere che aumenta, dove di tutto hanno colpa gli Ebrei,

che non ci sono (il grosso l’ha sistemato il gas, il resto un

                                                                    quarto di secolo dopo

i giornali), dove come ad Atene fioriscono le accademie

poliziesche e dove la scheda nell’urna getta,

senza nemmeno guardarla, quasi il 100% del popolo,

inclusi gli infermi negli ospedali, i detenuti

e qualche defunto;

che cosa insomma ci costringe a scherzare

continuamente con questo? Con questi logici enigmi?

                                                                     Con tutti questi

brillanti paradossi? Con questi cruciverba intellettuali?

Eh?

 

13.11.79: Elegia seconda, genetliaca

 

                       Dal compleanno mi tengo

                       lontano e sulle dita

              conto i miei trentatré anni, compiuti

                       alla svelta e a tirar via

   come un lavoro urgente che non mi è mai piaciuto

                        perché mi metto la mano

                        sul cuore e riconosco: non

               mi aspettavo affatto proprio questa vita,

                        proprio questa e nessun’altra,

   quando a suo tempo venni al mondo. A dirla schietta,

                          se si tratta della vita,

                          non ho un’opinione

                foggiata dall’uso corrente, né un cassetto

                          che scorra liscio su e giù,

   con il quale poter chiudere ermeticamente

                           la bocca ai dubbi; alle mie

                           opinioni – secondo me –

                 manca la destrezza, manca l’urbanità,

                           che agevolano la vita

   nei suoi momenti seri, ad esempio nel momento

                            della morte. La parola

                            estrema è di chi n’è certo,

                 di chi risoluto afferma: “il più importante

                            è sopravvivere”, oppure

   “la vita ha i suoi diritti”, oppure (meglio ancora)

                            “la vita è la vita”; nelle

                            mie opinioni non c’è traccia

                  alcuna della certezza, che realmente

                             la vita (propria) è importante

   e che ha  i   s  u  o  i   diritti, e che inoltre è 

                             la vita e non qualcos’altro;

                             non sono certo della mia

                   vita, non sono certo di me stesso, non so

                             neppure se sento la fossa 

   certa sotto i piedi, già, incerto è perfino

                             il paternoster (mai sono

                             riuscito a impararlo bene

                     né a dirlo difilato come un robot,

                              senza sosta mi ha schiacciato

   questo globo di ghisa , è così arduo sollevarlo

                                fino ai certi bordi del cielo,

                                vola e porta coccinella

                      di pane certo una mollichella, no, tuttora

                                 non so come dire questo

   con voce certa e piena, dove troverei una tale

                                  voce, se la gola ancora

                                  duole dopo il primo grido,

                        quello di trentatré anni fa) ; no, non sto

                                   sopra un terreno certo, sto

   sulla mobile sabbia, che misura il mio, il nostro tempo

Ryszard Krynicki

 

Ryszard  Krynicki  (1943)

 

 

La nostra vita cresce

La nostra vita cresce come lo sgomento e la paura,

la nostra vita cresce come la fila per il pane;

la nostra vita cresce come erba, come polvere e muschio

come ragnatela, come brina e coltura di muffa,

la nostra vita cresce implacabile come la tosse e la risata;

a prescindere da guerre, tregue dei negoziati,

distensione, variazioni di clima, ONU,

sfruttamento segreto e palese tirannia,

spocchia di nere limousine e di gelidi giudici,

servitori dell’infamia, sudditi della nullità,

oggetti smarriti e sogni plastici,

giornali velenosi e trapianti di cuore,

trattati segreti e palese menzogna,

dileggio delle nostre reliquie,

inquinamento dell’atmosfera e terremoto;

la nostra vita cresce irresistibile, nelle macerie

e attraverso il sonno più profondo,

al di sopra di noi, intorno a noi e attraverso di noi, che siamo

i suoi prodighi figli,

la nostra vita cresce come il celato aumento dei prezzi, la

science fiction,

come la pressione sanguigna, gli imperi della finzione,

la paura di far tardi al lavoro o di guardare negli occhi;

la nostra vita cresce come il feto e come la fame,

la nostra vita cresce come la flora e la fauna

ma la nostra vita non cresce come l’odio, la brama di ritorsione

o la sete di vendetta

e anche quando non sa cosa vuole,

la nostra vita vuole vivere

da uomo

1978

 

 

 

Dicendo

 

Dicendo: – Come posso lottare

per i diritti umani

se ho moglie e figlio

tu stesso li condanni a una pena,

la cui misura non conoscono

neppure i carnefici.

1981

Cosa vai sognando

 

Poveretta, cosa vai sognando,

quale forza?

Sono forse la sua prova le prigioni:

nella più grande di esse non sfuggirai

al più piccolo pericolo.

Possono forse dartela la polizia e le forze armate:

contro chi le manderai,

se non contro te stessa?

1978

 

Anche

 

Le nuvole liberamente varcano i confini

e violano lo spazio aereo del paese limitrofo,

le onde marine scorrono

in acque territoriali altrui,

la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo

si piega alle costituzioni,

le costituzioni sono meno pratiche

dei codici penali:

da quando negli stati polizieschi

si è decretata la tutela dell’ambiente naturale,

anche il destino della natura

sembra essere pregiudicato

1978

La lingua, questa escrescenza carnosa

 

Al Signor Zbigniew Herbert                                                   

                                                            e al Signor Cogito

la lingua, questa escrescenza carnosa che cresce nella ferita,

nell’aperta ferita della bocca, che si ciba di falsa verità,

la lingua, questo cuore scoperto, nuda lama

indifesa, questo bavaglio che soffoca

la nascita delle parole, questa bestia addomesticata

coi denti umani, questo elemento disumano che cresce in noi

e ci sovrasta, questa bandiera rossa che sputiamo

col sangue, questo bìfido che accerchia, questa

vera menzogna che abbaglia,

questo fanciullo, che imparando il vero, veracemente mentisce

1975

Libri, quadri

 

Libri, quadri, una collana di ambra,

l’alloggio, se vivremo abbastanza,

lo sguardo del cielo e una goccia di rugiada,

una conchiglia tigrata, il passaporto, la memoria,

una patria umana senza esercito e frontiere,

gli anelli nuziali, le fotografie, i manoscritti,

cinque litri di sangue (in tutto: dieci), la fame,

le aurore serali e il dono del mattino,

tutto possiamo perdere,

tutto è possibile toglierci

tranne le indipendenti,

anonime parole,

anche se ci hanno solo attraversato,

tranne la santa parola, che benché

annotata nel ghiaccio delle lingue morte

riuscirà un giorno a risuscitare.

1978

Non serve

 

Non serve cercare,

da soli si ritrovano, gli schiavi,

inclini a esercitare quel potere

che su di noi

può avere soltanto l’amore

e una malattia mortale.

1978

Quasi come

 

No, non come in un sogno: quasi come

sulla strada di una città sconosciuta,

dove non ti troverai mai più,

rammenti parole e indirizzi,

ne sono rimasti così pochi:

muto telefono, muta neve,

tracce di piè di porco sulla porta –

cosa si riuscirà a salvare?

Due frasi, il numero di casa,

non sprecarli, conservali

per i momenti difficili.

Va’, non guardarti intorno.

Guarda attentamente avanti.

1985

Rue de Poitiers

 

Tardo pomeriggio, nevicchia.

Non lontano dal Musée d’Orsay in sciopero

si vede un grigio fagotto sul marciapiede:

un barbone raggomitolato (o un migrante

da un paese dove infuria la guerra civile)

disteso sulla grata, imbacuccato nella coperta,

sacco a pelo di fortuna e diritto alla vita.

Ieri aveva ancora il transistor acceso.

Oggi le monete che infreddiscono formano sul giornale

costellazioni di pianeti e lune inesistenti.

(Novembre 1995)

Tornando da Assisi

 

Giotto storpiato. Un chiassoso: Silenzio!

Da un veicolo per il trasporto di animali

sorpassato sulla strada

mi accompagna lo sguardo

smarrito di un vitello

condotto al mattatoio.

Aiutalo, san Francesco.

Appari davanti alla porta del macello.

E se ora sei occupato,

manda

fra Silvestro

o il lupo di Gubbio.

(1 agosto 2003)

 

Macchine da scrivere

 

conosco posti

che possiedono macchine da scrivere

che si trasformano (secondo

la situazione) in altoparlanti di registratori, in apparati

d’intercettazione, nella perversa

pianta detta drosera (oppure donna), o infine

in tritacarne

il poeta (di solito è un patito della poesia del sangue e della

terra,

ossia un c.d. poeta nazionale)

grazie a tale macchina da scrivere

risponde esattamente alle esigenze del momento:

basta che nella sua macchina macini una porzione giornaliera

di giornale, la propria madre,

un bambino di altri o suo

oppure la moglie sua o di altri

conosco altresì qualche poeta metafisico

(tra essi anche alcuni surrealisti)

che si muovono in aiuto delle bocche di altri

(oggigiorno le bocche sono ali involute)

1975                            dal volume: “Organismo collettivo”

Nuovo foraggio

 

Il problema di cosa fare coi vecchi

giornali – sembra risolto. Uno scienziato

americano, il dr. David Dinius, ha sperimentato che

i giornali mischiati a soia, vitamine ecc., diventano

un ottimo foraggio

per le vacche. Come sostiene lo scienziato, una sola

vacca americana

può consumare più di 80 pagine al giorno

di giornali tagliati a strisce, prescindendo dalla lingua

in cui il giornale è scritto. Il nuovo metodo di alimentazione

riduce il costo di mantenimento degli animali e, al tempo stesso –

dice il dr. Dinius –

rappresenta un contributo alla soluzione del problema

dell’inquinamento delle città, a tale riguardo scienziati di tutto

il mondo

meditano sulla possibilità di nutrire gli animali anche

con televisori, automobili e acciaierie.

marzo 1971                        dal volume: “Organismo collettivo)

Adam Zagajewski  (1945)

 

Il fuoco

 

Sono forse un comunissimo borghese

che difende i diritti d’ognuno, la parola libertà

intendo senza straordinarie restrizioni

di classe, ingenuo politicamente, di media

istruzione (brevi attimi di chiarezza

sono il principale alimento), ricordo

l’ardente appello di quel fuoco, che secca

le avide labbra della folla e poi brucia

i libri, carbonizza la pelle delle città, cantavo

anche quelle canzoni, so come è stupendo

correre assieme agli altri, più tardi resterò solo,

in bocca ho il sapore della cenere e sento

della menzogna l’ironica voce, urla il coro

e io mi tocco la testa là sotto le dita

il cranio ricurvo – della mia patria il duro lembo.

 

I filosofi

 

Finitela d’ingannarci o filosofi

il lavoro non è la gioia l’uomo non è il fine ultimo

il lavoro è sudore mortale Dio quando torno a casa

vorrei dormire ma il sonno non è che la cinghia di trasmissione

che mi porge al giorno che segue e il sole è una falsa

moneta al mattino squarcia le mie palpebre saldate come prima

della nascita le mie mani sono due sfruttati e neanche

le lacrime mi appartengono prendono parte alla vita pubblica

come oratori con le labbra screpolate e il cuore che

si è risaldato al cervello

il lavoro non è gioia ma dolore incurabile

come malattia della coscienza aperta come nuove borgate

per le quali con alti stivali di pelle

passa il cittadino vento

 

*  *  *

 

ma non vedi

ma non ti accorgi

quale rabbia regna nelle nostre case

nelle nostre strette case zeppe di mobili

e di figurine di ceramica

le figlie troppo a lungo vivono con le madri

i figli troppo a lungo restano in casa

non hai notato che così non possono levarsi i canti

i canti esigono la libertà il passo lieve

del vento e occorre che qualcuno scherzi quando gli altri cantano

non hai notato come stona l’Internazionale nei saloni

forniti di soffici ovattate poltrone

com’è sordo il suo suono

e come echeggiava una volta nelle piazze

e nelle gole dei grandi cortei

quando sbriciolava i muri dei palazzi borghesi

ma le città si risveglieranno

di nuovo echeggeranno i canti

 

Non permettere alla concentrazione di sciogliersi

 

Non permettere alla concentrazione di sciogliersi

Lascia che immobile duri l’istante fulgente

anche se finirà il foglio e la fiamma lampeggiante

Ancora non riusciamo a coglierci

lento come il dente del giudizio cresce il sapere

Ancora troppo in alto sulle bianche porte

è segnata la statura dell’uomo

Da lontano giunge l’allegra voce d’una tromba

e rannicchiata come gatto che dorme una canzone

Ciò che passa non si tramuta in vuoto

Di continuo nuovo carbone nel fuoco getta il fochista

Non permettere alla concentrazione di sciogliersi

In un asciutto resistente tessuto

la verità devi fissare

 

 

 

Silenzio

 

Anche in una grande città cala

a volte il silenzio e lungo il marciapiede

si sentono, spinte dal vento,

avanzare le foglie dell’anno scorso,

nel loro interminabile cammino

verso la distruzione.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Karol Wojtyla (1920-2005)

4 Lug

 

Beato Karol Wojtyla

Poesie di Karol Wojtyła tradotte da Paolo Statuti

 

(Dal poema: “Canto del Dio nascosto”)

 

Che vuol dire, che scorgo così tanto, se nulla vedo,

quando dietro l’orizzonte l’ultimo uccello è già disceso,

quando l’onda nel vetro l’ha nascosto – ancora più in basso

                                                                                    son calato,

immergendomi assieme all’uccello nella corrente del freddo

                                                                                               vetro.

Quanto più tendo lo sguardo, tanto meno vedo,

e l’acqua china sul sole tanto più il riflesso avvicina,

quanto più lontana dal sole la scinde l’ombra,

quanto più lontana l’ombra dal sole scinde la mia vita.

Dunque nell’oscurità c’è tanta luce,

quanta vita c’è in una rosa dischiusa,

quanto dio che scende

sulla riva dell’anima.

 

(Dal poema: “Profili del Cireneo”)

 

I piedi cercano nell’erba – c’è la terra.

Gli insetti bucano il verde e cullano il rivo del sole.

 

I piedi sfregano il selciato, il selciato sfrega i piedi a sua volta.

Non c’è patos. C’è il pensiero non esaurito nella folla.

Prendi il pensiero – se riesci – prendi il pensiero, immettilo

nelle dita degli artigiani, o anche nelle dita delle donne

che scrivono a macchina otto ore ogni giorno

le nere lettere appese alle palpebre arrossate.

Prendi il pensiero e completa l’uomo

oppure permettigli d’iniziarsi di nuovo

o invece: lascia che egli Ti aiuti soltanto,

e Tu guidalo.

 

(Dal poema: “Canto del Dio nascosto”)

 

Portami, Maestro, ad Efrem, e lascia che resti con Te,

dove calano sulle ali degli uccelli i lontani lidi del silenzio,

come il verde, come l’onda rigonfia, non offuscata dal tocco

                                                                                           del remo,

come un largo cerchio sull’acqua non impaurito dall’ombra

                                                                                   dello spavento.

Grazie, che hai così distanziato il luogo dell’anima dal clamore

e in esso dimori amichevolmente circondato di strana povertà,

smisurato, occupi appena una piccola cella,

ami i luoghi deserti e spopolati.

Perché sei il Silenzio stesso, la grande Quiete,

privami dunque della voce,

e infondimi soltanto il tremito della Tua Esistenza,

il tremito del vento nelle spighe mature.

(Dal poema: “Canto del Dio nascosto”)

 

L’amore tutto mi ha chiarito,

l’amore tutto mi ha risolto –

per questo venero l’Amore,

ovunque esso dimori.

E sono diventato una piana aperta per la quieta corrente,

in cui non c’è nulla dell’onda mugghiante, non poggiata

                                                                       su tronchi iridati,

ma c’è molto dell’onda placante, che negli abissi la luce

                                                                                   sorprende

e questa luminosità respira su foglie non argentate.

Dunque io-foglia celato in questa pace,

sottratto al vento,

più non mi affliggo per nessun giorno che cade,

perché so che tutti cadranno.

 

(Dal poema: “Canto del Dio nascosto”)

 

Il Signore, se nel cuore attecchirà, è come un fiore

assetato di sole ardente.

Vieni dunque, o luce, dagli abissi dell’oscuro giorno

e posati sulla mia sponda.

Ardi non troppo vicino al cielo

e non troppo distante.

Ricorda, o cuore, lo sguardo

in cui ti aspetta l’eternità intera.

Chinati, o cuore, chinati, o sole costiero,

annebbiato negli abissi degli occhi,

sopra un fiore inaccessibile,

sopra una rosa.

L’autore

Tanti sono cresciuti intorno a me e attraverso me, e in un certo

                                                                                        senso da me.

Sono diventato come un alveo, nel quale avanza l’elemento – il suo

                                                                                           nome è uomo.

Ma poiché anch’io sono un uomo,

per caso la ressa degli altri non mi ha in qualche modo deformato?

Se ognuno di loro sono stato in modo imperfetto, sempre troppo

                                                                                  restando me stesso –

è possibile che chi si è salvato in me possa guardarsi senza angoscia?

 

Pensando Patria

Patria – quando penso – esprimo me stesso e mi radico,

mi parla di questo il cuore, come frontiera nascosta che da me corre

                                                                                                   verso gli altri,

per abbracciare tutti in un passato più antico di ognuno di noi:

da esso emergo…quando penso Patria – per rinchiuderla in me come

                                                                                                        un tesoro.

Chiedo continuamente, come moltiplicarlo, come ampliare lo spazio

                                                                                           che esso riempie.

 

Refrain

Quando penso: Patria, cerco la strada che taglia i versanti come filo

dell’alta tensione, correndo in alto – così essa corre ripida

in ognuno di noi e non consente soste.

La strada corre per i pendii, ritorna negli stessi luoghi, diventa

il grande silenzio, che visita ogni sera gli stanchi polmoni della mia

                                                                                                            terra.

 

 

(C) by Paolo Statuti