poeti della nouvelle vague polacca („Nowa Fala”) tradotti da Paolo Statuti
Stanisław Barańczak (1946)
Perché restate lì

Stanislaw Baranczak
Donne mature,
vecchiette, pensionati:
perché vi siete eretti
a muro di quel palazzo,
nel cui anello di mattoni
è montato il brillante
della vetrina: “LA CARNE”?
Perché quel muro,
quel coro di tragedia,
per quale senso comune,
generale e necessario,
legato alla fila
di lontana memoria?
Perché insistete
un giorno dopo l’altro,
a chi date l’esempio
con quei vostri occhi spenti?
Quale legge difendete
col vostro muro
di volti ottusi?
Per quale nebbia,
per quale stolta pena,
dalle quattro di mattina,
come condannati al muro,
pensate che dalla nebbia
arrivi in tempo la grazia?
Perché restate,
non so cosa c’è dietro
a tutta questa storia,
o donne stremate e scialbe,
o miei pensionati ingobbiti,
là contro il muro
spinti da una speranza
invisibile,
là contro un senso oscuro –
oscuro, eppure anche mio,
e anch’io sto lì per esso,
a costo di lacerarmi,
spezzarmi, fuggire via,
sì, anch’io, nel coro
silenzioso e stanco.
Guardiamo la verità negli occhi
guardiamo la verità negli occhi: negli assenti
occhi di qualcuno urtato per caso
che passa col bavero alzato; nei rappresi
occhi rivolti all’orario delle partenze
dei treni a lungo raggio; nei miopi
occhi accostati alle righe dei giornali;
negli occhi lavati in fretta la mattina
da un sogno indocile, in fretta liberati
di giorno da lacrime indocili, in fretta
coperti con monete, perché anche la morte
è indocile, troppo incalza nei vicoli ciechi
delle orbite; quindi tutto cediamo
di noi a questi sguardi, restiamo all’altezza
degli occhi, come una scritta sul muro, osiamo guardare
la verità negli occhi grigi, così insistenti,
che sono dovunque, inchiodati alla strada sotto i piedi,
incollati a un manifesto e fissi alle nubi;
e benché sotto di noi mai si pieghino
le gambe, questo solo riuscirà a metterci
in ginocchio.
1970
Se proprio devi urlare, fallo sottovoce
Se proprio devi urlare, fallo sottovoce (le pareti
hanno
le orecchie), se proprio devi fare all’amore,
spegni la luce (il vicino
ha
il binocolo), se proprio devi
alloggiare, non sbarrare la porta (il potere
ha un mandato),
se proprio
devi soffrire, fallo a casa tua (la vita
ha
i suoi diritti), se
proprio devi vivere, limitati in tutto (tutto
ha
i suoi limiti)
N.N. comincia a porsi domande
Parlare una lingua, in cui la parola “sicurezza”
desta il brivido dell’orrore, e la parola “verità” è
il titolo d’un giornale, le parole “libertà” e
“democrazia” sono soggette per motivi di servizio
a un generale di polizia;
com’è accaduto, che abbiamo cominciato
a scherzare con questo. Con questi giochi di parole. Calembour,
papere, capovolgimenti di significato,
con questa poesia linguistica.
Vivere in tempi pieni d’incessante ammiccamento,
d’occhiatine eloquenti, di moniti col dito
alzato (non posso farci niente,
lei capisce), di pacche sul ginocchio
sotto il tavolo presidenziale (in privato la compatisco,
compagno), di cordiali abbracci
dei delatori di ieri;
che cosa insomma ci succede, che continuiamo
a scherzare con questo. Con questi gesti di rito, segni
d’intesa. Svaghi movimentati all’aria più aperta,
con questa ginnastica artistica.
Vivere su un territorio “detto giustamente il nostro campo”,
dove un piatto di carne alla luce di recentissime
ricerche risulterebbe nocivo,
dove ogni aumento dei prezzi significa
benessere che aumenta, dove di tutto hanno colpa gli Ebrei,
che non ci sono (il grosso l’ha sistemato il gas, il resto un
quarto di secolo dopo
i giornali), dove come ad Atene fioriscono le accademie
poliziesche e dove la scheda nell’urna getta,
senza nemmeno guardarla, quasi il 100% del popolo,
inclusi gli infermi negli ospedali, i detenuti
e qualche defunto;
che cosa insomma ci costringe a scherzare
continuamente con questo? Con questi logici enigmi?
Con tutti questi
brillanti paradossi? Con questi cruciverba intellettuali?
Eh?
13.11.79: Elegia seconda, genetliaca
Dal compleanno mi tengo
lontano e sulle dita
conto i miei trentatré anni, compiuti
alla svelta e a tirar via
come un lavoro urgente che non mi è mai piaciuto
perché mi metto la mano
sul cuore e riconosco: non
mi aspettavo affatto proprio questa vita,
proprio questa e nessun’altra,
quando a suo tempo venni al mondo. A dirla schietta,
se si tratta della vita,
non ho un’opinione
foggiata dall’uso corrente, né un cassetto
che scorra liscio su e giù,
con il quale poter chiudere ermeticamente
la bocca ai dubbi; alle mie
opinioni – secondo me –
manca la destrezza, manca l’urbanità,
che agevolano la vita
nei suoi momenti seri, ad esempio nel momento
della morte. La parola
estrema è di chi n’è certo,
di chi risoluto afferma: “il più importante
è sopravvivere”, oppure
“la vita ha i suoi diritti”, oppure (meglio ancora)
“la vita è la vita”; nelle
mie opinioni non c’è traccia
alcuna della certezza, che realmente
la vita (propria) è importante
e che ha i s u o i diritti, e che inoltre è
la vita e non qualcos’altro;
non sono certo della mia
vita, non sono certo di me stesso, non so
neppure se sento la fossa
certa sotto i piedi, già, incerto è perfino
il paternoster (mai sono
riuscito a impararlo bene
né a dirlo difilato come un robot,
senza sosta mi ha schiacciato
questo globo di ghisa , è così arduo sollevarlo
fino ai certi bordi del cielo,
vola e porta coccinella
di pane certo una mollichella, no, tuttora
non so come dire questo
con voce certa e piena, dove troverei una tale
voce, se la gola ancora
duole dopo il primo grido,
quello di trentatré anni fa) ; no, non sto
sopra un terreno certo, sto
sulla mobile sabbia, che misura il mio, il nostro tempo

Ryszard Krynicki
Ryszard Krynicki (1943)
La nostra vita cresce
La nostra vita cresce come lo sgomento e la paura,
la nostra vita cresce come la fila per il pane;
la nostra vita cresce come erba, come polvere e muschio
come ragnatela, come brina e coltura di muffa,
la nostra vita cresce implacabile come la tosse e la risata;
a prescindere da guerre, tregue dei negoziati,
distensione, variazioni di clima, ONU,
sfruttamento segreto e palese tirannia,
spocchia di nere limousine e di gelidi giudici,
servitori dell’infamia, sudditi della nullità,
oggetti smarriti e sogni plastici,
giornali velenosi e trapianti di cuore,
trattati segreti e palese menzogna,
dileggio delle nostre reliquie,
inquinamento dell’atmosfera e terremoto;
la nostra vita cresce irresistibile, nelle macerie
e attraverso il sonno più profondo,
al di sopra di noi, intorno a noi e attraverso di noi, che siamo
i suoi prodighi figli,
la nostra vita cresce come il celato aumento dei prezzi, la
science fiction,
come la pressione sanguigna, gli imperi della finzione,
la paura di far tardi al lavoro o di guardare negli occhi;
la nostra vita cresce come il feto e come la fame,
la nostra vita cresce come la flora e la fauna
ma la nostra vita non cresce come l’odio, la brama di ritorsione
o la sete di vendetta
e anche quando non sa cosa vuole,
la nostra vita vuole vivere
da uomo
1978
Dicendo
Dicendo: – Come posso lottare
per i diritti umani
se ho moglie e figlio
tu stesso li condanni a una pena,
la cui misura non conoscono
neppure i carnefici.
1981
Cosa vai sognando
Poveretta, cosa vai sognando,
quale forza?
Sono forse la sua prova le prigioni:
nella più grande di esse non sfuggirai
al più piccolo pericolo.
Possono forse dartela la polizia e le forze armate:
contro chi le manderai,
se non contro te stessa?
1978
Anche
Le nuvole liberamente varcano i confini
e violano lo spazio aereo del paese limitrofo,
le onde marine scorrono
in acque territoriali altrui,
la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
si piega alle costituzioni,
le costituzioni sono meno pratiche
dei codici penali:
da quando negli stati polizieschi
si è decretata la tutela dell’ambiente naturale,
anche il destino della natura
sembra essere pregiudicato
1978
La lingua, questa escrescenza carnosa
Al Signor Zbigniew Herbert
e al Signor Cogito
la lingua, questa escrescenza carnosa che cresce nella ferita,
nell’aperta ferita della bocca, che si ciba di falsa verità,
la lingua, questo cuore scoperto, nuda lama
indifesa, questo bavaglio che soffoca
la nascita delle parole, questa bestia addomesticata
coi denti umani, questo elemento disumano che cresce in noi
e ci sovrasta, questa bandiera rossa che sputiamo
col sangue, questo bìfido che accerchia, questa
vera menzogna che abbaglia,
questo fanciullo, che imparando il vero, veracemente mentisce
1975
Libri, quadri
Libri, quadri, una collana di ambra,
l’alloggio, se vivremo abbastanza,
lo sguardo del cielo e una goccia di rugiada,
una conchiglia tigrata, il passaporto, la memoria,
una patria umana senza esercito e frontiere,
gli anelli nuziali, le fotografie, i manoscritti,
cinque litri di sangue (in tutto: dieci), la fame,
le aurore serali e il dono del mattino,
tutto possiamo perdere,
tutto è possibile toglierci
tranne le indipendenti,
anonime parole,
anche se ci hanno solo attraversato,
tranne la santa parola, che benché
annotata nel ghiaccio delle lingue morte
riuscirà un giorno a risuscitare.
1978
Non serve
Non serve cercare,
da soli si ritrovano, gli schiavi,
inclini a esercitare quel potere
che su di noi
può avere soltanto l’amore
e una malattia mortale.
1978
Quasi come
No, non come in un sogno: quasi come
sulla strada di una città sconosciuta,
dove non ti troverai mai più,
rammenti parole e indirizzi,
ne sono rimasti così pochi:
muto telefono, muta neve,
tracce di piè di porco sulla porta –
cosa si riuscirà a salvare?
Due frasi, il numero di casa,
non sprecarli, conservali
per i momenti difficili.
Va’, non guardarti intorno.
Guarda attentamente avanti.
1985
Rue de Poitiers
Tardo pomeriggio, nevicchia.
Non lontano dal Musée d’Orsay in sciopero
si vede un grigio fagotto sul marciapiede:
un barbone raggomitolato (o un migrante
da un paese dove infuria la guerra civile)
disteso sulla grata, imbacuccato nella coperta,
sacco a pelo di fortuna e diritto alla vita.
Ieri aveva ancora il transistor acceso.
Oggi le monete che infreddiscono formano sul giornale
costellazioni di pianeti e lune inesistenti.
(Novembre 1995)
Tornando da Assisi
Giotto storpiato. Un chiassoso: Silenzio!
Da un veicolo per il trasporto di animali
sorpassato sulla strada
mi accompagna lo sguardo
smarrito di un vitello
condotto al mattatoio.
Aiutalo, san Francesco.
Appari davanti alla porta del macello.
E se ora sei occupato,
manda
fra Silvestro
o il lupo di Gubbio.
(1 agosto 2003)
Macchine da scrivere
conosco posti
che possiedono macchine da scrivere
che si trasformano (secondo
la situazione) in altoparlanti di registratori, in apparati
d’intercettazione, nella perversa
pianta detta drosera (oppure donna), o infine
in tritacarne
il poeta (di solito è un patito della poesia del sangue e della
terra,
ossia un c.d. poeta nazionale)
grazie a tale macchina da scrivere
risponde esattamente alle esigenze del momento:
basta che nella sua macchina macini una porzione giornaliera
di giornale, la propria madre,
un bambino di altri o suo
oppure la moglie sua o di altri
conosco altresì qualche poeta metafisico
(tra essi anche alcuni surrealisti)
che si muovono in aiuto delle bocche di altri
(oggigiorno le bocche sono ali involute)
1975 dal volume: “Organismo collettivo”
Nuovo foraggio
Il problema di cosa fare coi vecchi
giornali – sembra risolto. Uno scienziato
americano, il dr. David Dinius, ha sperimentato che
i giornali mischiati a soia, vitamine ecc., diventano
un ottimo foraggio
per le vacche. Come sostiene lo scienziato, una sola
vacca americana
può consumare più di 80 pagine al giorno
di giornali tagliati a strisce, prescindendo dalla lingua
in cui il giornale è scritto. Il nuovo metodo di alimentazione
riduce il costo di mantenimento degli animali e, al tempo stesso –
dice il dr. Dinius –
rappresenta un contributo alla soluzione del problema
dell’inquinamento delle città, a tale riguardo scienziati di tutto
il mondo
meditano sulla possibilità di nutrire gli animali anche
con televisori, automobili e acciaierie.
marzo 1971 dal volume: “Organismo collettivo)
Adam Zagajewski (1945)
Il fuoco
Sono forse un comunissimo borghese
che difende i diritti d’ognuno, la parola libertà
intendo senza straordinarie restrizioni
di classe, ingenuo politicamente, di media
istruzione (brevi attimi di chiarezza
sono il principale alimento), ricordo
l’ardente appello di quel fuoco, che secca
le avide labbra della folla e poi brucia
i libri, carbonizza la pelle delle città, cantavo
anche quelle canzoni, so come è stupendo
correre assieme agli altri, più tardi resterò solo,
in bocca ho il sapore della cenere e sento
della menzogna l’ironica voce, urla il coro
e io mi tocco la testa là sotto le dita
il cranio ricurvo – della mia patria il duro lembo.
I filosofi
Finitela d’ingannarci o filosofi
il lavoro non è la gioia l’uomo non è il fine ultimo
il lavoro è sudore mortale Dio quando torno a casa
vorrei dormire ma il sonno non è che la cinghia di trasmissione
che mi porge al giorno che segue e il sole è una falsa
moneta al mattino squarcia le mie palpebre saldate come prima
della nascita le mie mani sono due sfruttati e neanche
le lacrime mi appartengono prendono parte alla vita pubblica
come oratori con le labbra screpolate e il cuore che
si è risaldato al cervello
il lavoro non è gioia ma dolore incurabile
come malattia della coscienza aperta come nuove borgate
per le quali con alti stivali di pelle
passa il cittadino vento
* * *
ma non vedi
ma non ti accorgi
quale rabbia regna nelle nostre case
nelle nostre strette case zeppe di mobili
e di figurine di ceramica
le figlie troppo a lungo vivono con le madri
i figli troppo a lungo restano in casa
non hai notato che così non possono levarsi i canti
i canti esigono la libertà il passo lieve
del vento e occorre che qualcuno scherzi quando gli altri cantano
non hai notato come stona l’Internazionale nei saloni
forniti di soffici ovattate poltrone
com’è sordo il suo suono
e come echeggiava una volta nelle piazze
e nelle gole dei grandi cortei
quando sbriciolava i muri dei palazzi borghesi
ma le città si risveglieranno
di nuovo echeggeranno i canti
Non permettere alla concentrazione di sciogliersi
Non permettere alla concentrazione di sciogliersi
Lascia che immobile duri l’istante fulgente
anche se finirà il foglio e la fiamma lampeggiante
Ancora non riusciamo a coglierci
lento come il dente del giudizio cresce il sapere
Ancora troppo in alto sulle bianche porte
è segnata la statura dell’uomo
Da lontano giunge l’allegra voce d’una tromba
e rannicchiata come gatto che dorme una canzone
Ciò che passa non si tramuta in vuoto
Di continuo nuovo carbone nel fuoco getta il fochista
Non permettere alla concentrazione di sciogliersi
In un asciutto resistente tessuto
la verità devi fissare
Silenzio
Anche in una grande città cala
a volte il silenzio e lungo il marciapiede
si sentono, spinte dal vento,
avanzare le foglie dell’anno scorso,
nel loro interminabile cammino
verso la distruzione.
(C) by Paolo Statuti
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