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Marian Grzesczak

22 Feb

 Un poeta e amico polacco

 

Marian Grzesczak

   Marian Grześczak è nato il 22.3.1934 a Nochow in Poznania ed è morto a Varsavia il 27.1.2010. Lo conobbi nel 1981, durante il mio soggiorno di tre mesi a Varsavia, ospite dell’Unione dei letterati polacchi, dove Marian era responsabile dell’ufficio per i rapporti con l’estero. Ha debuttato nel 1960 con il volume di poesie Lumpenezje. Tema principale di questa raccolta è la città moderna, vista attraverso i tratti del paesaggio naturale e piena di esseri intermedi tra le creature della civiltà e quelle della natura. Oltre a molte raccolte poetiche, Grześczak scrisse anche radiodrammi, articoli letterari e il romanzo Odissea, Odissea…, che ha per argomento le drammatiche agitazioni degli operai a Poznań nel giugno 1956, da lui personalmente vissute. Molto apprezzate anche le sue traduzioni soprattutto dei poeti  cechi e slovacchi.

   La sua poesia attinge dalle tradizioni delle avanguardie polacca ed europea, dalla fantasia popolare e dai testi biblici. Sorprende per la varietà dei temi e delle forme, dal poema epico sulla problematica sociale, alle liriche molto intime, fino ai versi sperimentali nello spirito della poesia concreta. Molto spesso queste diverse tendenze si fondono e la lingua riesce ad essere al tempo stesso graffiante e tenera. Molto apprezzate in particolare le raccolte Kwartal wierszy, 1980 (Trimestre di poesie) e Snutki, 2006 (Orditi), dove l’invenzione lessicale e la libertà della fantasia permettono di toccare i temi più importanti dell’esistenza: la morte, l’amore, la fede e la problematica escatologica.

   Di Marian mi piace ricordare anche il suo humor, la sua sottile ironia, il suo sorriso compiaciuto dopo una buona battuta di spirito. Ho avuto il piacere e l’onore di averlo come traduttore in polacco delle mie poesie, e ho il piacere e l’onore di pubblicare nel mio blog alcuni suoi versi nella mia versione.

 

Poesie di Marian Grześczak tradotte da Paolo Statuti

 

Vita mia, allucinazione

 

Vieni signore vendicativo

Il cane  abbaia alla porta e un fiore si foggia

 

L’attimo mite dura in uno sbattito di rondine

Le nuvolette terra terra sono neri spettri

 

Appena giunto alla soglia prosegui oltre

Incrociare i coltelli ancora non sa la fede

 

Accendere il fuoco qui tu stesso vedi com’è arduo

Un ragno pende nel mezzo dell’aria soltanto esso

 

Io so che a fissarci così non resisteremo a lungo

Un lampo da noi sorgerà una rosa sotto la bianca camicia

 

Ancora un passo ancora la falce dell’onta e un sorriso

I vivi verranno ad ammettere la propria inesistenza

 

Il tenue rudere d’un vecchio canto incontra l’orecchio

La polvere solleva la palpebra d’un azzurro antico

 

Chi fu leggiadro rimanga pure spavento

Va da te la cieca sorte sorretta dalla brama

 

Solo un passo devi giungere dov’è il cerchio rosso

Ti conducono tutti quelli non riconciliati

 

Finché ti saluteranno con la bianca bandiera

Passate tristi e non chiedete nulla a nessuno

 

Dunque sei entrato in me al centro di questa polvere

Accomodatevi prego mie luminose immagini

 

Il vostro signore muto con il gran palmo è pronto a colpire

Due calde lacrime che lottano per una guancia

 

La via delle allucinazioni è il turbinìo del crepuscolo

Più oltre più non c’è nulla spine latrati abbandono

 

La Madonna Nera

 

Dovevo essere abbandonato quando desiderai credere

Nascosto nel buio come palmo nel guanto

Cercavo con le dita tepore e aroma

Intorno è lamento

Sotto le tende degli alberi errano le ombre dei simili

 

La campana sparge sui tetti il pattume della sua anima

Un’intera generazione in attesa a un tratto vede:

All’alba sale in cielo la nera aurora

Le sue gote un aereo incide

 

Questa immagine vede solo chi dimora in alto

Ed io tra loro nero e detestante

Ma poi l’immagine ci abbandonò  come se si celasse

Nei violini della Vistola. Palmi o una prece per essa?

 

Se non sai vedere, impara ad ascoltare, o Madre.

Se desideri entrare in me, entra o Dio.

Riscalda il tuo corpo nel guanto del verso.

Che importa se ci sono più miseri che parole?

 

Dite alfine

 

Dite alfine qualcosa di buono.

Questo il popolo chiede, la nodosa pena della lingua

Ha stremato i suoi cantori, d’ora in poi egli

Comanderà con i duri palmi dei contadini,

Paziente con il silenzio delle tessitrici,

Rovente fino al biancore, nero.

 

Dite alfine qualcosa di semplice.

Tornitori, cuoche, tipografi vogliono

Capire ciò che a loro si dice,

E anche il verso ha diritto alla difesa:

Ma come posso essere chiaro, se

Vi nascondete nella reticenza,

Iniziate voi stessi.

 

Dite alfine qualcosa dal cuore.

Il popolo esige che lingua e mani non lo derubino,

Proprio lui, quando tace, scuote le vette

Di alte montagne, e poi pianta in terra

I semi delle bare e si congeda con una salva.

 

Dite alfine il vero al vostro popolo.

Confessategli le vostre speranze,

Nominate i suoi torti,

L’umiliazione quando vuole

Far fronte alla miseria, raggiunge lo sconforto,

Che uccide, ricordate.

 

Riconoscetevi nel vostro popolo.

Dategli il coraggio, che dica,

Cosa pensa, anche di voi, e perché piange.

E se vi scaccerà, non troverete posto

Neppure nei cuori dei giornali, il verso ammonisce:

 

Sui piedistalli dei televisori i vostri monumenti,

Sotto i sudari delle tribune le vostre bare,

Il vostro popolo volerà su di voi dal vento trafitto.

 

Colui che così poco chiede,

Otterrà ancora meno.

 

La destinazione del bello

 

se il bello è vocazione alla fine:

nelle cave di pietra delle case,

nella bufera delle malattie e del non adattamento,

nella nebbia dei litigi,

nella corsa della miseria,

non è più semplice

essere pastore in montagna?

Mandriano di bestiame nella depressione?

Seminatore di bene nei campi femminili?

 

Poi prendere il tempo per mano

e sedendo sulla riva

guardare come sorge la luce

fino al confine dei tempi.

 

Gli abiti della musica

 

Le allodole sono cadute

nel pozzo del cielo

 

E da lì tanto lieto cinguettìo

negli strumenti,

in cui la musica

si corica.

 

E da sola si sveglia,

quando il vento più mattiniero

avvolge le piume

dell’erba.

 

 Amorevolezza dell’abete

 

Quando il picchio

ostinatamente bussava all’abete

e nelle pause del ticchettìo

diceva: apri, apri –

gli alberi vicini

pian piano ammutolivano,

per origliare,

cosa si sussurravano quei due.

 

Ma l’abete non disse niente,

soltanto adagio socchiuse la porta.

 

*  *  *

Il vento salta sulle spalle dell’erba.

 

La piega fino a terra.

 

Poi la raddrizza

e guarda,

se cresce bene.

 

 

(C) by Paolo Statuti