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Gioacchino Rossini

17 Mar

 

 

Gioacchino Rossini

Gioacchino Rossini

 

 

 

   Di Jerzy Waldorff-Preyss (1910-1999), scrittore, pubblicista e critico musicale polacco, ho già tradotto e pubblicato nel mio blog due articoli: La musica consolatrice e Arturo Toscanini. Dal suo libro Zbuntowane uszy (Le orecchie ribelli) ho scelto e aggiungo oggi nella mia versione questo suo interessante, arguto e colorito ritratto del “cigno di Pesaro”, cigno inteso naturalmente come Maestro del Belcanto. Su questa definizione e dato che i cittadini di Lugo (città natale del padre, nella provincia di Ravenna) pretendevano che Rossini fosse lughese, il compositore ironizzava definendosi “Cigno di Pesaro e Cignale di Lugo”.

 

 

 

   Eduard Hanslick nel 1867 si trovò a Parigi ed ebbe l’onore non indifferente di essere ricevuto da Rossini, verso mezzogiorno, quando il musicista era ancora nel suo letto. Dunque non durante un ricevimento ufficiale, tra una moltitudine di persone, ma in modo strettamente privato, per parlare senza testimoni. Tale favore non era riservato a molti.

 

   Entrato nella camera Hanslick vide l’anziano compositore che faceva colazione in un letto principesco. Il cocuzzolo della testa di Rossini, calvo come un ginocchio, era coperto da una calda cuffia da notte. Accanto, lungo la parete, c’era un comò sopra il quale, su appositi appoggi, facevano bella mostra una quindicina di parrucche con capelli di diversa lunghezza. Tenendo molto all’aspetto, il compositore dopo qualche giorno cambiava parrucca, per far sembrare che i capelli crescessero in modo naturale. Poi dopo un po’ di tempo diceva agli amici: “Domattina devo chiamare il barbiere!” e indossava la parrucca dai boccoli più corti.

 

   Nella vita era simile ai personaggi da lui stesso creati, e che ancora oggi divertono tanta gente sulle scene operistiche di tutto il mondo, malgrado il trascorrere del tempo.

 

   Gioacchino Rossini nacque a Pesaro il 29 febbraio 1792, anno bisestile, per cui l’anniversario esatto della sua nascita si può festeggiare soltanto ogni quattro anni. Le fonti del talento di un grande figlio si è soliti trovarle nei genitori. Raramente tuttavia accade che l’ereditarietà sia tanto chiara e indubbia, come nel caso del piccolo Gioacchino. Suo padre svolgeva la funzione di trombettiere civico e di…ispettore del mattatoio (ricordiamo questo!). La madre vantava una breve ma luminosa carriera di cantante, nota come prima donna buffa. E così il figlio di questa coppia ereditò interamente da essa il suo talento.

 

   Terminati gli studi musicali, abbastanza irregolari e trascurati, Gioacchino Rossini cominciò a comporre nel 1806, cioè all’età di 14 anni e la sua prima opera fu Demetrio e Polibio. Nel 1812 compose cinque opere e il Tancredi, scritto l’anno seguente, riportò un successo strepitoso. In quegli anni facevano scalpore nel mondo non le bombe e nemmeno i razzi interplanetari. La gente si appassionava in modo particolare per l’arte, gli Italiani – per l’opera. Dopo la prima del Tancredi si diffuse perciò da Venezia in tutta la Penisola Appenninica la lieta novella: “Abbiamo un nuovo grande compositore. La nostra musica ha iniziato una nuova fioritura!”.

 

   Gli Italiani sono però persone dagli impulsi opposti e inaspettati. Quando il 20 febbraio 1816 il Teatro Argentina di Roma mise in scena il capolavoro di Gioacchino Rossini – il Barbiere di Siviglia, il pubblico fischiò l’opera. Perché?…

 

   Ho avuto sotto mano un breve lavoro su Rossini, in cui l’autore affermava che il Barbiere fece fiasco a causa delle persecuzioni della polizia, poiché “il libretto era stato scritto dal poeta rivoluzionario francese Beaumarchais”. Che sciocchezza madornale! Beaumarchais a quel tempo era già morto da 17 anni, e della sua celebre commedia politica era rimasta nel libretto dell’opera, uscito dalla penna di Cesare Sterbini, soltanto la pura trama amorosa.

 

   La causa dell’insuccesso della prima del Barbiere fu un’altra. Gli Italiani sono fedeli ai loro artisti prediletti, e un’opera dal titolo Il barbiere di Siviglia era stata scritta un quarto di secolo prima da Giovanni Paisiello, con la quale questo musicista si era assicurato un plauso imperituro. Per la verità il previdente Rossini aveva ottenuto il consenso di Paisiello a usare la stessa trama del libretto, e inoltre egli inizialmente aveva chiamato l’opera Almaviva, o sia l’inutile precauzione. Ma questo non bastò, i romani fischiarono il Barbiere di Rossini, parteggiando per il Barbiere di Paisiello. Ma dopo aver compiuto questo doveroso atto di giustizia, già il giorno dopo il pubblico accolse il nuovo Barbiere con un fragoroso entusiasmo. Rossini divenne l’idolo  del suo paese.

 

   E infatti è una musica davvero deliziosa!… Ma esaminiamo questo fenomeno  a mente fredda, senza eccessiva indulgenza per il suo creatore. Rossini quanto più invecchiava, tanto più rivelava la sua pigrizia. Nel caso del Barbiere, essa è visibile a cominciare dall’ouverture.

 

   Nel 1813 il compositore aveva scritto l’opera Aureliano in Palmira. Due anni dopo creò Elisabetta, regina d’Inghilterra, per la quale non volle comporre una nuova ouverture, ma usò quella vecchia dell’Aureliano. Quando poi un anno dopo il musicista iniziò a scrivere il Barbiere, per la terza volta l’ouverture cambiò la sua destinazione e fu data al Barbiere, dove restò per sempre. Ma le prove della pigrizia non terminano qui. Nella stessa partitura della celebre opera si possono trovare non solo brani presi da altre opere sceniche di Rossini, ma perfino citazioni melodiche…dall’oratorio Le stagioni di Haydn! A noi Polacchi fa piacere che per il finale dell’opera il maestro italiano abbia scelto una polonaise. E ai misteri del genio di Rossini dobbiamo aggiungere il fatto che lo strano “miscuglio” del Barbiere di Siviglia è diventato ed è ancora oggi la migliore opera buffa nella storia della musica.

 

   Che significa “opera buffa”? Essa conta 200 anni di esistenza e fu ideata come interludio tra gli atti ampollosi, lunghi e – diciamolo francamente – spesso noiosi delle opere serie del diciottesimo secolo. Affinché il pubblico non si addormentasse, le parti serie erano intervallate con allegre farse musicali, nelle quali le arie e i canti erano uniti a recitativi che acceleravano lo svolgimento dell’azione. Col passare del tempo questi interludi divennero autonomi, e presero il nome di opera buffa, cioè comica. Uno dei primi capolavori di questo genere fu La serva padrona di Pergolesi, ma il più grande in assoluto è il Barbiere di Siviglia di Rossini. Ancora oggi quest’opera incanta con la bellezza della melodia, trascina col suo ritmo vivace, brilla per l’arguzia musicale. E’ come un ottimo vino, le cui bottiglie vengono degustate da successive generazioni con sempre maggior piacere. Bisogna rendere infine a Cesare Sterbini ciò che gli spetta. Il suo libretto, benché contenga soltanto gli elementi più futili della geniale commedia di Beaumarchais, è una farsa perfetta, armoniosa e assai divertente.

 

   Un anno dopo il Barbiere Rossini creò un’altra brillante opera comica, la Cenerentola. Successivamente ebbe applausi o fischi dagli incostanti connazionali per la Gazza ladra, il Califfo di Bagdad, Semiramide e molte altre opere. Il Mosè, Guglielmo Tell e l’oratorio Stabat Mater furono scritti a Parigi. Un patrimonio musicale comprendente più di 30 opere, ma anche molte composizioni di musica sacra, orchestrali, da camera e strumentali.

 

   Lasciò l’Italia per la prima volta nel 1823, stizzito dai capricci del pubblico italiano. Da Parigi insieme con la moglie si recò a Londra, dove lo accolsero come un regnante. Si contendevano i suoi favori i sovrani e gli ambasciatori di tutte le potenze europee, dalla Francia alla Russia. Ebbe la meglio l’ambasciatore francese, proponendo a Rossini la direzione dell’Opera Italiana a Parigi. Prima di assumere questo incarico, il musicista aveva entusiasmato l’Inghilterra non solo come compositore e direttore d’orchestra, ma anche come cantante, esibendosi in duetti con la celebre Angelica Catalani. Quando sei mesi dopo salì sulla nave e lasciò la Gran Bretagna, aveva nel portafoglio l’enorme somma di settemila sterline.

 

   Abbastanza presto rinunciò alla direzione dell’Opera Italiana a Parigi, ma allora il re gli offrì una sinecura di ventimila franchi l’anno, con il titolo di primo compositore di Sua Maestà e di Ispettore Generale del Canto nel Regno. Purché non lasciasse la Francia.

 

   Ma nel 1830 scoppiò la rivoluzione di luglio, infausta per gli artisti, come tutte le scosse improvvise di questo tipo. Essa indusse Gioacchino Rossini a tornare in Italia. Dopo i Borboni sul trono di Francia era salito il re-mercante Luigi Filippo, indifferente all’arte. Inoltre aveva cominciato a diffondersi il Romanticismo e la fama di Rossini fu offuscata dalla nuova stella nel firmamento dell’opera – Jakob Meyerbeer. Amareggiato dal successo degli Ugonotti che, a suo parere, erano soltanto un chiassoso e volgare esibizionismo dei sentimenti nell’arte, Rossini lasciò Parigi e si stabilì a Bologna. Al tempo stesso decise di tacere come compositore, mantenendo il suo proposito fino alla morte. Da allora compose di rado cose di scarso rilievo, rifiutandosi di pubblicarle. Difficile oggi dire quanto in quella decisione pesassero le profonde trasformazioni nella musica e la dolorosa rassegnazione, quanto l’esaurimento della vena artistica e quanto la pigrizia.

 

   A Parigi tuttavia Rossini tornò 20 anni dopo, esattamente nel 1855. Era ormai innocuo per i concorrenti, perciò tutti accettarono di colmarlo di onori. Che reciti pure la parte di monumento vivente del passato!…

 

   La stupenda villa dei Rossini a Passy presso Parigi diventò una delle curiosità e dei vanti parigini. Vi si recavano in pellegrinaggio tutti i musicisti stranieri, come a Roma i fedeli si recano in Vaticano. Nel vecchio Rossini emerse (ricordate suo padre, ispettore del mattatoio?) una nuova passione – quella culinaria. Offrendo banchetti agli amici, egli stesso creava nuove pietanze, con particolare predilezione per quelle a base di carne. Ancora oggi nei menu dei migliori ristoranti si può trovare il manzo sotto il nome di Tournedos à la Rossini.

 

   Dovevano essere piacevoli questi ricevimenti, durante i quali l’anfitrione inteneriva gli invitati con la sua ospitalità, e la padrona di casa…li gelava con la sua tirchieria. Il malizioso Hanslick ci ha lasciato questa descrizione della signora Rossini: “Dicono che da giovane fosse bella. Quando l’ho conosciuta, dal suo viso sporgeva un enorme naso, come una torre scampata alle rovine di un castello. Il resto era coperto di brillanti”.

 

   Benevolo con tutti e cordiale, Rossini soltanto in fatto di musica conservò sempre la proverbiale severità di giudizio. A un ricevimento una celebre cantante eseguì un’aria del Barbiere, per la quale raccolse nel grembo del suo abito molte monete d’oro, e perfino anelli e braccialetti preziosi quale dono degli ascoltatori. Ma a Rossini non era piaciuta, perciò quando si avvicinò a lui e gli disse: “Vede Maestro, quanto ho ricevuto per una sola sua aria?”, il vecchio replicò: “Sono molto felice. Adesso lei ha abbastanza per pagarsi le lezioni di canto”.

 

   Il 13 novembre 1868 Gioacchino Rossini morì, dopo una dolorosa agonia. Fu seppellito con grande pompa. Presso il suo feretro chinò la testa tutta l’Europa della Cultura. Anche noi dobbiamo sospirare su quella morte dell’illustre artista, e poi prestare orecchio alla sua musica eternamente viva.

 

 

 

   Qui finisce il testo di Waldorff. A proposito di arte culinaria, la cui musa, lo confesso, è alquanto benigna anche con me, voglio terminare questo mio post con un simpatico aneddoto. Durante la visita di Richard Wagner nella villa di Rossini a Passy, è stato narrato che quest’ultimo si alzasse durante la conversazione quattro o cinque volte, per poi tornare a sedersi dopo pochi minuti. Alla richiesta di spiegazioni da parte di Wagner, Rossini rispose: “Mi perdoni, ma ho sul fuoco una lombata di capriolo. Deve essere annaffiata di continuo”.

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Andrzej Bobkowski – il “teppista della libertà”

8 Nov

 

 

   Cento anni fa, il 27 ottobre 1913, nasceva a Wiener Neustadt in Austria Andrzej Bobkowski, scrittore, saggista, drammaturgo, imprenditore, divulgatore di aeromodellismo. Per l’occasione la Biblioteka Jagiellońska di Cracovia ha allestito una mostra dedicata alla figura e all’opera di questo scrittore, chiamato il «teppista della libertà», da quando un giorno disse: «Un uomo libero, un intellettuale, scrittore e poeta davvero libero, che vuole essere libero, avrà fino alla fine di questo mondo qualcosa del teppista».

   Dal 1933 al 1936 studiò all’Istituto superiore commerciale di Varsavia. Debuttò nel 1935 sulla rivista Tempo Dnia (Ritmo del Giorno) con un breve racconto umoristico. Nel 1938 sposò Barbara Birtusówna e nel marzo del 1939 si trasferirono a Châtillon presso Parigi. Dovevano restarci fino all’arrivo dei visti per l’Argentina, dove Bobkowski avrebbe lavorato presso la rappresentanza del PEŻ (Export Polacco del Ferro), ma lo scoppio della guerra mandò a monte i suoi piani. In Francia si manteneva con il commercio. Aprì in società una lavanderia polacca intitolata allo Spirito Santo, descritta in modo divertente nei suoi ricordi. A gennaio del 1940 chiuse la lavanderia e fu assunto come operaio in una fabbrica di munizioni francese. Sei mesi dopo, poco prima dell’entrata dei Tedeschi a Parigi, fu evacuato nel sud della Francia. Iniziò a scrivere l’opera-cardine della sua vita, cioè il diario del tempo di guerra Szkice piórkiem. Francja 1940-1944 (Schizzi a penna. Francia 1940-1944), contenente i pensieri e la descrizione dei viaggi, svolti per lo più in bicicletta. In esso troviamo scritte queste significative parole: «Non credo in nessun ordinamento, me ne infischio di tutte le ideologie…Sarei piuttosto propenso a dire di credere in ogni ordinamento, ideologia o sistema, in cui si parli davvero dell’uomo. Permettere all’uomo di VIVERE – ecco l’unico sistema e l’unica ideologia, e non ORDINARE di vivere, lasciargli la scelta dello scopo della sua vita e non imporgliela dall’alto. E finire poi con l’apoteosi della morte».

   Negli anni 1945-1946 lavorò presso la sezione polacca dell’Unione della Gioventù Cristiana (YMCA), arrotondando lo stipendio con altre occupazioni temporanee, come la conduzione di una libreria polacca e la riparazione delle biciclette. Collaborò fin dai primi numeri con la rivista Kultura, fondata a Parigi nel 1947 da Jerzy Giedroyć (1906-2000). Il 25 giugno 1948 i coniugi Bobkowski emigrarono nell’America Centrale e si stabilirono in Guatemala. La moglie insegnava disegno e creava modelli, mentre il marito cominciò a lavorare nell’ufficio di una fabbrica di scarpe. Nel 1949 egli aprì un negozio di aeromodellismo – il Guatemala Hobby Shop. Raccolse attorno a sé un gruppo di giovani appassionati di modellismo. Nel 1954 prese parte ai campionati mondiali di modelli volanti negli USA, e nel 1956 in Svezia.

   Nel 1957 l’Instytut Literacki di Parigi pubblicò il diario dell’occupazione Schizzi a penna. Nello stesso anno i medici gli riscontrarono un tumore al cervello. Tre settimane dopo la prima operazione scrisse: «So che dovrei cercare di non pensare, di tornare subito alla vita normale, quando il taglio si sarà rimarginato. Ma forse soltanto in superficie. Nel fondo ormai ci sarà sempre la preparazione». Subì altre due operazioni nel 1959 e 1960. Nella primavera del 1961 il suo stato di salute si aggravò, tanto da indurlo a partire per gli Stati Uniti per curarsi e per sciare. Tornato in Guatemala morì il 26 giugno 1961. Fu sepolto nella tomba di famiglia del dottor Quevedo, ai quattro figli del quale insegnava il modellismo. La moglie Barbara  morì il 22 settembre 1982 e fu sepolta accanto al marito.

   Tra le altre opere di Andrzej Bobkowski ricordiamo: il dramma Czarny piasek (La sabbia nera, Parigi, Kultura n. 154) e il volume di racconti Coco de Oro (Parigi, Instytut Literacki, 1970).

 

   Di questo scrittore propongo qui nella mia versione il racconto Lourdes, tratto dalla raccolta Coco de Oro, e già pubblicato nella mia Antologia dei racconti polacchi (Editori Riuniti, Roma, 1988).

 

Lourdes

 

   «Sì – è una strana città», asserisce sempre uno dei miei amici francesi più cari, ogni volta che gli racconto le mie impressioni su Lourdes. E’ un cattolico praticante e non soltanto militante: è addirittura battagliero; conosce Lourdes alla perfezione, perché nel 1940, dopo la fuga da Parigi, vi ha trascorso diversi mesi. So che, se si tratta delle mie convinzioni, il suo austero cattolicesimo mi annovera piuttosto nella categoria specificamente francese di quelli «un po’ cattolici». Ma quando, dopo ogni mio soggiorno a Lourdes, provo a conversare con lui su questo tema non nascondendo l’emozione, si rifugia nel luogo comune della «strana città» e preferisce ricordare le sue escursioni sui Pirenei. Non insisto, perché lo capisco. Lo capisco ancora meglio quando io stesso mi avvicino a Lourdes.

   Quest’anno vi stavo giungendo dalla parte di Pau. La strada sale dolcemente, correndo lungo uno dei fiumi più belli della Francia. Il Gave de Pau scorre in diversi alvei, qua e là si fonde in uno solo, per poi diramarsi di nuovo in una serie di bracci. A tratti profondo e poco elevato, a tratti non profondo e in altura, sguscia via tra verdi isolette ora silenzioso, ora sonoro; qui scuro come un vetro di bottiglia, là azzurro e bianco di schiuma che si infrange sulle pietre, rallenta e accelera, tace di colpo o scroscia. Quanto più ci si avvicina a Lourdes, tanto più l’aria diventa fresca e l’acqua del Gave è più fredda. Il cielo dei Pirenei, sfiorato da una nebbiolina nerastra, spicca nettamente sull’azzurro della base infocata dei monti e ricorda il cielo delle città piene di fabbriche. Tutti gli odori diventano umidi e le more non sono più così dolci come tra Bayonne e Pau. Nello stesso tempo qualcosa si azzittisce nell’anima, si avverte un peso e il colloquio con se stessi cessa di essere semplice. Il pensiero magnificamente pagano, seminato fino a quel momento al sole e annaffiato con il vino, di colpo si sente a disagio. Subentra l’urto di qualcosa contro qualcosa, e lo schianto di questa collisione viene coperto dalla «strana città».

   Già, quante cose si dicono, quante cose si fanno, pur di non ammettere certe emozioni! Anche qui domina la moda, le cui imposizioni nella psiche dell’uomo sono rispettate più rigorosamente di ogni altra. Nei colloqui con se stessi si cerca l’effetto, come nei colloqui con gli altri. Avvicinandomi a Lourdes sento chiaramente i canoni di questa moda, avverto il controllo critico dello sguardo di tutto il secolo dal quale sono spuntato, lo sguardo di serie del materialismo in cui vivo. Anch’io là mi vergogno in anticipo davanti a me stesso di certe supposizioni e ammissioni, e vorrei che alcuni pensieri non sapessero di altri; che quelli autentici, celati nel profondo, non si mostrassero a quelli «normali» e «accettati» e non mi compromettessero davanti ad essi. Cerco di cavarmela con qualche reticenza o con la «strana città», di essere credente come il mio amico francese e tanti altri, e nello stesso tempo di non rinunciare a quei limiti il cui rispetto mi permette di essere nel loro ambito un uomo «contemporaneo»; mi sforzo di passare abilmente tra il secolo intero e il sussurro del cuore, in modo da non urtare niente e nessuno, così come lungo la strada cerco di non urtare nessuno della folla di pellegrini. Accettare senza rinnegare, ammettere senza affermare, essere «illuminato» chinando furtivamente la testa di fronte alla «superstizione» degli ignoranti.

   Lo so e lo sa anche la persona amica che mi accompagna. Entrambi abbiamo già vissuto molte cose insieme, in estate vagabondiamo insieme. Di notte, dormicchiando sotto la piccola tenda, ci diciamo tutto, stringiamo ancora di più i vincoli che ci uniscono. Qui, prima di giungere a Lourdes, ci comportiamo fra di noi come ognuno di noi si comporta con i propri pensieri: ci scarichiamo a vicenda con gli scherzi, spesso perfino con lo scherno. «Non sta bene» manifestare la commozione. Entrambi ricordiamo tutte le recensioni apparse a Parigi dopo il film Bernadette, tratto dal romanzo di Werfel. Il «non sta bene», nei confronti di certe manifestazioni di sentimenti e pensieri, in quest’epoca è più forte che in qualsiasi altra. Il sostanzioso nutrirsi di una certa idea filosofica, il rimpinzarsi di verità, con le quali sempre più spesso si sopperisce alla mancanza del pane quotidiano, ci ostacolano il semplice respiro. E benché intorno l’aria sia sicuramente diversa, noi non vogliamo aspirarla a pieni polmoni.

   Nel crepuscolo che scende fruscia la rugiada nelle chiome degli alberi e dalle foglie più basse gocciola in terra. Sopra la valle della vicina Lourdes pende il bagliore delle luci e sulla strada si sente il battere di passi affrettati. Avremmo voglia di parlare di Bernadette, dire finalmente in modo serio «sai, eppure forse»…scorgerla attraverso il volto di Jennifer Jones nel film e meditare su questo sia pure un solo istante; così come ha meditato sicuramente ognuno, credente o no, uscendo dal cinema. Vorremmo scomporre e ridurre le resistenze che ci nascono dentro, quando involontariamente il film e il volto della geniale attrice si fondono dentro di noi con l’intera storia di questo luogo e – ciò che è peggio – con la sua santità. Come liberarsi dalla convinzione che quel film trasforma la sala cinematografica quasi in una chiesa, e provoca stranissime collisioni dentro tutti coloro che non credono oppure, credendo, appaiono più spesso non credenti? Che il film era valso più delle parole più ardenti e aveva toccato quelli che ascoltano soltanto i linguaggi di un’epoca non convincente? Acconsentire che uno schermo e un volto umano assumano un ruolo di rivelazione e mettano sulle labbra, oggi così assetate, qualcosa che si è soliti cercare altrove? E’ difficile rispondere, ma sentiamo che Werfel, ebreo ceco esiliato, ha compiuto una grande opera; egli avvicina Lourdes, impressiona milioni di coloro che non possono conoscerla davvero e fa ricordare. Senza voler aggiungere nulla, riaccende sia pure per un attimo, ciò che in così tante persone si è spento e impone loro di comportarsi come noi ci comportiamo in questa notte silenziosa. Costringe i riluttanti a schivare i colpi. Su questo terreno e nei confronti della stragrande maggioranza ciò significa già molto. E se soltanto inducesse quelli affatto insensibili a soffocare con ostinazione, e a calpestare ancora più scrupolosamente i resti di un falò che in realtà non si riesce mai a spegnere del tutto, anche in tal caso oggi egli svolgerebbe il suo ruolo. Ci sono tempi in cui tutto conta e per questo sono così difficili.

   Le strade possono essere strane. Werfel fuggì in Francia dopo il 1938. Come molti altri che allora cercavano rifugio in quel paese, incontrò sicuramente una serie di «ostacoli». La Francia non ama ricordare quei tempi. Uno di questi «ostacoli» era l’impossibilità di continuare a fuggire  dopo l’invasione tedesca. Egli finì a Lourdes con lo sguardo fisso alla frontiera-salvezza della Spagna, che non poteva oltrepassare. Allora, sembra, cominciò a credere e fermatosi al punto estremo del più grande sentimento di quei tempi – la paura primordiale – in questo luogo trovò un balsamo. A quanto pare fece il voto che, se fosse riuscito a sopravvivere, avrebbe consacrato il suo primo impegno a Bernadette e al suo miracolo. Come artista lo attirava anzitutto la piccola Lourdes, che oggi si può ritrovare soltanto nei dintorni, nell’umida sera dei prati e dei monti, nel vacillare della nebbia, nelle ragazzine celate sotto grandi scialli, che stringono in mano un lungo bastone e conducono qualche vacca al pascolo… Forse accostò per un istante la fronte alla statua nella grotta, in cui niente è «bello», e le grucce e le protesi sparse intorno sono ormai così simili a vecchie ossa; probabilmente poi percorse i tortuosi sentieri lungo il Gave, arrivando attraverso quelli a se stesso e alla bambina che L’aveva vista.           

   Werfel ha scritto un libro, tradotto già in molte lingue, ma non sarebbe il discendente di una razza che sente l’epoca sempre nel modo migliore, se ciò gli fosse bastato. Dopo molti vani tentativi a Hollywood, riuscì a spingere la sua visione al di là della ristretta portata del libro e a colpire in un raggio più ampio: a raggiungere le folle nei loro templi odierni: le sale cinematografiche. Ne parliamo in questa notte nei pressi di Lourdes; conversando su Werfel divaghiamo oltre quel punto in cui incessantemente si posano i nostri pensieri e si sollevano di nuovo timidamente, non avvezzi alle nicchie coperte di erba. Ma ciò che è ancora più interessante, Werfel pubblicamente non è «andato oltre», non ha ammesso ad alta voce ciò che è avvenuto in lui sette anni fa. Ha conservato fino alla fine la discrezione del suo libro e del suo film, e ha lasciato le conversioni clamorose, con pubblica confessione, a coloro che fino a quel momento le avevano più derise.

   La notte era fredda e si era spento il chiarore su Lourdes. Certe parole che si affacciavano in gola le ricacciavamo indietro, sorseggiando il tè bollente. Espellendo tra le risate il fumo delle sigarette non aspirato fino in fondo, parlavamo di Satana, che tanto ama i luoghi santi.

   Al sole, nella stessa Lourdes, le notturne beffe all’indirizzo del Male non sembrano così stolte. Qualcosa c’è in quel vecchio detto. L’aureola del primo miracolo, il visetto della piccola Bernadette, la sua storia successiva e gli assalti furiosi delle persone colte, ai quali rispondono le miracolose guarigioni: tutto questo aspetto romantico si disgrega adesso in un’atmosfera di luogo di cura religioso, di acque sante. Qualcosa spinge a mescolare gli attriti inevitabili all’eco costante di una pacata riflessione. Nel chiasso delle réclame, nel commercio da fiera del Grande Mistero, nelle esalazioni di vino delle persone che attingono l’acqua miracolosa da una fila di rubinetti, simili alle docce in un bagno modello, in tutto questo c’è lo spietato gioco con la puntata massima del cuore che si è inclini a scommettere a Lourdes. Chi si lascia ingannare da questo e la punta soltanto sul tavolo delle apparenze, quello ha perso e non può non perdere. Lungo la strada che scende verso la grotta i negozi a sinistra e a destra sono come due file di persone che impugnano dei randelli. Quasi fisicamente si avvertono le sorde mazzate inferte da ogni vetrina e insegna, da ogni elogio della merce. A metà strada si cade dritti sotto i colpi di alcune grandi insegne che affermano, lungo tutta la facciata, che lì si trova il negozio di ricordi appartenenti a certi successori di santa Bernadette Soubirous. Non so quali, perché voltai la testa, ma sono sicuro che pretese di piccolo commercio sono indirizzate ancora oggi da quella famiglia alla loro santa parente. Non riesco a liberarmi dall’impressione che da quel negozio mi raggiungano le grossolane parole:  Dis donc Bernadette – ça va pas dans la boutique. Qui all’angolo, presso un affollato bistrò, vendono speciali bottiglie per l’acqua di Lourdes, gridando a gran voce il loro pregio di essere di alluminio, e accanto è seduta una donna con un cesto pieno di fiaschette di cognac con il tappo a bicchierino. «Comprate per il viaggio». Le bottiglie con l’acqua miracolosa, legate tra loro con lo spago assieme a bottiglie di vino, pendono dalle braccia delle persone e tintinnano. Negozi, ricordi, medagliette, negozianti e pellegrini, tutto è come se ci si desse del «tu». Con chi? Manca addirittura il coraggio di rispondere. La preghiera acquista in ciò le caratteristiche di una richiesta urgente di sussidio rivolta alle autorità, elette con i voti della folla qui presente; ed è come se quest’ultima facesse discretamente capire che, poiché è così, allora… Qualcosa come una minaccia che, altrimenti, in caso estremo, la scheda elettorale della fede si potrebbe facilmente annullare.

   Passando di qua, fermandomi, penso alla notte, al libro e al film di Werfel.  A volte vorrei che esistessero senza questa Lourdes. Con insistenza vedo il dorso in pelle del Thaïs di Anatole France, scorro le pagine con la descrizione della città, sorta attorno al pilastro di Pafnuzio. Egli sedeva a gambe incrociate sul capitello e sotto di lui pendevano dalla colonna centinaia di stampelle; donne riconoscenti vi avevano appeso corone e immagini votive. Accanto, sui tappeti distesi, compagnie di acrobati facevano giochi di agilità e si muovevano con eleganza, gli incantatori di serpenti divertivano la folla raccolta intorno; una folla variopinta, vociante, ridente. Vedendo ciò si avrebbe voglia di chiedere all’improvviso, come il povero Pafnuzio tentato al salto mortale nel vuoto, dove una voce gli prometteva il volo dell’uccello: «Chi ride così?». I negozianti smerciano qui la santità, mentre dentro si svolge un’appassionata contrattazione per la più piccola particella di sentimento! una contrattazione vistosa, scorrevole, pagabile con il contante dei sorrisi di superiorità, di quei sorrisi che più tentano l’uomo. E’ così piacevole socchiudere gli occhi e posato su di essi il lorgnon enciclopedico, abbozzare un sorrisetto; ristorarsi con quella charmante impiété di una certa vecchia amica di France, la quale rimpiangendo gli antichi luoghi santi, abbandonati in favore dei nuovi, gli diceva: «E’ difficile negarlo; quella Vergine di Lourdes è compiacente, premurosa, comprensiva, zelante, direi perfino umile. Si moltiplica per essere utile. Guarisce gli ammalati, aiuta i giovani durante gli esami, congiunge in matrimonio e vende la cioccolata. Entre nous, je la trouve un peu intrigante». Che fascino e quanto garbo in queste parole! Ricordo ciò perché amo France, ma qui sento più l’odore della polvere, che dello stimolante tabacco da naso delle bisnonne, con il quale ancora oggi si cerca di preparare la polvere da sparo. Nel frequente gioco del «fingere» dei nostri giorni essa è buona tutt’al più per i fuochi artificiali. Scendo lentamente in direzione della grotta collocando sentimenti e pensieri come figure sulla scacchiera. Nell’intimo ci sono davvero soltanto caselle nere e bianche e in fin dei conti si sa sempre molto bene dove collocare qualcosa in modo tale che almeno questo gioco non diventi una commedia dialettica.

   Più in basso c’è un grande spiazzo, in alto a sinistra una brutta chiesa. A mezzogiorno qui non c’è affollamento. La grotta è piccola, davanti ad essa file di inginocchiatoi. L’odore del gran numero di candele accese e il silenzio. A poca distanza scorre il Gave e a tratti giunge all’orecchio un più sonoro gorgoglio dell’acqua. Il passo incerto delle persone che si avvicinano mute schiaccia con cautela e lievemente i granelli di sabbia sul cemento. Nella grotta c’è la statua su uno sfondo di stampelle, protesi, busti, reperti ortopedici. Qui finisce tutto il mondo escogitato, restano la semplicità e la modestia. Ardono centinaia di candele e dopo un po’ si vede soltanto la loro luce. Lo sguardo fisso delle persone è sconfinato. Occhi che guardano chissà dove una grande lontananza, che la percorrono con la velocità di un raggio, soltanto per raggiungere i piedi presso i quali depongono la loro preghiera. Occhi chiusi che guardano chissà dove una grande profondità alla ricerca di se stessi e che per il momento estraggono da essa soltanto lacrime. Brilla la luce delle candele, si moltiplica e sgorga in miliardi di raggi. Non è un miracolo; è semplicemente il loro bagliore che si disintegra in prismi davanti alla pupilla, nel caldi cristalli del bambino in cui ognuno qui può trasformarsi, sol che lo voglia… No, l’uomo non è solo, a meno che, volutamente, non chiuda egli stesso le porte. L’inquietudine dell’esistenza sorge nelle anime per le quali la morte è la cessazione di tutto, e la vita una cosa fine a se stessa, come un ninnolo sotto una campana di vetro. Dove sono mai in una simile vita le stelle, il sole, il fresco della pioggia e del vento, la semplicità delle lacrime di gioia? Dov’è la contentezza della lontananza e la sua speranza? «La vergogna di pregare», scriveva Nietzsche, perché considerava la preghiera un atto degno soltanto dei poveri di spirito, dei mendicanti, e dei codardi. Bere l’acqua delle sorgenti di montagna, aspirare l’arietta dei prati sul Gave, verdognola e fresca come menta, anche ciò è una vergogna? Eppure si ha bisogno di Dio, così come si ha bisogno dell’ossigeno, e lo spirito non è soltanto ragione, ma anche sentimento. Il senso della moralità, della libertà, della bellezza e della santità non è una funzione dell’intelletto. Libertà, moralità, bellezza, santità… Qui non c’è alcuna definizione, esse si sentono; si sentono, malgrado tutto, i confini dove esse finiscono o iniziano. E forse la cosa peggiore non è che scompaiano le loro manifestazioni esteriori, ma il fatto che si faccia di tutto per cancellare i loro confini nell’uomo. La tensione e il caos delle grandi scelte attraverso cui il mondo passa sono enormi, perché in esse, in fondo, è in gioco il voto dell’anima intera. E’ una votazione perfettamente segreta; si svolge così profondamente , che non di rado l’uomo stesso a lungo non sa su chi sia caduta in effetti la sua scelta. Cartesio affascina, Pascal è paziente come l’acqua che scava sotto la superficie il terreno roccioso. Dicono che masticare le preghiere adesso non si differenzi affatto dal masticare la gomma… Così non è e non sarà.

   Raggiungo la riva opposta del fiume, mi siedo sull’erba umida e mi accendo una sigaretta. Da qui non si vedono più le singole fiammelle delle candele, ma soltanto i contorni della figura nella nebbia luminosa. Accanto a me siedono altre persone, mangiano e bevono. Sul Pic du Jer s’inerpica lentamente un vagoncino della funivia, dalla città giunge il brusio, è più forte il rombo dei pullman che portano la folla in gita sui monti. Qui c’è di nuovo quel mondo onesto che dedica tanta attenzione alla ricerca delle grandi verità, e così poca al semplice sfuggire gli sbagli. Ma sento il suo calore e mi è caro per questo. Non è vecchio in nessuna delle sue cinque parti.

   Dopo mezzogiorno il traffico aumenta. Forse sulla riva si snoderà una processione implorando ad alta voce un miracolo, faranno uscire gli infermi dagli ospedali, dove un uomo, impotente di fronte alle sofferenze di un altro, tenta e ricerca con invidia, svolge una fredda cronaca dei fatti. Di fronte ad essi è difficile tergiversare. Penso a Zola, a questo scrittore-documento, alla sua «Lourdes» che finisce nel compromesso dei «fluidi curativi». Più di tutto l’uomo teme l’evidenza. Ciò che avviene invece davanti alla grotta è lontano dal silenzio del Vangelo, dalla calda intimità della descrizione di Cristo che entra nella casa di Simone. Ma forse anche allora la folla gridava altrettanto a gran voce: «Signore, compi il miracolo!»? Pretendeva e insisteva. Le guarigioni miracolose oggi sono più rare. Chissà se col passare degli anni non diverranno molto rare. La gloria di Lourdes si offuscherà, si trasferirà altrove, come da tanti altri luoghi è giunta qui; ma non per i motivi espressi così argutamente a France dalla sua vecchia amica. Carrel – in un breve studio relativo all’influenza della preghiera sugli ammalati – scrive che l’azione della preghiera dipende dalla sua intensità. Se adesso a Lourdes i miracoli non sono più così frequenti come quaranta o cinquanta anni fa, è perché qui adesso gli infermi non trovano quell’atmosfera di profondo raccoglimento che regnava un tempo. I pellegrini sono diventati turisti e le loro preghiere sono inefficaci. Ciò non è lontano da un’analisi chimica, non è lontano da quella teoria di fisica astronomica che forse un giorno si incrocerà con gli argomenti della Summa theologica di san Tommaso d’Aquino.

   Torno in città. Passo di nuovo tra i negozi, guardo e osservo. Mi fermo assieme agli altri davanti alle vetrine. Comprare forse alcune di quelle medagliette? Ma forse in quel negozio là sono più belle? Le compro così, semplicemente. Qualcuno al quale poi ne darò una, di sicuro l’accetterà con commozione. Non sorriderà con noncuranza al momento di prenderla in mano, perché sentirà in essa proprio la semplicità e la serenità con le quali è stata acquistata. Poi bisogna comprare qualche cartolina, farsi largo fino alla cassetta delle lettere stracolma di corrispondenza. Bisogna dare anche un’occhiata alle vetrine dei negozi di alimentari, che qui hanno più generi in scatola di tutti gli altri che s’incontrano strada facendo. La vita ferve, è semplice; in essa c’è interezza e armonia. Sui volti delle persone, nella massa delle mani affaticate che si allungano allo stesso modo verso il cibo e verso di Lei nella grotta, c’è la gioia e la concordia di una festa spontanea. Molti qui hanno preso una decisione importante e se ne rallegrano a modo loro. Spesso tentenneranno ancora, si burleranno dei comandamenti, ma la maggior parte di loro sarà attratta, al ritorno, dalla libertà di sbagliare e dalla forza del perdono. Percorreranno spesso un cerchio così grande che un suo segmento sembrerà loro la retta di un tracciato del tutto diverso; e inaspettatamente torneranno al punto di partenza, alla prima preghiera degli anni dell’infanzia, alle emozioni dei tempi della prima medaglietta.

   Verso sera ho accceso il fuoco, ai margini del bosco. La notte calava lentamente dai monti e i prati nella valle diventavano sempre più freddi. All’alba si copriranno di nebbia, stupendamente gelata e quasi friabile, come brina. Nel bosco fa ancora caldo. Gli aghi secchi e i  tronchi degli alberi si raffreddano più gradualmente. Ci si può scaldare poggiandoci contro le spalle. Il fumo rinfrescato sui prati scende rapido e si aggrappa all’erba. Lungo la strada in basso la gente cammina verso Lourdes. Guardo il fuoco e penso che don Peyramale, parroco di Lourdes al tempo di Bernadette, aveva ragione: «I credenti non hanno bisogno di alcuna spiegazione; spiegare ai non credenti è una cosa impossibile». Parole dure, ma quanto mai giuste proprio oggi, che tutto diventa una questione di fede. Di quella di don Peyramale, e di una diversa.

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Alcune fotografie di Andrzej Bobkowski

Andrzej Bobkowski con la moglie Barbara

Andrzej Bobkowski con la moglie Barbara

 

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Manifesto della mostra di Cracovia

Manifesto della mostra di Cracovia

Andrzej Bobkowski con la moglie Barbara
Andrzej Bobkowski con la moglie Barbara

 

 

2 novembre – Giorno dei Morti

28 Ott

 

 

 

Rapian gli amici una favilla al Sole

A illuminar la sotterranea notte,images (30)

Perché gli occhi dell’uom cercan morendo

Il Sole; e tutti l’ultimo sospiro

Mandano i petti alla fuggente luce.

 

Ugo Foscolo (1778-1827)

Dei Sepolcri:  vv. 119-123

 

 

   Con questa reminiscenza liceale desidero iniziare il mio omaggio poetico a tutti i defunti che il 2 novembre di ogni anno rivivono nel nostro ricordo. E’ il giorno in cui tanti amici, parenti, conoscenti tornano col pensiero a qualcuno che li ha preceduti nel “grande silenzio”. Il 2 novembre i cimiteri si accendono di luci e di fiori e le tombe vengono indorate dalle foglie autunnali. Il culto dei Morti è antichissimo e vive tuttora, perché è legato al rispetto e alla gratitudine verso quelli che ci hanno amato. Ho scelto per loro e per tutti quelli che amano i propri defunti, alcune poesie nella mia versione. Vorrei che contribuissero a creare nel cuore di ciascuno di noi quel calore e quella serenità, che soprattutto in questo giorno doniamo ai nostri cari scomparsi e riceviamo da loro.

 

 

 

 

 

Jan Twardowski (1915-2006)

 

Sempre presenti

 

Diceva che davvero bisogna amare i defunti

perché proprio loro sono ostinatamente presenti

non si addormentano

hanno il tempo tondo quindi non hanno fretta

tranquilli perché non hanno esaurito niente

neanche in caso d’incendio salterebbero in piedi

non mandano giù come noi il senso intimorito

non si fingono né migliori né peggiori

non pronunciamo su di loro migliaia di sentenze

sempre gli stessi come l’ontano verde fino all’ultimo

conoscono perfino l’indirizzo privato di Dio

non declamano sull’amore

ma aiutano a trovare gli oggetti smarriti

non invecchiano ringiovaniti dalla morte

non spaventano con un vuoto pieno di erudizione

non uniscono santità e appetito

più vicini di quando se ne andavano per un attimo

passando accanto con il corpo non visto

hanno salvato assai più di un’anima

 

 

 

 

 

 

 

 

Halina Poświatowska (1935-1967)

 

   Essi ci amano, i cimiteri solitari, essi che sono tanto con noi, che sono quasi dentro di noi. Paradosso reversibile, perché forse siamo noi dentro di loro. Delineando con un dito il contorno del proprio corpo, consideriamo il geranio piantato in basso e la clessidra posta a capo del letto. Il sussurro della betulla inclinata, l’intreccio delle sue avide radici, il succulento verde delle foglie. E baciando per la buona notte la tua fronte sul sopracciglio sinistro, penso alla piccola cappella con la croce di legno messa di traverso. Odore di terra…

 

 

Paolo Statuti

 

Morte di un amico polacco

 

Caro Zbyszek,

qui dove frusciano i ricordi

e il sasso geme

sotto il piede amico,

improvviso sei giunto

e subito cortese, esitante,

hai chiesto d’unirti

al coro dei silenzi,

ma immaginarti silenzio

io non posso:

troppo umana e schietta

era la tua voce.

 

 

 

Kazimiera Iłłakowiczówna (1888-1983)

 

Morti…conosciuti…amati

 

Vengono da me soltanto sui viburni,

sui pruni, sui violacei mirtilli,

i morti, i conosciuti, gli amati.

Vengono da me soltanto sui fruscii

impigliati tra vortici ansanti:

“Tu qui?…Ah, che tempo…”

Per le brine – le sopracciglia grigie,

le giovani ciglia stranamente pesanti…

E li accarezzo benché sappia che – non vivono…

I conosciuti…quelli che amavo:

Jaś, bruciato col suo aereo

e Kazio, che morì più tardi,

Pawełek coperto dall’oceano,

Tadzio, fucilato dai banditi…

Giovani, pensosi, sprecati,

vengono da me, vengono sui viburni

i conosciuti, i morti, gli amati.

 

Jan Brzechwa (1900-1966)

 

Il Giorno dei Morti

 

Quando con la ruggine ramata

Delle gialle foglie d’autunno appassiscono le nubi

Indoviniamo cosa le nubi vogliono da noi,

Rattristate nella loro alta distesa.

Sulle ciocche grigie si stende l’estate di san Martino,

Sulle tombe i lumini guizzano alle anime defunte,

Presto, presto toccherà a noi,

Anche le nostre anime verso quei lumini andranno.

Se la vita è un filo – esso si può troncare,

E andare sopra una nube come su una zattera d’argento…

Ah, come facile, ah, come facile sarebbe vivere,

Se non vivere fosse ancora più facile!

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Alcune immagini del cimitero monumentale “Powązki” a Varsavia, che nel Giorno dei Morti si riempie di noti attori e attrici che fanno la questua per il restauro della storica necropoli, dove sono sepolti nomi illustri della storia e della cultura polacca.

 

 

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Il salone delle illusioni

26 Ott

Di Wiesław Brudziński (1920-1996),  satirico e autore di aforismi polacco ho il piacere di pubblicare nella mia versione il breve racconto “Il salone delle illusioni”, tratto dalla antologia di racconti grotteschi “Duchy na dachu” (Spiriti sul tetto, Varsavia, ISKRY 1974).

 

A volte solo l’autopsia mostra che qualcuno aveva le ali.

                                                                            (Wiesław Brudziński)

 

Il salone delle illusioni

 

   Prima della partenza del treno avevo circa tre ore a disposizione, ma per visitare la città era già buio, perciò decisi di andare a teatro. Il più vicino si trovava in un grande edificio, costruito in uno stile monumentale. La cassa sembrava già chiusa, anche se gli spettatori continuavano ad arrivare. Infilai nella mano della maschera una banconota ed entrai nella sala. Proprio in quel momento si spensero le luci e si alzò il sipario; intorno cessò il brusio del pubblico incuriosito. Mi sedetti nel primo posto libero che trovai e rivolsi lo sguardo al palcoscenico.

   Apparve un attore comico sdentato e anzianotto, e molto popolare tra gli spettatori, considerato l’uragano di applausi che lo accolse, e in modo abbastanza divertente cominciò a recitare il monologo di Amleto. Non era una parodia di alto livello, ma la figura dell’attore aveva una forza comica irresistibile. Nella sua interpretazione Amleto tartagliava, pronunciava male le parole, si grattava la testa e aveva un’aria così afflitta, che ben presto scoppiai in una sonora risata.

   Ma subito tacqui spaventato, perché tutte le teste si girarono dalla mia parte. I miei vicini mi guardavano con indignazione e ripugnanza. Solo allora mi resi conto che, malgrado gli applausi iniziali, il pubblico manteneva un silenzio di tomba e che soltanto il mio giudizio sulla recitazione, espresso con quella risata inopportuna, si differenziava in modo eclatante dal giudizio di tutta la platea. Temendo ulteriori spiacevoli reazioni, approfittai volentieri dell’intervallo per lasciare il teatro.

   Tuttavia dovevo aver sbagliato porta, perchè all’improvviso mi ritrovai nell’aula di un tribunale. Stava parlando l’avvocato della difesa, sforzandosi chissà perché di salvare dalla forca un tetro malandrino che sembrava uscito dal Trattato del Lombroso. Da tanto tempo non avevo sentito un’arringa così pietosa. L’avvocato nel suo fervore si contraddiceva e con ogni frase peggiorava la situazione del suo cliente, allontanando del tutto la possibilità di una mite sentenza.

   Per questo restai a bocca aperta dallo stupore, allorché la corte dopo il consiglio emise un verdetto di assoluzione, e la famiglia dell’accusato, contentissima, non la smetteva più di congratularsi con l’inetto difensore.

   Uscendo dalla sala espressi la mia opinione sull’arringa dell’avvocato. Un anziano signore brizzolato mi guardò severamente e mi chiese:

   – Nell’ufficio del personale non le hanno detto niente?

   – Nell’ufficio del personale? – chiesi meravigliato.

   – Forse lei sostituisce qualcuno?

   – Non capisco.

   – Allora come mai si trova qui? – gridò il brizzolato.

   – Per pura combinazione – spiegai cercando di restare calmo. – Sono uscito dal teatro e devo aver sbagliato porta.

   – Ah, lei ha la parte di spettatore!

   – Ma quale parte? Avevo un po’ di tempo prima della partenza del treno, perciò sono andato a teatro. E’ una cosa tanto strana?!

   L’anziano signore si  rasserenò alquanto.

   – Capisco – disse. – Ma come ha fatto a entrare senza la tessera?

   Feci un gesto eloquente con la mano. Il brizzolato annuì mestamente.

   – Già, già… siamo un ente statale e quindi improduttivo, il nostro personale viene pagato poco…

   Ne avevo abbastanza di tutto quel mistero.

   – Mi può spiegare una buona volta cosa significa tutto questo?!

   L’anziano signore mi sorrise amabilmente.

   – Molto volentieri. Sono il direttore dell’ente statale denominato il SALONE DELLE ILLUSIONI. Il nostro compito è quello di aiutare, dietro modico compenso, i lavoratori a riuscire in qualcosa. Abbiamo alcune centinaia di impiegati che creano un’atmosfera di successo ai nostri clienti. Alcuni lavorano come spettatori di teatro, altri sono giudici, accusati, redattori di riviste, pazienti, lettori, clienti timidi e folla entusiasta, dipende dalle richieste. La nostra clientela è assai differenziata: medici senza pazienti, attori senza parti, ex pezzi grossi che non fanno più paura a nessuno…

   – Allora quell’avvocato era un cliente, e i giudici, l’accusato, il procuratore, e tutto il resto è il vostro personale?

   – Naturalmente. Per questo mi sono innervosito quando lei ha manifestato il suo disprezzo per il discorso dell’avvocato. Il nostro personale ancora non è addestrato a dovere, con esso abbiamo avuto molti problemi. All’inizio fischiavano durante gli spettacoli, spiegando che non potevano applaudire qualcosa che non avevano gradito. E’ stato necessario prolungare l’addestramento, perché imparassero a reagire correttamente. Adesso battono subito le mani, appena qualcosa non piace loro. Devo aggiungere, per giustificarli un po’, che c’è stato un periodo in cui venivano da noi soltanto veri artisti, poiché i mediocri avevano successo nella vita. Capitano anche clienti molto presuntuosi, perché ritengono di avere nella vita un successo troppo grande e si prendono da noi una porzione di fischi, per non diventare insensibili al gusto del successo.

   – Un momento, ma allora perché quel parodista che ho visto prima è stato accolto così freddamente? Non ho visto neanche un sorriso.

   – Giusto. Perché non era affatto un parodista, ma un attore tragico.

   Riflettei un istante.

   – Mi scusi ma io nel vostro ente non potrei essere ad esempio per un paio d’ore amante cinematografico o campione del mondo di pugilato? Dovrebbe essere molto interessante…

   – Mi sembra che lei non abbia capito il senso della nostra istituzione. Siamo un’azienda con una ben precisa funzione sociale, non un lunapark. Ogni persona per non abbattersi deve avere di tanto in tanto nella vita un qualche successo nella sua professione. Noi gli offriamo questo successo a prezzi fissi. Poi per un certo tempo può di nuovo sopportare l’insuccesso. Tutto qui.

   Ringraziai il mio informatore per l’interessante chiarimento.

   – Un’ultima domanda…Non succede mai che vengano da voi a volte noti scrittori o attori famosi?

   – No. Per lo più loro hanno i propri saloni delle illusioni.

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

   

Aneddoti nella musica

26 Set

 

 

   Oggi pubblico 24 divertenti aneddoti musicali, scelti e tradotti da me dal volume Anegdota, ciekawostka i dowcip w muzyce (Aneddoti, curiosità e facezie nella musica, Ediz. Polihymnia, 2012) del musicologo polacco Janusz Nowosad, lo stesso autore del libro La musica che scorre dai versi, da cui ho tratto le poesie del mio precedente post.

 

   Un pianista principiante e presuntuoso chiese al compositore e pianista italiano Franco Alfano (1876-1954):

   – Sopra al pianoforte dovrei appendere il ritratto di Chopin o quello     di Mozart?

   – Meglio quello di Beethoven.

   – Perché proprio Beethoven, e non Chopin o Mozart?

   – Perché Beethoven era sordo!

 

                                                 *  *  *

   Per la solenne inaugurazione del monumento a Ludwig van Beethoven (1770-1827) giunsero a Bonn personalità da tutta l’Europa. La tribuna per gli illustri ospiti sfortunatamente però era stata messa in modo tale che la statua di Beethoven si vedeva girata di spalle. Quando venne scoperto il monumento tutti restarono sbigottiti, ma il cerimoniere non si perse d’animo e disse:

   – Lor signori perdonino! In vita era un po’ zotico e tale è rimasto anche dopo la morte!

 

                                                  *  *  *

   Un giovane musicista chiese al compositore francese Hector Berlioz (1803-1869) un giudizio sulle sue composizioni. Berlioz, dopo aver dato loro un’occhiata, dichiarò:

   – Mi dispiace, ma devo confessarle che lei non ha alcun talento musicale. Finché è ancora in tempo, si scelga un’altra professione.

   Quando il giovane avvilito era già in strada, Berlioz si affacciò alla finestra gridando:

   – Ragazzo! Devo anche confessare che quando avevo la tua età, i professori mi dissero esattamente la stessa cosa!

 

                                                  *  *  *

   Johannes Brahms (1833-1897) entrò in un ristorante e  ordinò il vino migliore. Il proprietario per soddisfare la richiesta del celebre cliente portò una bottiglia, dicendo:

   – Questo è superiore a ogni altra qualità, come la musica di Brahms è superiore a ogni altra musica.

   – In tal caso – replicò il compositore – tenga questo vino per sé e mi porti una bottiglia di Beethoven.

 

                                                  *  *  *

   Hans von Bülow (1830-1894) prima di un concerto stava salendo di corsa le scale verso il suo guardaroba, e inavvertitamente urtò un uomo che stava scendendo.

   – Somaro! – gridò lo sconosciuto.

   – Hans von Bülow – rispose il musicista.

 

                                                   *  *  *

   John Cage morendo, disse al notaio che stendeva il testamento:

   – Vorrei che al mio funerale suonasse l’orchestra.

   – Bene, maestro! E quali composizioni vorrebbe ascoltare?

 

                                                   *  *  *

   Enrico Caruso (1873-1921) comprò una casa e ordinò di restaurarla. Durante i lavori, in una delle stanze cominciò a esercitare la voce cantando arie e canzoni. A un tratto entrò nella stanza il mastro muratore e chiese:

   – Maestro, lei vuole vedere la casa ultimata?

   – Naturalmente.

   – Allora smetta di cantare.

   – Perché?

   – Perché tutte le volte che lei canta, i muratori affascinati dal suo canto smettono di lavorare!

 

                                                   *  *  *

   Il compositore russo Piotr Čajkovskij (1840-1893) una volta preparava un concerto in una piccola città. Durante le prove l’obista suonava continuamente troppo forte. Il compositore irritato chiese:

   – Davvero non riesce a suonare più piano?

   – Mah! Se ci riuscissi, non passerei la mia vita in questo buco di paese!

 

                                                  

 

                                                   *  *  *

   George Gershwin (1898-1937) chiese a Igor Stravinskij (1882-1971) di poter studiare con lui. Stravinskij all’inizio si rifiutò, ma poi saputo che a Gershwin le composizioni fruttavano centoventimila dollari l’anno, esclamò:

   – Caro collega, sono io che dovrei prendere lezioni da lei!

 

                                                   *  *  *

   Beniamino Gigli (1890-1957) si espresse così su una certa imponente e corpulenta cantante lirica, che aveva una bellissima voce:

   – E’ un elefante che ha inghiottito un usignolo.

 

                                                   *  *  *

   Durante le prove di un concerto per tromba e orchestra, il solista sbagliava continuamente e stonava, e volendo scaricarsi della colpa disse a Joseph Haydn (1732-1809):

   – Signor direttore, l’orchestra suona così forte, che non riesco a sentirmi.

   Al che Haydn:

   – In tal caso lei è davvero fortunato!

 

                                                    *  *  *

   Una volta un giovane musicista smise di suonare e disse a Joseph Haydn:

   – Dicono che a lei piace ascoltare la buona musica.

   – Non preoccuparti, ragazzo, continua pure a suonare!

                                                    *  *  *

   Quando a Parigi doveva aver luogo la prima esecuzione dell’oratorio La creazione del mondo di Joseph Haydn, il direttore si rivolse ai cantanti pregandoli di indossare abiti adeguati alle parti interpretate.

   – Signor direttore – protestò la cantante che doveva interpretare Eva. – Io sono un’artista rispettabile e nell’abito di Eva non canterò!

 

                                                        *  *  * 

   Un certo aristocratico chiese a Joseph Haydn di giudicare come suo figlio suonava il clavicembalo. Dopo il concerto il padre si rivolse al compositore:

   – Suona davvero bene, vero?  

   – Ha una tecnica formidabile. 

   – Vero, maestro?

   – Sì. Suona le composizioni facili come se fossero estremamente difficili.

                                                   *  *  *        

   Una solista cantava un’aria volgendo le spalle al direttore d’orchestra austriaco Herbert von Karajan (1908-1989). Egli durante l’intervallo si rivolse all’artista:

   – Mi scusi, signora, ma se io dirigo con il tempo di tre quarti, non agiti il sedere con il tempo di quattro quarti, perché mi confonde!

 

                                                 

 

 

                                                   *  *  *

   Il compositore italiano Gioacchino Rossini (1792-1868) era presente a un concerto di Franz Liszt (1811-1886). Durante l’intervallo uno dei presenti gli chiese cosa pensasse del pianista.

   – Liszt fa così tanto per essere osservato, che a tratti non ho avuto il tempo di ascoltarlo…

 

                                                  *  *  *

   Gioacchino Rossini, venuto a sapere che a Pesaro, sua città natale, volevano erigergli un monumento quando era ancora in vita, disse ai membri del consiglio comunale:

   – Signori! Se darete questi soldi a me, prometto che starò sul piedistallo per alcune ore al giorno!

 

                                                   *  *  *

   Robert Schumann (1810-1856) fu anche un apprezzato critico musicale. Una volta fu assalito da un compositore poco conosciuto:

   – Come ha potuto stroncare in tal modo il mio concerto per violino, se ha dormito per tutta la sua durata?

   – Anche dormire è un certo tipo di critica – rispose Schumann.

 

                                                   *  *  *

   Il direttore d’orchestra Leopold Stokowski (1882-1977) durante i concerti non tollerava alcun rumore. Una volta smise di dirigere e si rivolse alla platea dicendo:

   – Haendel ha creato questa composizione per archi e ottoni. Nella partitura non c’è neanche una nota per tossi e raffreddori.

 

                                                   *  *  *

   Rychard Strauss (1864-1949) dirigeva una prova della Sinfonia delle Alpi. In una parte veloce intitolata Il temporale al primo violino sfuggì di mano l’archetto. Il compositore interruppe la prova e disse:

   – Riprendiamo il temporale dall’inizio, visto che il nostro violinista ha perso l’ombrello.

 

                                                   *  *  *

   Una volta Igor Stravinskij salendo su un taki notò che sulla targhetta di identificazione della vettura c’era il suo nome e cognome. Chiese quindi al tassista:

   – Lei è parente del compositore?

   – Quale compositore? – si meravigliò il tassista. – Stravinskij è il proprietario della ditta per la quale lavoro da trent’anni. Io non ho niente a che fare con la musica. Mi chiamo Strauss!

 

                                                  *  *  *

   Una certa contessa propose al celebre basso russo Fiodor Šaljapin di partecipare a un concerto gratuitamente.

   – Cara contessa, la prego di ricordare una volta per sempre, che soltanto gli uccelli cantano gratis!

 

 

 

 

                                                  *  *  *

   Carl Maria von Weber (1786-1826) andò con un amico alla prima rappresentazione di un’opera scritta dal regio direttore generale, che non sopportava Weber. Durante l’esecuzione l’elefante vero che prendeva parte all’azione, alzò la coda e arricchì la scena di un ulteriore accessorio. Allora l’amico sorrise e chiese al compositore:

   – Carl, cosa pensi dell’educazione di questo animale?

   – Forse questo elefante è male addestrato, ma di sicuro è un eccellente critico!

 

                                                  *  *  *

   Henryk Wieniawski (1835-1880) per un certo periodo fu il violino di corte dello zar Alessandro II. Durante un concerto ai piedi dello zar si era accovacciato il suo cane preferito, il quale appena Wieniawski cominciò a suonare, balzò su ululando. Il violinista spaventato smise di suonare. Vedendo ciò lo zar chiese all’artista:

– A quanto pare il mio cane la disturba…

– Oh no, Maestà Imperiale! Sicuramente sono io che disturbo lui.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

   

Michelangelo: La Pietà Rondanini

31 Ago
Michelangelo: Autoritratto

Michelangelo: Autoritratto

 

 

   Mieczysław Wallis (1895-1975) fu uno dei più illustri esteti polacchi del XX secolo. Filosofo e storico dell’arte, professore all’Università di Łódź. Dal suo volume Późna twórczość wielkich artystów (L’opera tarda di grandi artisti), pubblicato nel 1975, ho scelto e tradotto le pagine dedicate alla Pietà Rondanini.

 

   …Nel 1555 circa, all’età di 80 anni, Michelangelo attraversa una profonda crisi interiore. Il nuovo impeto di zelo religioso cristiano legato alla controriforma influisce fortemente su di lui, provoca nella sua anima una tragica lacerazione. Si rende conto che la sua stupenda creazione scultorea e pittorica, con tutto il suo stupore per il fascino del corpo umano, la sua arte di cui era vissuto e che aveva tanto amato, e alla quale aveva dedicato tutte le sue energie, non lo aveva condotto alla cosa più importante: al mondo trascendentale, a Dio (1). Aveva sprecato la sua vita per l’arte. Commovente è il lamento di questo ottantenne:

Le fauole del mondo m’anno tolto

Il tempo, dato a contemplare Idio…

Non meno toccante è la sua confessione:

Ne pinger ne scolpir fia più che quieti

L’anima mia a quell’amor diuino,

ch’asperse a prender noi  ‘n croce le braccia.

 

   Michelangelo tuttavia superò questa crisi interiore. Non rinunciò alla creazione plastica, ma cercò, tramite essa, di esprimere la sua esperienza religiosa. Da questi sforzi nacque l’ultima versione del Pianto, chiamata Pietà Rondanini.

   Il tema del Pianto e quello ad esso legato della Deposizione dalla Croce occupò Michelangelo per tutta la vita. Già all’età di 25 anni scolpì il gruppo che si trova nella basilica di san Pietro a Roma. La bella giovanile Maria regge sulle ginocchia la salma del figlio. Le due figure, quella femminile (vestita) e quella maschile (nuda) creano qui un pacato gruppo perfettamente armonizzato. La serena sofferenza di Maria si esprime unicamente nella lieve inclinazione della testa e nell’inerte abbandono della mano sinistra semiaperta. In quest’opera, che celebra la bellezza del corpo umano ed è così sobria nell’espressione del dolore, ha trovato una delle sue più complete incarnazioni l’idea rinascimentale della bellezza.

   Mezzo secolo dopo, negli anni 1550-1555, Michelangelo scolpì di nuovo un gruppo marmoreo del Pianto o meglio della Deposizione dalla Croce: qui il corpo di Cristo si piega, sorretto da una parte da Maria Maddalena e sostenuto da dietro da Nicodemo (o Giuseppe d’Arimatea) al quale lo scultore diede i suoi tratti. Michelangelo aveva eseguito questo gruppo per la sua tomba, ma insoddisfatto lo distrusse. Fu rimesso di nuovo insieme da uno dei suoi allievi. Conosciamo ancora un’altra versione simile del Pianto, ed è la cosiddetta Pietà di Palestrina, nella quale la Vergine e Maria Maddalena sostengono il corpo di Cristo, ma in questo caso la paternità di Michelangelo è incerta.

   Verso il 1552 Michelangelo iniziò una nuova versione del Pianto. Essa si protrasse, con lunghe interruzioni, fino alla morte dell’artista. Quest’ultima versione incompiuta è nota come la Pietà Rondanini. Difficile trovare un contrasto maggiore tra quest’ultima, opera tarda, e la Pietà del Vaticano, opera giovanile. Nella scultura del Vaticano la bella Maria tiene sulle ginocchia il bel Gesù. L’espressione del dolore materno è quanto mai sobria e repressa. La Pietà Rondanini invece presenta una composizione delle figure del tutto insolita. Maria in piedi è unita al corpo di Cristo, anche lui in posizione eretta. La testa di Cristo pende, il suo corpo si piega alle ginocchia. Maria qui è una vecchia donna logorata, e il suo volto è reso rigido e muto dal dolore. Entrambe le figure, smunte e macilente, quasi prive dei corpi, sembrano congiunte, tanto che è difficile dire se la madre sorregge il figlio o piuttosto non si appoggia a lui. Le linee delle due figure sono spigolose, spezzate. La superficie ruvida, volutamente non levigata del marmo, riflette migliaia di piccole luci, essa stessa sembra emanare luce.

   La Pietà Rondanini fu l’ultima più sconcertante versione del tema che occupò l’intera vita di Michelangelo: il tema del dolore materno per la perdita del figlio diletto – del figlio che con il suo martirio salvò l’umanità. La realizzazione dell’opera si protrasse, con lunghe interruzioni, per una quindicina di anni. Si vede con quale sforzo Michelangelo lottava per dare l’espressione ottimale alla sua nuova immagine del Pianto. Ecco come descrive la nascita di quest’opera Charles de Tolnay: “La Pietà Rondanini è ricordata nella seconda versione del Vasari (1568), il quale ci dice che l’artista, dopo aver mutilato e abbandonato la Deposizione dalla Croce, che si trova adesso nella cattedrale di Firenze, riprese un blocco di marmo, dove aveva già iniziato un gruppo della Pietà. La prima versione risale probabilmente agli anni 1552-1553, e ad essa appartiene il braccio destro staccato di Cristo e il visibile frammento della testa della Vergine. Di questo periodo sono tre schizzi su un unico foglio conservati nel Museo Ashmolean di Oxford, che consentono di ricostruire la prima versione, ispirata da un certo tipo della Trinità. La seconda versione iniziò nel 1555 e ad essa appartengono probabilmente le gambe levigate di Cristo, più allungate e nelle proporzioni del braccio incompleto della prima versione. Secondo Daniele da Volterra, Michelangelo rifece questo gruppo di nuovo sei giorni prima della morte. Distrusse, a quanto pare, la parte superiore del corpo di Cristo delle versioni precedenti, per scolpirla ora sul corpo della Vergine, e cambiò la posizione della testa di quest’ultima, in modo che adesso ella guarda davanti a sé, similmente alla testa di Cristo. Infine la Vergine, anziché sorreggere il corpo del figlio, è appoggiata ad esso, ed entrambi i corpi sembrano come fusi insieme (2).

   I contemporanei e i posteri per lungo tempo non hanno compreso un’opera possente come la Pietà Rondanini. Il Vasari la ricorda, ma solo di sfuggita e quasi con noncuranza: ”Michelangelo doveva pur fare qualcosa per passare le giornate col suo martello, e allora prese un blocco già sgrossato per un’altra Pietà, diversa dalla precedente e di dimensioni assai più ridotte”. Dopo la morte dello scultore il gruppo finì in cantina. Fu tirato fuori da lì soltanto nel XVII secolo e messo nel cortile del Palazzo Rondanini a Roma (di qui la sua denominazione).

   Jakub Burckhardt nel 1855 la ricorda, ma dice tuttavia che “è meglio non guardarla affatto…Come poteva Michelangelo voler ricavare ancora per forza queste figure da un blocco già così compromesso, a danno delle proporzioni del corpo, che nessuno conosceva meglio di lui. Purtroppo, di sicuro, ogni colpo di scalpello è suo”. Una svolta radicale nel giudizio avvenne soltanto all’inizio del XX secolo, anzitutto grazie all’espressionismo. Nel 1909 Wilhelm Worringer nella rivista “Kunst und Künstler” interpretò la Pietà Rondanini come un’opera generata dallo spirito del gotico. L’importanza di questa figura fu messa pienamente in luce nel 1911 da Georg Simmel, definendola tuttavia come “la più ingannevole e tragica” (“das verräterischste und tragischste Werk”) opera di Michelangelo. In un certo senso qui non c’è più alcuna materia, dalla quale l’anima dovrebbe difendersi. Nel 1957 il noto scultore britannico Henry Moore, definì la Pietà Rondanini  “una delle più grandi opere di Michelangelo”. Oggi si trova nel Castello Sforzesco di Milano e costituisce una delle attrattive di questa città, figura sui manifesti turistici e negli annunci delle agenzie di viaggio… In quest’opera che a lungo fu giudicata negativamente o addirittura ignorata, vediamo oggi una delle maggiori affermazioni del genio di Michelangelo (3).

 

NOTE

 

(1) Secondo G. Simmel la tragicità di Michelangelo consisteva nel fatto che, la perfezione raggiunta nel rappresentare le figure umane, non lo aveva avvicinato all’oggetto del suo amore e del suo desiderio più ardente: a ciò che è immenso, assoluto, trascendentale, a Dio. La sua sorte infelice era quella di aver impiegato tutte le energie della sua vita in una creazione che non poteva appagare i suoi più intimi desideri, poiché passava su un piano diverso dall’oggetto di essi.

(2) Tale questione non ha per noi fondamentale importanza. Nella Pietà Rondanini la Madonna sembra non sorreggere Cristo morto, ma appoggiarsi a lui, questo stato di cose ha fatto nascere nel giovane storico dell’arte Aleksander Paź il pensiero che Michelangelo nell’ultima versione di questo gruppo volesse cambiare Cristo sorretto da Maria in Maria sorretta da Cristo, in altre parole voleva trasformare il Pianto per il Cristo in una particolare Assunzione di Maria. E’ un’ipotesi interessante, ma non sembra avere una sufficiente giustificazione nell’analisi di quest’opera.

(3) Ch. de Tolnay caratterizza nel modo seguente la metamorfosi che si è verificata nel nostro rapporto con l’opera tarda del grande artista: “L’ultimo stile di Michelangelo nella scultura e nella pittura fu considerato a lungo l’espressione della sua tragica sconfitta come uomo. Di recente si è consolidato il parere che la completa libertà di espressione egli la conquistò proprio nell’ultimo periodo, e che le sue ultime opere rispecchiano la riconciliazione col destino e la rivelazione della grazia divina. Questo periodo è caratterizzato principalmente dalla sua conversione religiosa, in seguito alla quale cambiarono la forma, la funzione e il significato delle sue opere. Questo cambiamento si svolse in due fasi. Le opere dei primi 15 anni dell’ultimo periodo sono ancora ideate in forme poderose, che rispondono agli ideali del rinascimento italiano, benché il contenuto e lo scopo siano cambiati. Nell’ultimo decennio Michelangelo si liberò da questi principi  estetici, e sviluppò uno stile del tutto personale. Eseguite prevalentemente senza ordinazione, per se stesso, le sue ultime opere possono essere definite confessioni soggettive. Ignorando completamente le opinioni dei suoi mecenati, e non tenendo conto del proprio passato artistico, egli seguì soltanto la sua voce interiore. Respinse del tutto le stupende naturali forme del corpo umano come mezzo di raffigurazione del suo pensiero, aspirando ora a una espressione diretta di tutti i suoi stati d’animo, senza considerare l’armonia razionale e la bellezza del corpo umano. Nelle forme che adesso appaiono allungate e fuse tra loro, egli riuscì ad esprimere la suprema pace cui anelava”.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Michelangelo: Pietà di Firenze

Michelangelo: Pietà di Firenze

Michelangelo: Pietà del Vaticano

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Michelangelo: Pietà di Palestrina

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L’arcobaleno

20 Ago

 

   Nel 1970 la casa editrice “ISKRY” di Varsavia pubblicò una raccolta umoristica dal titolo Stańczyk, ovvero ridiamo per tutto l’anno, comprendente poesiole, aneddoti, aforismi e racconti brevi. Uno di questi ultimi è intitolato L’arcobaleno e ne è autore Janusz Osęka, nato a Varsavia nel 1925, scrittore e satirico. Dal 1960 al 1990 fu redattore della nota rivista umoristica “Szpilki” (Spilli). Nel 1997 ricevette il titolo di “Giusto Tra le Nazioni del Mondo”, per la sua partecipazione a un gruppo che dopo l’Insurrezione di Varsavia mise in salvo diversi combattenti ebrei. Janusz Osęka ha pubblicato una quindicina di libri di carattere satirico-umoristico, che raccomando agli editori italiani interessati a questo genere letterario. Se si pensa che questo raccontino è uscito nel 1970, bisogna ammettere che la censura polacca riusciva ad essere abbastanza “liberale”; molto probabilmente in altri paesi a regime comunista questo testo non sarebbe passato. Eccolo nella mia versione. 

 

L’arcobaleno

 

   Giunsero sul posto, diedero un’occhiata al progetto e cominciarono a misurare, e tutti credettero che sicuramente avrebbero costruito una centrale elettrica o una strada per il villaggio. Soltanto dopo, quando presero a calcolare la distanza del cielo, usando i palloni, risultò chiaro che volevano costruire un arcobaleno. Un contadino che era stato assunto per gonfiare i palloni, aveva captato la conversazione tra i due pittori che si occupavano della scelta dei colori, e così venimmo a sapere che si trattava di un investimento destinato a due distretti, denominato Primo Arcobaleno Permanente Statale Nr. 1. Durante la posa della prima pietra sotto le fondamenta vicino al bosco, dove il terreno era più solido, perché calpestato dalle mucche, un rappresentante della provincia disse:

   “Dovreste essere orgogliosi che sul vostro terreno sorgerà una costruzione come questa, che i vostri padri non si sognavano nemmeno. Oggi, avendo a cuore l’abbellimento del nostro paese, abbiamo pianificato almeno un arcobaleno per ogni provincia, il che significa un notevole incremento di colori sulle teste della popolazione, e inoltre in tal modo non dipenderemo più dai capricci del tempo. Tireremo su il nostro arcobaleno con uno sforzo comune perfino in anticipo, alla faccia di quelli che ci descrivono sempre a fosche tinte”.

   All’inizio i contadini trattavano l’arcobaleno con diffidenza. Si lamentavano che esso avrebbe trattenuto le nuvole, e avremmo perso il grano a causa della siccità, ma fu chiarito loro che simili pareri erano contrari al parere della scienza e alla decisione delle autorità. Il progetto dell’arcobaleno portava la firma di illustri architetti, e di sicuro avrebbe spaventato i passeri e altri parassiti.

   I contadini si abbonirono, tanto più che molti trovarono lavoro nel montaggio dei segmenti, e lassù la retribuzione era particolarmente alta. I lavori proseguivano speditamente e qualcuno, per guadagnare tempo,  propose perfino di costruire l’arcobaleno dal basso, ma a segmenti, tuttavia l’idea restò sospesa in aria e non se ne fece niente, inoltre l’ideatore fu molto criticato. L’arcobaleno era giunto alla fase delle rifiniture, quando all’improvviso arrivò un’ispezione e scoprì che esso si spaccava in alcuni punti, perché il materiale era troppo leggero e ondeggiava al vento come un pioppo tarlato. I lavori furono fermati, vennero presi alcuni campioni dell’arcobaleno per essere analizzati, ma nel frattempo la questione fu in parte chiarita: il capomastro, che aveva una casa a Varsavia, si era costruito su di essa un piccolo arcobaleno unifamiliare. Interrogato dall’organo inquirente non riuscì a spiegare, dove avesse preso il materiale per quella iniziativa privata, quindi ovviamente l’arcobaleno fu confiscato e lui finì in prigione. Allora il capomastro disse:

   – Il mio arcobaleno fa ridere, guardate piuttosto quello sulla villa del presidente della giunta!

   Vennero inviati alcuni agenti nel luogo indicato e, in effetti, videro un arcobalendo così enorme, da lasciare il fiato sospeso, tutto costruito col materiale contrassegnato “Arcobaleno Permanente Statale Nr. 1”. Furono subito messi i sigilli e fu lasciato a disposizione del procuratore.

   Agli arresti il presidente disse:

   – Se devo finire in prigione io, allora ci finiscano pure il capo contabile e il magazziniere. Entrambi hanno i pannelli dell’arcobaleno in cantina sotto il carbone.

   – Lei ha dato il cattivo esempio – gridò indignato il procuratore, quando il presidente volle coinvolgere anche il guardiano al cancello, che dietro compenso chiudeva gli occhi sui pezzi di arcobaleno che venivano trafugati.

   L’esempio della direzione fu davvero fatale, perché a un contadino del nostro villaggio, mentre lasciava il cantiere, fu trovato un pezzo di arcobaleno in una gamba dei pantaloni. Un altro lo aveva portato via nel pane e un altro ancora avvolto sotto la camicia; inoltre in alcuni fienili ne furono scoperti diversi metri sotto il fieno. Spiegavano che volevano abbellirsi i tetti con un proprio arcobaleno, perché quello statale, sì era bello, ma era troppo lontano. Nel frattempo l’arcobaleno statale cominciò a scricchiolare, a spaccarsi, e un pezzo cadde sulla stalla del mugnaio, sfondò il tetto e ferì una mucca. Allora arrivò una nuova commissione e accertò che l’arcobaleno aveva dei difetti e costituiva un serio pericolo per la popolazione. Se fosse crollato del tutto, avrebbe potuto seppellire perfino interi villaggi. Pertanto bisognava evacuare quelli che ci vivevano sotto.

   Nel villaggio scoppiarono le lamentele:

   – Per colpa di alcuni individui asociali dobbiamo rimetterci noi! Non bastava loro l’arcobaleno sociale?! San Giuseppe, salvaci tu!

   Tra lo sconforto generale alcuni ebbero i rimorsi di coscienza, e chi aveva un pezzo nascosto nello sgabuzzino o sotterrato sotto un albero, lo tirò fuori e lo portò al cantiere.

   – Ecco – diceva – s’è impigliato da me non so come, perciò lo riporto, forse basta per una toppa.

   I costruttori, dopo lunga riflessione, dichiararono che integrando l’opera nei punti mancanti e rinforzandola qua e là, si sarebbe retta bene sui sostegni. Dopo aver ricuperato gli arcobaleni confiscati al capomastro, al presidente, al magazziniere e al contabile, e aver rimesso insieme i pezzi che si erano impigliati nei casolari, la parte che ancora mancava fu fatta da noi col sistema del lavoro a domicilio, nell’ambito delle attività sociali. Capimmo che il comune, grande, stupendo arcobaleno statale non aveva nulla a che fare con il rachitico arcobaleno privato, che oltre tutto annerisce subito, a causa del fumo che esce dal comignolo.

   Quando il nostro nuovo e magnifico arcobaleno era già innalzato, affinché il procuratore non avesse più risentimenti per la nostra precedente sconsideratezza, decidemmo di costruire, con i pezzi avanzati, un piccolo ma grazioso arcobaleno sulla sua casa.

 

(C) by Paolo Statuti

 

Nikolaj Rerich (1874-1947)

13 Ago

 

Piotr Kuncewicz

Piotr Kuncewicz

 

Nikolaj Rerich

Nikolaj Rerich

   Piotr Kuncewicz (1936-2007), scrittore, poeta, critico letterario e teatrale, storico della letteratura, pubblicista radiofonico e televisivo, è stato per molti anni presidente dell’Unione dei Letterati Polacchi. Nel 1979 uscì la sua raccolta di feuilleton letterari W poszukiwaniu niecodzienności (Alla ricerca dell’insolito). Da essa ho tradotto il testo Pośrednik (Il mediatore), dedicato a Nikolaj Rerich, una delle figure più luminose del simbolismo russo, pittore, filosofo, scrittore, poeta, viaggiatore, scenografo della celebre compagnia di Balletti Russi fondata da Diaghilev.

 

Il mediatore

   Chi fu in realtà? Difficile dirlo. Anzitutto un pittore molto conosciuto, i cui quadri si possono ammirare nelle più importanti gallerie del mondo. Non sono pochi: si calcola che abbia lasciato circa settemila tele, senza contare gli affreschi dipinti nelle chiese ortodosse prima della rivoluzione. E’ noto soprattutto come pittore delle montagne dell’Himalaya. E qui comincia la sua singolarissima avventura, l’avventura di tutta la sua vita. Ma Rerich non si accontentò della pittura. Già agli inizi del secolo guidò una spedizione scientifica durata cinque anni nei luoghi meno esplorati dell’Asia.

   Non si separò tuttavia dal mondo, anzi a modo suo prese parte anche alla politica. Si trattava più esattamente della cultura. Quando fu approvato il patto sulla tutela dei beni culturali, il contributo di Rerich fu così grande, che al patto fu dato il suo nome. Rerich si stabilì ai confini dell’Himalaya e visse un po’ alla maniera di Tolstoj. Del resto similmente a quest’ultimo, diventò a poco a poco una grande autorità morale. Ogni tanto visitava l’Unione Sovietica, anche se là il contenuto delle sue meditazioni e dei suoi scritti non poteva di certo suscitare entusiasmo. Eppure Lunačarskij e in seguito a quanto pare anche Stalin, trovarono tempo per lui. Per una figura di quel calibro, non c’è da stupirsi. Rerich fu un filosofo alla maniera indiana – non senza motivo tra i suoi amici più intimi c’erano Gandhi, Tagore, Nehru.

   Dipingeva l’Himalaya, conventi e castelli sui monti, dipingeva il Tibet. La sue tele dai viola e gialli intensi, raffiguranti paesaggi rocciosi, sobri, suscitano un’impressione incredibile, c’è in essi un certo simbolismo in armonia con la creazione poetica. Nelle sue poesie si avverte un cammino, una esperienza interiore, emerge da esse un ben preciso piano di valori.  Nel mondo sono stati lasciati dei “segni sacri” e l’uomo è tenuto a trovarli, o almeno a cercarli. Ognuno è chiamato e ognuno può ricevere la chiamata. Purché la sappia sentire, perché la chiamata è sempre inattesa. L’interpretazione della sua arte non deve essere soltanto religiosa, ma deve includere anche e soprattutto il senso della vita e del proprio destino, che ogni uomo dovrebbe scoprire e realizzare. Quella di Rerich è una morale assai elevata. Purtroppo, il più delle volte non raggiungiamo la nostra vocazione, qualunque essa sia. Forse per questo un autore come Rerich provoca in noi a volte un senso di insofferenza – ci rammenta cose che non è comodo ricordare nella vita di ogni giorno. Anche per questo motivo forse è un poeta che non troverà mai un gran numero di lettori. Ma se ci sono, essi si distinguono per le loro alte qualità – tra gli ammiratori di Rerich e della sua poesia oltre a Tagore c’era anche Gor’kij…

   Le sue poesie sono molto semplici e al tempo stesso complesse. Semplici perché a volte in esse non c’è ombra di ritmo, ed è del tutto assente la rima. Di regola sono parabole, allegorie, che non vanno capite alla lettera. Ma il precetto morale, sempre presente, è letterale e concreto.

   Mi vergogno ad ammetterlo, ma fino a poco tempo fa la mia conoscenza di Rerich era assai nebulosa. Ora, lo dico pienamente convinto, considero Rerich una delle figure più straordinarie del XX secolo.

Poesie di Nikolaj Rerich tradotte da Paolo Statuti

 

Gocce

La Tua felicità riempie

le mie mani. E’ tanta da versarsi

attraverso le mie dita. Non posso

trattenerla tutta. Non faccio in tempo

a scorgere i lucenti rivoli di ricchezza. La Tua

buona onda attraverso le mani si versa

in terra. Non vedo, chi raccoglierà

il prezioso liquido? Le minute stille

su chi cadranno? A casa non giungerò

in tempo. Di tutta la felicità nelle mani

strette con forza riuscirò a portare soltanto

                                 gocce.

 

La perla

 

Di nuovo o messaggero. Di nuovo il Tuo

comando! E un dono da Te!

O Signore, Tu mi hai mandato

una Tua perla e hai comandato

d’inserirla nella mia collana.

Ma Tu sai, o Signore,

la mia collana – è falsa.

Ed essa è lunga, come sono

lunghe soltanto le cose

false. Il tuo dono scintillante

tra i ninnoli offuscati

annegherà. Ma Tu

hai ordinato. Io eseguirò.

 

Ehi, voi, bighelloni di strada!

Nella mia collana

c’è datami

dal Signore

                 una perla!

 

Col sorriso?

 

O messaggero, mio messaggero!

Tu te ne stai lì e sorridi.

E non sai cosa mi hai

portato. Tu mi hai portato il dono

della guarigione. Ogni mia lacrima

guarirà una malattia del mondo.

Ma, Signore, dove prendere

così tante lacrime e a quale

dei mali del mondo devo consacrare

il primo torrente? O messaggero,

mio messaggero, te ne stai lì e

sorridi. Non c’è in Te

l’ordine di curare l’infelicità

                                   col sorriso?                   

 

Si rallegra

 

Dietro la mia finestra di nuovo splende

il sole. Dell’iride sono rivestiti tutti

i fuscelli. Sui muri sventolano

le raggianti bandiere della luce. Di gioia

la vivifica aria tremola. Perché

sei inquieta, anima mia? Ti sei spaventata

per ciò che non sai. Per te

il sole s’è oscurato. E si sono spente

le danze dei felici fuscelli.

Ma ieri, anima mia, tu sapevi

così poco. Così grande è

la tua ignoranza. Ma a causa della tormenta

era tutto così povero, che tu ti sei

considerata ricca. Ma ecco il sole

oggi è sorto per te. Per te

le bandiere della luce hanno sventolato.

I fuscelli la gioia ti hanno portato.

Tu sei ricca, anima mia. A te

giunge il sapere. La bandiera della luce

su di te risplende!

                      Si rallegra!

 

La mattina

 

Non so e non posso.

Quando voglio, penso, –

qualcuno vuole più fortemente?

Quando apprendo, –

non sa qualcuno ancora più fermamente?

Quando io posso, – non può

qualcuno meglio e più a fondo?

Ed ecco io non so e non posso.

Tu, che vieni in silenzio,

senza parlare dimmi, nella vita cosa

volevo e cosa ho raggiunto?

Posa su di me la tua mano, –

di nuovo potrò e bramerò,

e ciò ho bramato di notte verrà in mente

                              la mattina.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Alcuni quadri di Nikolaj Rerich
i (11)i (12)i (13)i (14)i (15)i (16)i (17)i (18)i (19)i (20)

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Maria Maddalena

11 Ago

 

Jan Dobraczyński

Jan Dobraczyński

 

Santa Maria Maddalena (Domenico Tintoretto)

Santa Maria Maddalena (Domenico Tintoretto)

 

   Nel Vangelo ci sono pagine molto belle e toccanti, soprattutto quelle in cui ci imbattiamo nella misericordia e nel perdono. In particolare mi ha sempre commosso l’episodio dell’adultera (Gv 8, 3-11), dove troviamo di fronte la misericordia divina e la miseria umana, dove è così grande l’effusione del perdono e della grazia da parte della misericordia, che la miseria viene riabilitata e ristabilita nel bene.  La figura della Maddalena ha ispirato scrittori, poeti, pittori e musicisti. Tra gli uomini di penna c’è il romanziere cattolico Jan Dobraczyński (1910-1994), il cui libro Magdalena è stato pubblicato in italiano nella mia traduzione dalla casa editrice Gribaudi (Ho visto il Maestro. Il romanzo di Maria Maddalena, 2005). Per i miei lettori ho scelto le avvincenti pagine relative alla conversione di questa donna che, al pari degli uomini, fu chiamata a testimoniare il Vangelo, e per questo la Chiesa ortodossa le dà il titolo di apostola.

 

   Fu svegliata dal chiasso, dal bagliore delle torce e dalle mani che la scuotevano violentemente. Nella piccola stanza aveva fatto irruzione un gruppo di uomini. L’afferrarono brutalmente per i capelli, tirarono via le lenzuola, le strapparono di dosso la kuttona. Con gesto disperato si aggrappò al lenzuolo e se lo strinse al petto. A botte e strattoni la tirarono fuori dalla stanza. Per un attimo scorse, tra gli aggressori che non cessavano di urlare, la faccia spaventata del padrone di casa. La trascinarono lungo il corridoio senza smettere di colpirla. Il lenzuolo le si era avvoltolato tra le gambe. Cadde. Allora la presero a calci, scuotendola e tirandole i capelli. Sentiva su tutto il corpo il tocco delle sudicie mani.

   La turba che la trascinava si riversò sulla strada. Lì aspettava una folla ancora maggiore. Benché la colpissero da tutte le parti, riuscì a scorgere nella calca il fariseo che l’aveva importunata il giorno prima. Egli e alcuni altri vestiti da farisei davano gli ordini.

   Le tolsero via il lenzuolo con il quale voleva coprirsi, le sputarono in faccia, le strapparono gli orecchini. Lo stupore che l’aveva colta dopo essere stata brutalmente svegliata si era trasformato in paura mortale. Era sicura che tra un attimo sarebbe morta. Quegli uomini senza dubbio la trascinavano per lapidarla. La sua costernazione aumentò ancora , quando scoprì di conoscere la faccia dell’uomo che la reggeva per i capelli e non smetteva di scuoterla. Era una faccia che aveva già visto. Doveva essere uno degli uomini di Melitone. Ma non aveva il tempo di riflettere. Cercava di proteggere il viso dai colpi e dagli sputi. La turba ululando e urlando se la trascinò dietro lungo una stradina, sempre colpendola con le mani e con i piedi. Sentiva rivoli di sangue che le scorrevano sul viso e sul corpo. Inciampava, cadeva, di nuovo si rialzava. Il crescente dolore aveva soffocato in lei anche la paura della morte.

   Non si rendeva conto di dove la portassero, ma a un certo momento notò che si trovavano sul ponte del fiume Xystos e della valle del Tyropeon. In tal caso la trascinavano verso il Tempio. Strano. Se volevano lapidarla, avrebbero dovuto portarla fuori città…

   Ma questi pensieri apparvero e scomparvero come un lampo. L’unica cosa che in lei si rafforzava sempre più era la consapevolezza che non avrebbe potuto sopportare oltre quel dolore: doveva finire, anche se la sua fine avesse significato la morte. «Basta, Basta!» le martellava nella testa. Tutto fuorché quella incessante valanga di colpi…

   All’improvviso la folla si fermò. Maddalena alzò la testa, tolse le mani dal viso, scostò i capelli insanguinati che le coprivano gli occhi. Si trovavano nel cortile del Tempio, davanti al colonnato detto portico di Salomone, nel luogo dove erano soliti riunirsi i dottori e i maestri per meditare ad alta voce sui versetti della Torah, circondati dagli ascoltatori. Il corteo si mescolò a quelli che ascoltavano colui che stava parlando. I farisei che avevano guidato l’aggressione andarono oltre. Si avvicinarono all’uomo che sedeva sotto una delle colonne del portico.

   Era alto e di bell’aspetto. Alla luce del sole i suoi capelli avevano il colore giallo bruno del miele. Il volto esprimeva gravità, serenità e una strana tristezza. Rivolse ai nuovi arrivati i grandi occhi scuri, che fino a quel momento aveva tenuto fissi sui volti di coloro che lo ascoltavano. Erano occhi profondi. Sembravano parlare, domandare e rispondere, aspettare e chiamare a sé.

   Quelli che lo stavano ascoltando si ritrassero e formarono un ampio cerchio. Malgrado fosse di prima mattina, erano in molti. Il gruppo condotto dai farisei si fermò al centro, separato dalla folla. Al cenno di un fariseo Maddalena venne spinta avanti. Quando le mani dei persecutori la lasciarono, stramazzò al suolo. Giacendo cercava di celare la sua nudità. Aveva il corpo coperto di sangue e di lividi, i capelli arruffati le cadevano sul viso. Attraverso essi, come da una grata, guardava l’uomo che sedeva sempre appoggiato alla colonna. Tre giovani farisei si avvicinarono a lui. Uno disse:

   – Ti salutiamo, rabbi.

   Chinò lievemente la testa.

   – Anch’io vi saluto. Siete i benvenuti. La pace dell’Altissimo sia sempre con voi. Cosa vi conduce qui?

   Il fariseo indicò con un ampio gesto la donna che giaceva a terra.

   – Ti abbiamo portato questa donna dissoluta e adultera, rabbi. E’ stata la concubina di un pagano. L’abbiamo sorpresa in flagrante adulterio. Che dobbiamo fare di lei? Tu cosa dici?

   Soltanto allora capì chi doveva essere l’uomo dal quale l’avevano condotta. Dalle sue parole dipendeva il suo destino. A quanto pare era pietoso con gli infermi. Ma lei non era inferma. Malgrado ciò, provava il desiderio di alzarsi di scatto e di gettarsi ai suoi piedi. D’implorare pietà e soccorso. Eppure non poteva farlo. Aveva la sensazione che i suoi capelli e le sue braccia fossero stretti da mani invisibili e la reggessero in modo da non farla muovere. Cominciò a tremare, sia per la paura che per la disperazione.

   – E cosa dice la Scrittura? – udì di nuovo la voce dell’uomo.

   Un altro fariseo, evidentemente preparato a questa domanda, prese il rotolo che aveva con sé, lo distese e cominciò a leggere, scandendo ogni parola come se cantasse:

   – Dice la Scrittura: «Gli uomini della città conducano via la donna dalla casa del padre e sia lapidata finché non morirà…»

   – Dunque ha peccato in casa di suo padre? – l’uomo interruppe con questa domanda la lettura del fariseo.

   – Non ha il padre. Era sotto la tutela del fratello. Ha abbandonato la casa per commettere adulterio. E’ stata vista peccare con i pagani. La Scrittura impone chiaramente di lapidarla. E tu, rabbi, cosa dici?

   Non rispose. Si alzò lentamente. Adesso si vedeva che era alto, superava in altezza coloro che lo circondavano. Fissò a lungo i volti dei farisei che aveva davanti a sé. Quello sguardo sembrava penetrare in profondità, sembrava toccare i cuori degli uomini. Quelli istintivamente indietreggiarono. Ed egli sempre lentamente si chinò, si inginocchiò. Sulla polvere rossa che il vento d’oriente aveva portato e che copriva le piastrelle del cortile, scrisse qualcosa con il dito. I farisei che seguivano ogni suo gesto accompagnavano con lo sguardo il movimento del dito. A mano a mano che leggevano però, sui loro volti appariva dapprima lo stupore, e subito dopo l’indignazione e lo sgomento. Guardavano ora colui che scriveva, ora se stessi. Ad un tratto quello che aveva letto la Scrittura avvolse il rotolo e frettolosamente scomparve nella folla. Si allontanò anche quello che il giorno prima pretendeva che Maddalena cedesse alle sue voglie. Infine se ne andò anche il terzo.

   Il gruppo privo dei capi non sapeva cosa fare. Si avvicinarono al Maestro che non smetteva di scrivere. Appena però uno posava lo sguardo su ciò che era stato scritto, subito indietreggiava, si nascondeva dietro gli altri. Spariva, si  allontanava. Il gruppo si scioglieva come neve a contatto dell’acqua calda. L’uomo che Maddalena aveva riconosciuto come un seguace di Melitone, corse via come se avesse visto il diavolo.

   Non passò molto tempo e non era rimasto più nessuno di quelli che l’avevano condotta lì.

   Allora l’uomo smise di scrivere e si alzò. A passi lenti andò verso Maddalena. Tremava tutta. Aveva dimenticato il corpo percosso e ferito. L’uomo che le si avvicinava la impauriva. Le pareva che delle voci le gridassero in un orecchio: «Scappa anche tu! Nasconditi!» Ma non aveva la forza di sollevarsi da terra. Premette la testa contro le piastrelle del cortile. Era sicura che colui che le si avvicinava avrebbe scritto davanti a lei qualche parola terribile, capace di farla precipitare in un abisso.

   L’uomo di chinò su di lei. Ella fissava i suoi piedi nei semplici sandali legati con un laccio. Al colmo dello spavento aspettava il fulmine.

   Al suo posto udì una voce virile, profonda, inaspettatamente mite:

   – Nessuno ti ha condannata?

   Quella mitezza la spinse ad alzare la testa. Vide chino su di sé un volto pieno di comprensione, pietà e bontà. Ella non ricordava lo sguardo di suo padre, perché era morto quando era una bambina, ma sentiva che in quel modo poteva guardare soltanto un padre. I suoi occhi penetravano nell’intimo, bruciavano e confortavano. Erano come il fuoco che cauterizza una ferita e la guarisce.

   – No, rabbi – disse. – Nessuno…

   – Nemmeno io ti condannerò – e così dicendo si tolse il mantello dalle spalle e coprì il corpo insanguinato della donna. – Torna a casa, alla casa paterna…

   Scoppiò in un pianto dirotto. Piangeva come mai le era successo nella vita. Aveva capito di essere stata salvata, aveva capito e nello stesso tempo si rendeva conto dell’enormità del male da lei commesso. Egli per lei non doveva scrivere nulla. Di lei sapeva tutto. Conosceva ogni suo peccato. E aveva cancellato tutto con una sola sua parola.

   – Oh, Signore! – esclamò. – Oh, Signore, Signore!

   Accostò la testa ai suoi piedi, vi premette sopra le labbra. – Oh, Signore! – ripeteva, non riuscendo a pronunciare nessun’altra parola.

   Protese il dito con il quale poco prima aveva scritto i suoi tremendi moniti e toccò la fronte di Maddalena, dicendole:

   – Va’ e non peccare più.

   Le sembrava che con quelle parole il cielo le fosse piombato sulla testa. Non c’era vento, eppure aveva l’impressione che un potente turbine l’avesse colpita e le penetrasse nel corpo, nelle ossa, in ogni particella del suo essere. L’aveva fatta a pezzi e annientata. Ma era un vento misericordioso. Aveva ucciso e contemporaneamente restituito alla vita. L’aveva resa di nuovo quella di un tempo… Incredula sollevò la testa. Egli non era più vicino a lei. Si era allontanato, sedeva di nuovo sotto la colonna. Di nuovo parlava e la folla lo aveva circondato per ascoltarlo meglio.

   Il mondo riprese l’aspetto che aveva prima. Il sole splendeva come sempre. Sentiva il brusio delle voci umane. Da qualche parte belavano le pecore, ragliavano gli asini e i cammelli. Tutto era come prima. Soltanto lei non era più quella che avevano trascinato lì…

   Strisciò fino al punto in cui egli si era chinato, toccò con le labbra le pietre. Poi si alzò. Si avvolse nel mantello con cui egli l’aveva coperta. Lasciò il cortile.

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

Jan Parandowski: L’ispirazione

7 Ago

 

Jan Parandowski

Jan Parandowski

 

   Tra le opere di Jan Parandowski (1895-1978), scrittore, saggista e traduttore polacco, ricordiamo in particolare:  Mitologia. Wierzenia i podania Greków i Rzymian (Mitologia. Credenze e leggende dei Greci e dei Romani, 1924), il romanzo Dysk Olimpijski (Disco Olimpico, 1933) e la raccolta di saggi sulla letteratura  Alchemia słowa (Alchimia della parola, 1951). Jan Parandowski è noto soprattutto per la sua creazione legata alla cultura antica. Dal volume “Alchimia della parola” ho tradotto questo saggio per i miei lettori.

 

                                               L’ispirazione

   L’ispirazione è passata di moda. Se questa parola uscirà oggi dalla penna, avrà una punta d’ironia, o sarà semplicemente la ripetizione istintiva di una parola trita, una questione di abitudine, come metafore démodé non arieggiate. Più volentieri la usano i semplici che guardano un uomo intento a scrivere, e la pronunciano con un sarcasmo che cela la loro inquietudine nei confronti di una persona stravagante. Una certa simpatia per l’ispirazione si può ancora scoprire negli scultori: non sempre essi sanno resistere alla tentazione di ornare i monumenti di geni alati che svolazzano sul poeta, o chinati su di lui in un sussurro confidenziale.

   L’ispirazione ha avuto le sue belle stagioni che duravano secoli interi. Essa esprimeva la certezza che l’arte della parola provenisse da Dio, ed è cresciuta con una propria mitologia. Come imprevedibile stato d’animo, nel lessico dei Greci era affine alle parole mania e follia, si mescolava con estasi, con “entusiasmo”, che nel significato originario si riferisce a un uomo “pieno di Dio”, splendeva nelle scure porpore delle religioni dionisiache. Come se ne entusiasmò Friedrich Nietzsche! Cambiando i santi protettori, a seconda delle religioni, l’ispirazione è sopravvissuta non solo nelle convinzioni popolari sui vati, o sul ruolo ispirato e profetico dei poeti, ma era professata sia da loro stessi, sia perfino dai loro studiosi più obiettivi.

   Quante volte nella storia della letteratura si è distinta la poesia spontanea, impulsiva, ispirata, da quella che chiamavano laboriosa, manierata, artistica, oppure anche, ricorrendo a una antica metafora, dicevano di essa che “sapeva di olio”. La prima aveva il profumo dei campi, dei boschi, di una notte tempestosa tramata di lampi, dei cieli aperti, la seconda l’aria viziata di una bottega chiusa. Soprattutto l’epoca romantica spiegò le ali all’ispirazione. Mai se n’era parlato tanto come allora. Nella poesia e nella prosa. Non c’è dissertazione letteraria di quel periodo in cui in ogni pagina non compaia ostinatamente questa parola. Essa si ripete in tutte le lettere, e con certezza non mancava nella conversazione più futile. Il poeta romantico si sarebbe sentito vilipeso, se gli avessero negato l’ispirazione. Słowacki negli anni del misticismo, affermava apertamente che scriveva su incitamento degli angeli. Lo stesso asseriva Swedenborg  a proposito della sua cosmografia mistica, lo stesso William Blake, quando diceva di essere soltanto il segretario delle Potenze Eterne, che gli dettavano i suoi poemi.

   Questa enfasi ha portato alla rovina dell’ispirazione nell’epoca successiva. Inveiva contro di essa Flaubert, la schernivano tutti all’epoca del realismo e del naturalismo, la ignoravano i Parnassiani, alla fine è stata messa alla berlina. Ma quando una parola si logora, si può salvare l’essenza del suo contenuto, trovando per essa una parola diversa. Friedrich Schiller, che visse, se così possiamo dire, nell’epoca dell’ispirazione, ed egli stesso non ne era esente, creò una bella definizione: sorprese dell’anima. Come altre espressioni poetiche, anche questa nella sua esattezza non è inferiore ai termini scientifici. Indica tutti gli attimi – improvvisi, brevi e luminosi come un lampo – che portano un’idea, una soluzione, una strofa, un tratto del carattere o il corso delle avventure di un personaggio. Li suscita di regola un qualche stimolo, niente affatto eccezionale, ma piuttosto semplice. L’idea popolare dell’ispirazione che assale gli scrittori tra le grandiose o incantevoli vedute della natura, si potrebbe paragonare alla pertinacia con cui i pittori da un secolo e mezzo raffigurano Napoleone su un cavallo bianco, benché Frédéric Masson, ferratissimo in materia, abbia dimostrato che l’imperatore evitava di cavalcare cavalli bianchi.

   Questo semplice stimolo trae la sua forza dalle caratteristiche psichiche dello scrittore e dalle circostanze in cui si manifesta. Il più delle volte esso è affettivo. L’improvviso passaggio dalla tristezza alla gioia o viceversa, sotto l’effetto di una sensazione (luce, colore, voce, odore) ci commuove e in un attimo di intenerimento, esaltazione, pungente amarezza o profonda pena, di silenzio interiore o di euforia, si mette in luce l’oscuro lavoro delle nostre menti. Una volta – non ce ne siamo neanche accorti – è caduto in esse un debole germe ed è entrato in un periodo di lenta maturazione, di vita latente, di lungo parassitismo nel cervello. Per mesi, per anni, esso non si fa vivo. Lo scrittore si occupa di mille questioni, coglie miriadi di sensazioni, mentre nell’inestricabile tumulto della vita psichica, quel germe celato in profondità si nutre di succhi ignoti. Nel suo nascondiglio trovano posto sia impressioni comuni che sublimi, informazioni semplici o straordinarie, frammenti di conversazioni e di letture, volti, occhi, mani, sogni, desideri, visioni – giunge in esso una innumerevole quantità di eventi, ciascuno dei quali è una avventura dell’anima e ciascuno può alimentare quel germe embrionale. Finché un bel giorno, in un momento in cui non ce lo aspettiamo, quando siamo, come ci sembra, il più lontano possibile da tutto ciò che ad esso si lega, nasce la forma tanto desiderata e in grado di vivere. Per cause sconosciute è avvenuta una crisi, l’improvvisa fine di un lungo inconscio lavoro, nella sua veemenza spesso simile alle compresse forze della natura e parimenti impersonale. Haydn, quando colse la melodia che nella Creazione doveva rendere la nascita della luce, esclamò estasiato: “Questo proviene non da me, ma dall’alto!”

   Non c’è differenza qui tra scrittore e filosofo, artista, scienziato. Anziché ripetere la solita storia della mela di Newton, vale la pena ricordare il meno noto, ma forse più significativo esempio di creazione del grande matematico Henri Poincaré. Per mesi interi egli aveva invano cercato un certo modello, agitando senza sosta il suo problema nei pensieri. Alla fine, senza aver trovato la soluzione, lo abbandonò del tutto e si occupò di altro. Passò molto tempo, finché una mattina, come spinto da una molla, si alzò all’improvviso dalla tavola dove stava facendo colazione, si avvicinò alla scrivania e scrisse subito quel modello, senza riflettere, e si direbbe come copiato dalla lavagna. Allo stesso modo si impongono agli scrittori le conclusioni tirate per le lunghe, di drammi, romanzi, novelle, in un lampo si chiariscono il carattere e la sorte ingarbugliata dei personaggi, si trovano  strofe a lungo e invano cercate, come quella che con le dita tremanti Jean Moréas annotò su un pacchetto di sigarette alla luce di un lampione. Goethe racconta nell’introduzione a  Der ewige Jude che intorno alla mezzanotte saltò giù dal letto come un forsennato, e con il petto che gli scoppiava dal desiderio di cantare quel personaggio enigmatico. E anche in questo caso avvenne molto probabilmente come sempre: per anni aveva portato dentro di sé il tono, l’atmosfera della ballata, prima che gli si rivelasse come poesia. Ecco in qual modo egli concluse il ricordo di quelle impressioni: “Noi prepariamo soltanto una catasta di legna e ci preoccupiamo che sia asciutta, ma quando arriva il momento – con nostra meraviglia – la catasta da sola non si accende”.

   Queste “sorprese dell’anima” sono di diversa luminosità: dai brevi bagliori che illuminano la mente o un frammento di immagine, fino alle grandi e vaste scoperte. In quest’ultimo caso esce in superficie una notevole area del subconscio ed è una potente scossa, a guisa di catastrofe tettonica, quando dal fondo dell’oceano emergono delle isole, che diventeranno nuove patrie per piante, animali e uomini. Ricordando il giorno in cui sulla strada per Rapallo restò sorpreso dall’apparizione del suo Zaratustra, Nietzsche afferma: “Arriva una illuminazione, cioè a un tratto con incredibile certezza e con tutti i particolari, appare all’uomo qualcosa che nel profondo dell’anima lo scuote e lo sconvolge. Un pensiero nasce come un lampo, un’estasi, l’uomo perde il controllo di sé. Allora tutto avviene involontariamente, eppure una sensazione di libertà invade l’uomo come un ciclone”.

   Questo tumulto dello spirito con la sua inattesa e impetuosa irruzione arreca perfino uno sfinimento, come il deliquio di Mickiewicz dopo una grande Improvvisazione. Qualcosa di simile provò Cartesio il 10 novembre 1619. Egli considerava per sé quel giorno importante come la data di nascita. Allora infatti gli venne la sua idea in una luce abbagliante. Quell’attimo fu preceduto dapprima da uno stato di raccoglimento, di profonda quiete interiore, cui fece seguito una fortissima eccitazione. Baillet, il suo biografo, riferisce: “Era esausto al punto di rischiare una encefalite, e la mente infocata dall’entusiasmo partoriva sogni e visioni”. Alla fine Cartesio cadde in ginocchio e promise un pellegrinaggio alla Madonna, affidando alla Sua tutela la creazione della sua mente. E chi si sarebbe atteso da un nemico dell’ispirazione come Paul Valéry, che egli trascorresse a Genova una memorabile notte, rivelatasi poi decisiva per tutta la sua vita spirituale?

   Sono noti gli strani sintomi che accompagnavano le improvvisazioni di Mickiewicz: si alterava in viso, impallidiva, con uno sforzo furioso declamava i versi, tenendo gli ascoltatori in una tensione magnetica. Il dolce suono del flauto gli era d’aiuto, come se accordasse lo strumento della sua poesia. Fenomeni simili furono notati anche in altri poeti, e importuni meduncoli cercavano in essi i sintomi dell’epilessia, per lo più senza alcun motivo. L’improvvisazione attirava i poeti, era considerata un dono particolare, finché non si degradò a gioco di società o a un grottesco preso sul serio, come si trova nella onesta Deotyma.

   Cosa degna di considerazione: esiste una stretta affinità nel meccanismo dell’improvvisazione, sia quella di prima grandezza, sia quella paragonabile a un candido gioco, e questa cosa è lo stimolo della necessità. L’ispirazione per necessità da secoli era nota agli oratori. Anche dalla descrizione del loro comportamento si possono scorgere esattamente gli stessi fenomeni riscontrati nei poeti improvvisatori. E’ infatti la lotta con il burrone, sul cui ciglio si trova l’oratore, che ha davanti l’incredibile sfolgorio degli occhi fissi su di lui. Le prime parole lo sollevano su una distesa pericolosa come le ali di Icaro: l’uomo resiste o con una grande forza di spirito, oppure con la pratica, l’esperienza e la routine.

   Agli scrittori questo tipo di ispirazione era sconosciuto, quando l’opera poteva maturare a lungo, secondo la volontà dell’autore. Una eccezione erano i poeti drammatici, che spesso sperimentavano lo sprone della necessità tra i capricci del repertorio, del cambiamento dei gusti, delle richieste di circostanza. Ai nostri tempi, cioè più o meno da un secolo e mezzo, nella professione dello scrittore la necessità è la buona fata, il genio o il demone. Il termine fissato nel contratto, la parte del manoscritto data per la composizione, la stampa di un romanzo a puntate e circostanze analoghe, diventano un pungente stimolo che trae dallo scrittore una segreta energia, e tutto si svolge in un impeto improvviso, e un po’ anche nello stordimento. Gli scrittori si lamentano di questi fastidi della professione, ai quali tuttavia sono debitori di buone pagine, di eccellenti conclusioni, spesso perfino della scorrevolezza dello stile, ciò che sperimentò Sainte-Beuve, quando l’impegno dei feuilleton settimanali non gli lasciava il tempo di rivestire le frasi di una raffinatezza di vecchio stampo.

   Sainte-Beuve, anche se uscito dai romantici, non poteva più permettersi l’antica elevata ispirazione, giacché a metà del secolo XIX essa subì una severa sconfitta. Ecco il credo di Stendhal: “Nel 1806 non avevo ancora cominciato a scrivere, finché non ho sentito in me il genio. Se intorno al 1795 avessi potuto conversare sui miei propositi letterari con una persona sensata e se essa mi avesse detto di scrivere ogni giorno per due ore, con o senza il genio, non avrei sprecato dieci anni della mia vita nella stupida e lunga attesa delle ispirazioni”. E da quel momento egli migliorò tanto da terminare la Certosa di Parma in poco meno di due mesi, grazie a un lavoro sistematico. Flaubert non avrebbe scritto neanche un capitolo in così breve tempo, ma egli non aveva bisogno del consiglio di nessuno, per giungere alla stessa saggezza. Nessuno come lui in quell’epoca ancora frusciante di romanticismo, ed essendone profondamente imbevuto, si schierò con tanta ira contro l’ispirazione. La considerava un pretesto per i bricconi e un veleno per l’attività creativa. “L’ispirazione – affermava – consiste nel mettersi ogni  giorno al lavoro alla stessa ora”.

   Ma ascoltiamo un’altra testimonianza: “L’ispirazione è decisamente sorella del lavoro quotidiano. Questi due contrari non si escludono come tutti i contrari, di cui è composta la natura. Esiste nella mente una specie di meccanica celeste, di cui non bisogna vergognarsi, ma bisogna dominarla, come i medici dominano la meccanica del corpo”. Chi mai lo dice? Uno zingaro, un poète maudit, un collezionista di mormorii dell’anima, un amante degli stati d’animo e al tempo stesso un intransigente cesellatore del verso, il Cellini della parola poetica – Baudelaire. E senza alcuna reticenza, per sbarrare al genio, cui sono state spennate le ali, tutte le strade per le quali potrebbe insinuarsi, aggiunge: “L’ispirazione dipende da pasti regolari e gustosi”. Non lo disse per scherzo: i Francesi in queste cose non scherzano. Da loro i poeti non hanno mai cercato modelli tra le effimere, che hanno le ali, ma non hanno lo stomaco.

   Oggi siamo ancora nella scia di questa tradizione relativamente giovane, che ha sostituito l’antica ispirazione con altri idoli: Lavoro, Pazienza, Volontà. Senza una forte volontà non c’è un grande creatore. Tuttavia è davvero una scoperta di recente data? Queste parole di Dante lo smentiscono in modo chiaro: “Seggendo in piuma, in fama non si vien, ne sotto coltre”.

 

(C) by Paolo Statuti