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Jarosław Iwaszkiewicz (1894-1980)

23 Giu

 

Johannes Brahms

 

Il valzer di Brahms

Il valzer di Brahms in La bemolle maggiore

è il leitmotiv della mia vita.

Lo sonavo a lei che doveva tornare e non tornò.

Lo sonavo a lei per la quale ero cattivo.

Lo sonavo a te – allora, quando una volta per sempre

mi stesi ai tuoi piedi, come infinito calpestato.

Lo suono ogni volta che nell’esecuzione aureoalata

mi sfiori con un sorriso fugace, che per te è

come il riflesso di nuvole sull’acqua.

E per me è la gioia più profonda.

E lo suono quando so che sei da me lontana

col pensiero, quando sei altrove allegra e ami altri

felice, fugace come al solito…

E proprio allora esso risuona nel modo più delicato.

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

Gli ulivi

23 Ago

Un mio pastello abbinato a una poesia di Eugenio Montale

 

Paolo Statuti: Ulivi

 

 

Da: „Fine dell’infanzia” di Eugenio Montale

 

Pure colline chiudevano d’intorno

marina e case; ulivi le vestivano

qua e là disseminati come greggi,

o tenui come il fumo di un casale

che veleggi

la faccia candente del cielo.

Tra macchie di vigneti e di pinete,

petraie si scorgevano

calve e gibbosi dorsi

di collinette: un uomo

che là passasse ritto s’un muletto

nell’azzurro lavato era stampato

per sempre – e nel ricordo.

Janusz Korczak (1878-1942)

12 Lug

 

 

Janusz Korczak, 1933

  

 

Medico, umanista, pedagogo e scrittore ebreo polacco. Pseudonimo del dottor Henryk Goldszmit, che dedicò la sua vita a scrivere libri sull’educazione dei bambini nello spirito della fratellanza tra i popoli. Direttore di una casa per bambini ebrei, chiuso con tutti gli altri abitanti tra le mura del ghetto di Varsavia, che venne letteralmente raso al suolo dopo uno spietato e sistematico rastrellamento, si lasciò portare assieme ai suoi orfani nelle camere della morte di Treblinka, e ne volle condividere la sorte, nonostante la possibilità che aveva di essere aiutato dai suoi amici polacchi. Oltrepassò con i suoi bambini la porta della camera a gas, lasciando dietro di sé una leggenda. Tra le sue opere, ricordiamo: Sława (La fama), Józki, Jaśki i Franki (diminutivi di nomi polacchi) e Joski, Mośki i Srule (diminutivi di nomi ebrei), e ancora Król Maciuś Pierwszy (Re Matteuccio I), Kajtuś czarodziej (Kajtuś il mago), Kiedy znów będę mały (Quando di nuovo sarò bambino), Jak kochać dziecko (Come amare i bambini).

Pubblico qui la sua Preghiera dell’artista nella mia traduzione.

 

La preghiera dell’artista

 

Ti ringrazio, o Creatore, per aver voluto creare un essere strano come me. Ingarbugliato contro ogni logica, eppure tale come dev’essere; del resto forse Ti servo, dal momento che esisto. Quanto più insensato, tanto più Ti sono riconoscente – io – protesta – impertinenza – sfrontato padrone di me stesso nell’indocile gregge, io – burlone – Pesce d’Aprile e albero Aswattha.

La mia preghiera, o Creatore, non è quella di un tempo, quella di tutti, ma è la mia di oggi – proprio in questo – questo unico momento, che non si ripeterà più. Per intenderci: sono il Tuo giullare – profeta – e Fratello! Io – ma lo so forse chi sono? Lo so che non mi conosco, a volte assurdamente dignitoso e a volte dignitosamente assurdo – fiero, umile, tenero, minaccioso, sdegnoso mi strofino come un gatto, nascosto spiffero tutto, vendo lacrime, perdo bastoni e temperini, attento alla minima ombra di schiavitù in arrivo, non spezzo ma brucio i ceppi – e soltanto nel più lieve sussurro io Ti vedo, o Creatore, e per questo Ti sono immensamente grato. Non credi che ho voglia di pregare? Ma sì! Per far dispetto ai pretuncoli – sei Dio – lo so che significa.

Ti ringrazio, o Creatore, per aver creato il maiale, l’elefante con il lungo naso, per aver lacerato le foglie e i cuori, e aver dato i musi neri ai Neri, e alle barbabietole lo zucchero. Grazie per l’usignolo e la cimice, grazie perché la ragazza ha il seno e l’aria soffoca il pesce; perché ci sono i lampi e le amarene, perché è stupendo che ci hai ordinato di nascere, perché hai talmente intontito l’uomo, da fargli pensare che non è possibile diversamente; perché hai dato la Mente alle pietre, al mare, alle persone.

La Mente che al prossimo racconta balle e per se stessa fantastica superbe favole. Non il cielo – essa ha le più vermiglie albe e i più vermigli tramonti – essa è aquila, furfante, menzogna. Oh, come l’amo!

Salta le lezioni – indovina dove gironzola, finché la briccona non tornerà imbrattata, diversa dalla gente, e così astutamente pentita, e così allegra, giura di correggersi – lo stupido le crederà – sa che la perdoneranno, la mascalzona.

Tutto presagisco, non so niente. Considero stupide le verità lette; hanno un valore che osservo attraverso il buco della serratura, e quindi in modo impreciso, perciò mi sbaglio sempre; tanto meglio. Sono!

Non so niente. tutto indovino. Lo sai, o Creatore, che significa: tutto!

Non sono affatto servizievole, e porca miseria devo essere il primo; la speranza la perdo solo per cinque minuti, tutto ciò che è saggio lo inizio da domani; mi riempio di sabbia  dall’ombelico in su, mi crogiolo al sole; compatisco la pera, sola nel campo, e bacio un vecchio sulla spalla. Seriamente mi gratto la pancia, faccio le capriole in aria e avrò sempre sedici anni, farò i giochi da cortile, fischierò con le dita e perderò tutti i bottoni dei calzoni. Dalla testa ai piedi non sono affatto servizievole, oh come sarebbe povera l’umanità senza di me! Le insegno ad amare il peccato e gli incendi e a respirare a pieni, pieni, pieni polmoni.

Su un mio unico quesito sgobbano tutta la vita cento ottusi professori. A rosate dolci orecchiette mando la buonanotte, a migliaia di ragazze e ragazzi. Spalmo la pomata su tutti i cani rognosi. Prendo al collo il passato che cerca di liberarsi e lo rivelo. E con la pistola tiro al futuro come a un bersaglio. E bevo il sole, senza battere gli occhi. E così qualcosa mi dice che ci hai creati di punto in bianco, e hai inclinato l’asse della terra per fare uno scherzo, e che allora dovevi essere un po’ ubriaco: un artista non si crea a mente lucida. E i loro, di quelli di là, gli unici sogni arcifestivi – sono il nostro pane quotidiano.

Non mi piacciono solo quelli che non bevono;  ho paura solo di quelli che ambiscono e sanno ciò che vogliono.

I miei istanti – solo trovatelli e figli illegittimi – senza assistenza né ordine – ballano sulla corda, inghiottiscono le torce.

Rubo una pera nel frutteto altrui; misfatto non grave – non fuggo, ma volo via leggero; sempre in tempo, ubriaco, mi sveglio, da una pozzanghera esco imbiancato, e Dio non si adira con me – è indulgente.

Tutto amo spensieratamente – con gioia – senza preoccupazioni.

Furbo di tre cotte, ingenuo come una ragazza, quando crede. Mi osservo e sorrido, oppure litigherò con forza. Colleziono perline, spalanco gli occhi, dirò a un lampione: «Solo tu sei saggio e bello». Ogni giorno noto qualcosa di nuovo in ciò che guardo da anni – stupito all’improvviso che il cane abbia la coda, che il tram vada sa solo e la betulla sia così bianca.

Povera coccinella, quando l’occhio ti duole, povera è ogni, ogni, ogni vita terrena.

Sono nato, o Creatore, cinque secoli in ritardo, cinquecento anni in anticipo. Per questo sono così allegro e triste: perché vivo, ho già finito di vivere, ancora non ho cominciato.

Tu ed Io – o Creatore, nessun altro. Ma Io – siamo noi, Noi tutti. Noi – la blasfema sinistra del Tuo Parlamento e del Tuo Trono, Domine, canes (1). Noi, gli arcobaleni del tempaccio autunnale, tra i Tuoi figli pazze creature, noi – neve di luglio – papaveri rossi dei ghiacciai – noi – vele spiegate. Non fa niente se col gomitolo della nonna giochiamo col gattino – noi abbattiamo i troni dei despoti, noi alziamo torri solitarie. Noi da un’anima folle facciamo scaturire un’azione lucidissima, noi obbedienti ai rulli dell’organetto – con un inno al futuro pugnaliamo il presente, moriamo e risuscitiamo per ordine nostro, noi nei cimiteri di tutti gli insuccessi disprezziamo i successi a ricordo della comune impotenza.

Per questo, o Creatore, Ti benedico e con un brivido punto tutto su una carta – lo Stupendo Piacere della Vita.

Va banque (2): La Vita per la Creatività.

 

 

(1) Domine, canes (lat.) – (del Tuo Trono) o Signore, i cani (N.d.A)

(2) Va banque (franc.) – tutto su una sola carta (N.d.A.)

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

Ewa Sonnenberg: Rue de Buci

19 Set

 

 

Arthur Rimbaud

Arthur Rimbaud

Paul Verlaine

Paul Verlaine

 

   La poetessa polacca Ewa Sonnenberg (v. nel mio blog alcune sue poesie nella mia versione) nell’autunno del 1999 si trovava a Parigi, usufruendo di una borsa di studio. In tale occasione ha cercato le tracce di Arthur Rimbaud (1854-1891) e di Paul Verlaine (1844-1896) in Rue de Buci, dove i due poeti avevano abitato. Seduta in un piccolo caffè di questa strada, ha scritto la poesia “Rue de Buci”, che ho tradotto ora in italiano. E’ un monologo poetico di Paul Verlaine, tornato a Parigi cento anni dopo. Questa poesia sarà inserita nella raccolta di prose poetiche di Ewa Sonnenberg dal titolo “Guida lirica dell’Europa”, che uscirà molto probabilmente l’anno prossimo. Sia questa mia traduzione anche un modesto omaggio a Verlaine, di cui quest’anno ricorre il centoventesimo anniversario della morte.

 

Rue de Buci

Questa strada un po’ pazza un po’ monella

vende ciò che ha di meglio

e il marciapiede ha un’unica soluzione

l’edificio tra Eden Park e il caffè Jade

l’ottico Moret in basso e la porta verde

da qui non ci si ritira

 

quasi dovessi vivere un’altra giovinezza

come se andassi dritto in te e tu non avessi nulla in contrario

infuriato con il cielo che tanto aveva promesso

e merdre ci prese per idioti

un autunno schifoso ma non m’importa

solo che fa freddo manca il calore dai polmoni come i tuoi

(spero che tu sia guarito da quella vecchia bronchite)

 

Rimb aspetto tutta la domenica ha dimenticato di santificarla

se la spassa col caffè del lato opposto

non servono più l’assenzio bevo una cioccolata calda

alzo la testa come allora: settembre 1871

lo stesso tentativo la stessa speranza

 

dal tuo lucernario una goccia di sole entra nelle pupille le aguzza

come al solito non sei in casa ti sei dimenticato?

di nuovo sei andato a peccare? tu infantile torturatore?

fa’ buon viso ancora non abbiamo iniziato il gioco

lascia le malate penne unisciti a me

al lucernario hai cambiato le tendine così candide che vergogna!

è mai possibile? ma perché? hai chiesto un prestito a Gavroche?

no preferiresti spenderli in vino

 

non sono potuto nemmeno salire

lasciare un biglietto sulla porta: tuo Verlaine!

nella fossa delle scale che ci turbava c’è una macchina elettronica

questa porcheria prima non c’era

come te la passi? qui ti rimpiangono più di tutti Judyta Szarlota

ricordano la tua geniale soglia unica nel suo genere

demolitore di buone maniere e di azioni del cuore

madame très Belle ha esposto i gerani è del tutto rincitrullita

comment allez – vous ca ca? chiede con la sua vocetta da soprano

come sempre di ottimo umore

 

muovi la tendina saprò che ci sono che vivi

quel sacro lucernario dal quale gettavi le mie mutande sporche

qui si vergognano della biancheria sporca ignorano la buona poesia

gettavi quegli stracci per imprigionarmi e trattenermi

che tempi!

una pioggia d’insulti bestemmie implorazioni e che gesti signorili

 

qui nessuno adesso fa così è in corso un grande lavaggio

un lavaggio meccanico di biancheria sporca e di cervelli

quel profanato lucernario da cui la prima volta chiamasti Paul!

lo sentii lo sento adesso ti cerco nella folla dei ragazzi

vanno e vengono come di solito accade

tu tutto indorato! nessuno di loro come te

 

guardo annoiato le donne brutte e avvizzite

sono tutte morte le belle prostitute con fantasia

sono rimaste solo quelle smunte malaticce o certe mascoline

le idiote ti falsificano

 

squallido freddo umido gli uomini conducono le loro donne

con la cinta dei pantaloni come col guinzaglio così buffi seri

intorno a me seduti per il pranzo domenicale

ma te lo immagini?

stendono bianche tovaglie parlano battendo le posate sul piatto

provo sollievo io triste poeta con una borsa di studio di Parigi

finalmente volevo farti visita una volta dopo cento anni

devi sapere assolutamente una cosa

la poesia è finita!

nel mio paese i poeti scrivono versi sui barbieri

nel mio paese i ragazzi siedono in silenzio davanti alla loro birra

allo  stesso modo noiosi sia ubriachi che sobri

là dove sono io bisogna chiedere le parole più semplici

là dove sono io non se ne intendono ma sai

finiscono di scrivere i propri inizi e i sicuri insipidi finali

più di tutto il rimpianto della libertà è caduto dai grattacieli

sulla testa sul collo digrigna i denti rosicchia le unghie

 

cerco di passare il tempo nei musei e nelle sale d’aspetto

fuori aliti profumati provo nausea

da cosa mi sarai ridato?

mezzogiorno di tentazione dai capelli d’oro

velenosi campanili pungono l’aria

qualcuno ha visto Rimbaud?

un cane randagio stordito cerca il padrone tra i tavolini

timide nuvole atlantiche corrono in un cielo straniero

hanno il sapore del mare di Calais ah! poter tornare in Inghilterra!

mi sono rimaste solo due sigarette

una la fumerò una la lascerò per te

 

tu ed io è solo una questione nostra

e certamente litigheremmo ci azzufferemmo dormiremmo

arriverebbe la polizia l’ambulanza del pronto soccorso

l’opinione pubblica farebbe esercizi di lingue

 

il sole è geloso di noi fa i capricci e si appanna

come se tu dovessi apparire d’un tratto da dietro l’angolo

darmi la mano e allora questa strada di nuovo soltanto nostra

lanceremmo le bricconate e via di corsa nel rifugio-verso

lo tratteremo come la peggiore sgualdrina

bello e claudicante mi sorride

come se di noi sapesse tutto

e compatisse il vecchio grullo che aspetta la sua giovinezza

il pleure dans mon coeur com’ero così sono rimasto grullo

mi arrampico sulle rocciose rive delle dita

ma non ho ottenuto nessun gesto amichevole

l’ora successiva grida Arthur! mostrati finalmente

il tuo Paul di nuovo piange!

 

non ti addolcirò più con la mia glassa di ragazzo

fra breve le feste bisogna comprare qualcosa sia come sia passarle

presto è l’anno nuovo non si può così a bocca asciutta

da qualche parte là in alto dai serenità pesci vino carta

quanto più potrai Rimb insopportabile irritante

come al solito tu te ne infischi hai dimenticato l’incontro

sei fatto così

 

sono arrivati tutti i vecchi conoscenti chiedono di te

che facce faranno quando ci vedranno insieme

quei parnassiani fetenti Merat Chanal Perin Guerin Carjat

avresti un bel da fare! tu già sapevi come agire con loro

lo ammetto io non avevo mai tanto coraggio

Rimb le feste le vorrei bere bere bere senza sosta con te

sì soltanto tu ed io e nessun altro

piuttosto pii desideri per ragazze liceali

nessun limite sporcizia puzzo miseria

l’inchiostro allungato con l’alcol

 

un furbacchione americano sta fotografando il nostro edificio

la blasfema tana in cui mi sono preso i reumatismi

niente è diverso lo stesso numero slogato

uno per un buon inizio zero per essere umili

 

sulla nostra strada parcheggiano automobili e harley

un traffico simile ai nostri tempi non c’era

e quell’abbagliante negozio di vini

a pochi metri dal tuo portone

quasi fosse aperto in nostro onore

peccato che soltanto ora lo avremmo vicino

senza di te non si sa che fare nessuna idea per la vita

da quando ho perso le chiavi e il numero di telefono

ho abitato sulle strade arredando il loro  freddo

ero tutto: rivelazione vate grafomane

rimatore provinciale beatnik underground

di una grande città e maestro di haiku

 

c’è un profumo di mughetti no non sono ubriaco

divertente sei tu? vicino o forse accanto a qualcun altro?

no non sono geloso sai che non lo sono mai stato

una ragazza vende orologi si avvicina

propone meccanismi dorati solo cento franchi di quei tempi

niente di simile mi posso permettere

ecco un artista della fine del XX secolo

il battello ebbro è affondato è finito contro la moderna torre di vetro

a Montparnasse le vocali sono sbiadite o sono preda dei daltonici

le interpretano a modo loro

perdona non potevo fare niente

 

scendi una buona volta si annuncia un buon inizio

ho tanti anni quanti ne avevo allora non farti pregare sono un ideale

non bevo non fumo ho voglia di donne e bevo il tè con lo zucchero

con te questo non mi succedeva

 

autunno 1999

 

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

29 Lug

 

stelle-cadenti

 

Collegamento con il cielo la notte di san Lorenzo

 

Voce dall’alto: – Vi invitiamo a esprimere i vostri desideri, nei limiti del possibile cercheremo di accontentare tutti.

Bambino siriano: – Vorrei una bicicletta per fuggire lontano.

Donna irachena: – Vorrei che mio figlio e mio marito tornassero a casa.

Ragazzo libico: – Vorrei arrivare in Italia senza annegare.

Bambina indiana: – Vorrei diventare grande senza essere prima stuprata.

Donna che ha lasciato il marito: – Vorrei continuare a vivere.

Perseguitato politico: – Vorrei volare e migrare come un uccello.

Altri…

(Mentre questi desideri vengono espressi, cadono le stelle)

Coro: – Che bello! Ogni anno questo prodigio si ripete, anche se non si avvera quasi niente, anche se non si avvera quasi niente)

Voce dall’alto: – Infelici! Ciechi! Sordi! Quando smetterete di uccidervi a vicenda? Avete la felicità in tasca e non lo sapete! Avete il pane che non mangiate e lo buttate! Avete un’anima e una mente, sappiate una buona volta convivere  fra-ter-na-men-te!

Fine del collegamento (le stelle smettono di cadere).

 

(C) by Paolo Statuti

Compleanno dilemmatico

29 Mag

 

 

Per il mio prossimo compleanno (1.6.2016) ho scritto questa poesiola:

 

Ottant’anni

Oggi

svegliandomi ho pensato:

è un anno in più

o un anno in meno?

Be’, dipende dal punto di vista,

ma in fin dei conti

è un anno come gli altri…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Eppure no:

le campane, gli uccelli, il gallo,

oggi li ho sentiti più vicino –

nel cielo, nel vento, nel giardino,

mi hanno quasi stordito

gridandomi a squarciagola:

“Auguri! Auguri, caro artista!”

Li ho ringraziati con un bel sorriso,

ma nel cuore mi sono chiesto:

è un giorno lieto o un giorno mesto?

 

(P. S.)

 

 

 

Józef Czechowicz

1 Mar

 

 

 

 

 

 

Józef Czechowicz

Józef Czechowicz

 

Józef Czechowicz nacque a Lublino il 15 marzo 1903. Scrittore, drammaturgo, critico, traduttore e soprattutto poeta di avanguardia nel ventennio tra le due guerre, co-fondatore del gruppo poetico Reflektor e della omonima rivista, dove nel 1927 apparve la prima raccolta delle sue poesie Pietra, accolta assai favorevolmente dalla critica. Nel 1920 partecipò come volontario alla guerra polacco-bolscevica. Negli anni ’30 riunì intorno a sé un cospicuo numero di poeti della seconda avanguardia (tra i quali Stanisław Piętak, Bronisław Ludwik Michalski, Józef Łobodowski). Redattore di molte riviste letterarie e per l’infanzia, collaborò anche con la Radio Polacca scrivendo radiodrammi. Nel maggio del 1932 il poeta insieme con Franciszka Arnsztajnowa fondò l’Unione dei Letterati di Lublino.

Józef Czechowicz è uno dei poeti più originali del suo tempo. Nei suoi primi versi egli crea un’atmosfera onirica e di serenità. Tutte le sue poesie provocano una forte suggestione ipnotica. Descrive il paesaggio della campagna, in cui un ruolo determinante è svolto dalla natura che circonda l’uomo da ogni lato. Il soggetto lirico vede il fiume, il campo, la segala, il bestiame che torna dal pascolo. Perfino il sogno profuma di fieno. Il poeta con descrizioni metaforiche agisce sui sensi – si serve dei colori, dei suoni, degli odori.

Ma alla vigilia della seconda guerra mondiale l’ammirazione della natura nella creazione di Czechowicz lascia lentamente il campo al catastrofismo. Nelle sue visioni profetiche si avvertono l’inquietudine e i timori per le sorti del mondo e dell’uomo. Appaiono motivi e simboli apocalittici ripresi dalla Bibbia: fumo, incendio, diluvio. Cresce il senso di solitudine.

Nella sua ultima raccolta Nota umana troviamo il presentimento della morte, riconosciuto poi come profetico. Czechowicz infatti morì il 9 settembre 1939, a soli 36 anni, nella sua città natale durante un bombardamento. La sua poesia è straordinariamente musicale. Egli si considerava un “virtuoso della musicalità”. Il mondo poetico di Czechowicz è rappresentato soprattutto dalla campagna e dal villaggio e le principali tonalità psichiche sono la moderazione, la tenerezza e l’insicurezza. Il timbro affettivo dominante è il rammarico, l’elegia e la principale ossessione è la morte. Arcadia e Catastrofe coesistono e si incrementano a vicenda.

Nel 1955 i poeti Seweryn Pollak e Jan Śpiewak, dando alle stampe una raccolta di poesie scelte di Józef Czechowicz, scrissero: “gli amanti della poesia leggono e leggeranno i suoi versi con autentica commozione. Si avverte in essi un soffio di onestà, una toccante nota profondamente umana”.

Forse soprattutto per questo il poeta Józef Czechowicz mi è particolarmente caro.

P.S.

Poesie di Józef Czechowicz tradotte da Paolo Statuti

 

Nel paesaggio

 

il fruscio dei castagni in basso il canto marino

si spengono al crepuscolo le candele degli alberi in fiore

la strada nel bosco in faccia al sole s’indora doppiamente

di fruscio e di sera scuriscono i recessi

dondolandosi come erba rigogliosa

le ragazze snelle sui cavalli

 

 

un colle all’incrocio dei viottoli

là una cappellina fresca come corallo

nella penombra una croce là un angelo

gli ex voto abbandonati dei pescatori

una stagione dimenticata da tempo

in un vaso spezzato è ammuffita la morte dei papaveri

 

il mare mormora i castagni

i cavalli con gli zoccoli intorbidano l’oro sull’acqua

di quelle che vanno una ha alzato la mano

e dà il segnale movendolo in aria come remo

perché è rimasto presso la cappella un puledro smarrito

ha guardato dentro ha toccato col morbido labbro la porta

ha nitrito puerilmente in alto non si sa che cosa

1932

 

Preludio

 

1

all’alba sono esplosi gli uccelli dei terreni di ottone

una donna snella ha portato il chiarore sulla testa

2

campane insaziabili culle musicali

ricordare ricordare dimenticare

3

o soffio rosato come viso di bambino

o fiammella che recide l’erba bassa

con lo scuro fiore di papavero farò un cenno

l’immobile profumo mi colpirà e morirò

4

un cervo sta presso la fonte il ruscello sussurra ave

 

Via Szeroka

La banderuola sul tetto canta.

Striscia il ragno della prima stella.

Le lanterne nei neri alberi,

dondolandosi,

luccicano.

 

Un caldo aroma fluisce dai forni,

e il silenzio dai portoni chiusi.

Se un cane nel lontano sobborgo non abbaiasse,

saresti solo – come mai.

 

Solo, forse ancora col fiumicello,

che non si sente,

benché forse in questa chiara notte d’azzurro

anch’esso – amante dei cieli –

dal crepuscolo al mattino

di sicuro sospira

tra le mura.

 

La musica di via Złota

Il cielo cambia, benché la sera non si sia quietata,

il vento bisbiglia ancora, prima di assopirsi.

Il vento fruscia di violetto.

Il vento – non più vento – un sorriso.

 

Dalla via Domenicana il canto di un coro;

le fanciulle lodano Maria.

Dall’arcidiaconato per accompagnamento

arie di un solitario violino.

 

Silenzio musicale delle case

congiunte con l’arco dell’iride,

sulla fronte della chiesa un raggio

ricade come ciocca.

 

E adesso qualcuno ha teso il silenzio,

batte in esso col pugno di bronzo

la campana serale

grondando di forza del metallo

prende a sonare sotto la croce della chiesa:

uno – due – tre – – – –

 

1934

Attraverso i confini

 

con monotonia il cavallo solleva la testa

la criniera ritmicamente ogni istante ricade

ruote ruote

erbe

 

tintinna l’assonnata semivita

lungo un viottolo erboso del bosco

in basso in basso

nel campo

 

al crepuscolo nella stoppia inciampa

la luna rossa e scura

io grido

dorata focaccia

 

non c’è niente neanche il sonno solo lo stridio delle ruote

la notte nebbiosa lunga veglia

io grido focaccia dorata

io grido le ruote in basso nel campo focaccia dorata

 

1932

 

In campagna

 

Il fieno profuma di sogno

il fieno profumava nei vecchi sogni

i pomeriggi in campagna riscaldano di segala

il sole suona il fiume di balenanti lamiere

vita – campi – trama di fili dorati

 

Di sera attraverso il cielo una passerella

la sera e il vespro

le mucche da latte tornano alle fattorie

a ruminare nel trogolo colmo di crepuscolo

Di notte sotto i bracci delle croci nei bivi

si spande l’azzurra tarlatura delle stelle

nuvolette siedono davanti alla soglia del prato

sono sfere di bianca peluria

un soffione

 

la luna si reca a lavare fazzoletti argentei

i grillini stridono nelle biche

non c’è di che aver paura

 

Il fieno profuma di sogno

celata è in esso una melodia religiosa

mi accosta guance infantili

protegge dal male

 

1927

 

Sogno idilliaco

 

dal soffitto della notte che pende

attraverso il fruscio di ranuncoli e artemisie

il gorgoglio della pioggia sbufferebbe come incubo

ma sono note le parole di scongiuro zolfo

lanute criniere di cavalle

 

la Vergine Maria camminava tra le stelle

leniva la Vergine Maria il bruciore delle anime sofferenti

ed io sto nel tuono temo la mezzanotte

perché restate con chi dorme e con i sogni

non tormentate andate via dove volete

corvi lupi orsi cervi

amen

 

o tenebra così limpida adesso

ha brillato sulla veranda il tuo pettine d’argento

questo quieto parlare nel fosso

è il calamo

annuncia la confessione d’acqua

le stelle mariane terge con le dita

e a noi come parlare quando dietro il vetro – il frutteto

e più lontano arnie terreni di aneto e di carote

 

purificaci chiunque e ovunque tu sia

andate via da noi opere di uomini e animali

per questo ci inginocchiamo nella paglia come morti

da innumerevoli anni

 

1939

 

Cervello di anni 12

 

nembi più in alto più in basso le note

sguazzano sciolte nell’azzurro

sguazzano anche le mie scarpe

in un rivo di vento d’estate

 

le nicchie coi san giovanni

in una coroncina di erba appassita

raggiunte da una nube

inattesa di farfalle

 

più oltre lungo la strada verso il prato

su una collina d’argilla

va al ferrovia

il convolvolo ha superato i binari

 

fino al prato il sentiero s’incurva

giù dal terrapieno

calpestando l’erba del fiume

un ragazzino nudo spumeggia

là dove i pini finiscono

coprendo la città

getta cento esili piccole mani

il cervello di anni 12

 

tra gocce di fiordaliso

sulle scaglie dell’onda

svolazza il vivace capriccio

di uno snello torso-spirale

 

un grido o mezzodì o torrente

bocca e pugni pieni del grido

nell’estasi del sole come motore

brucia il cervello di anni 12

 

guardo il giorno va oltre il mezzodì già asimmetrico

presto la sera si stenderà come montagna

il vento ha mosso l’erba ma non i camini della fabbrica

l’oro del fiume diventerà grigio

 

ragazzo ragazzo domani o dopodomani

la nuda gioia che non è lievito di vita

si chiuderà per sempre come a chiave

nel 1936 guarderai il fiume da sotto l’elmo

 

1930

 

Rimpianto

 

la testa che imbianca e splende come doppiere

quando trasvolano i nastri argentei dei venti

porto nei fondi delle stradine

le rondini garriscono sul fiume

è poco va’

 

andare guardare sogni festini scene

di sinagoghe i vetri in frantumi

la fiamma che ingoia le grosse gomene

la fiamma d’amore

la nudità

 

ascoltare dei popoli affamati il ruggito

che è voce diversa dal pianto degli affamati

cala la sera di questo mondo

le narici fiutano la rossa mungitura

dal bruciante diluvio

ci chiediamo a vicenda chi sei

 

in tutti noi mirabilmente moltiplicato

sparerò a me stesso e morirò più volte

io nel solco con l’aratro

io tra i codici giurista

dal grido gas soffocato

io assopita tra i ranuncoli

e bambino torcia umana

in chiesa da una bomba colpito

e impiccato incendiario

io nera crocetta nelle lettere

 

o mietiture di rombi e di lampi

riuscirà il fiume a togliersi la ruggine di sangue fraterno

prima che i pilastri delle città si risolleveranno

giungerà allora un turbine di rondini

sibilerà sulla testa un’ala attraverso un’oscurità d’uccelli

va’ va’ oltre

 

1939

 

 

 

Nei pressi della stazione centrale di Varsavia

 

dalle finestre bagliori

nel nichel il buffet regnava

la fontanina dei fiori

verso il soffitto sprizzava

 

ondeggiano là le tendine

sfondo all’ombra dei grassoni

nell’alba avvolta di brine

e nell’ora dei lampioni

 

alcolica sinfonia

fughe di verdure e pane

sonate nell’agonia

serpeggia una viva fame

 

una fame latra sputa

un’altra spezza le dita

una terza cosa fiuta

nell’androne intimorita

 

facce della fame irsute

dai molti occhi diversi

son le lune decadute

di abbandonati universi

 

tossiscono sopra il pelo

di una sciarpa logorata

 

per esse io vi rivelo

Gerico sarà annientata

 

1939

 

(C) by Paolo Statuti

Jan Śpiewak

24 Feb

 

 

  jan spiewak

 

Jan Śpiewak (1908-1967), poeta, saggista, critico letterario e traduttore, marito della poetessa Anna Kamieńska (v. nel mio blog) e padre del sociologo Paweł Śpiewak. Nacque nel villaggio ucraino di Hola Prystań da una famiglia ebrea. Di questo suo luogo di nascita scrisse nel necrologio Jarosław Iwaszkiewicz: “Nacque in Ucraina, nella terra steppica che si estende tra il Dniepr e la steppa. Essi ebbero entrambi un notevole ruolo nella sua poesia”.

L’infanzia, trascorsa a Cherson, fu segnata dalla fame. I genitori ebrei vennero fucilati e ciò costituì la perenne ossessione della sua memoria e della sua creazione. Studiò filologia polacca a Lwów e a Varsavia. Fu legato al gruppo di poeti di sinistra, che stampavano i loro versi sulle riviste socialiste Segnali e Binario sinistro. Durante la seconda guerra mondiale visse in Unione Sovietica.

Tornò a Varsavia nel 1950. Fu membro della redazione del mensile letterario Tempi moderni. Pubblicò 9 raccolte poetiche (la prima – Poesie della steppa è del 1938) e traduzioni dal russo e dal bulgaro. Con la moglie Anna Kamieńska tradusse i drammi di Gorkij, mentre in collaborazione con Seweryn Pollak pubblicò nel 1955 il patrimonio letterario di Józef Czechowicz. E’ anche autore di antologie, schizzi letterari, saggi, ricordi di altri poeti (ad es. Gałczyński, Piętak, Ginczanka). Nel 1966 ricevette l’Ordine dei santi Cirillo e Metodio di prima classe, per le traduzioni dal bulgaro raccolte nell’antologia O bosco, bosco verde. Le sue poesie sono inserite in numerose antologie di poesia polacca, pubblicate nella lingue straniere.

Morì a Varsavia. Dal 1968 a Świdwin ogni anno si svolge il concorso poetico nazionale di poesia intitolato a Jan Śpiewak e Anna Kamieńska.

La poesia di Jan Śpiewak, di cui scrissero con grande entusiasmo illustri critici, è decisamente originale. Dopo la guerra egli si rifece a due tradizioni: il colorito e fiero linguaggio degli abitanti delle campagne e la poesia russa d’avanguardia, soprattutto quella del geniale poeta Velemir Chlebnikov, di cui fu appassionato propagatore e brillante traduttore.

Il poeta e critico letterario Michał Sprusiński conclude così la sua prefazione alla raccolta di poesie, scelte dalla stessa moglie del poeta Anna Kamieńska, e pubblicate nel 1972 (Ed. PIW, Varsavia): “La lirica di Jan Śpiewak è una lirica di contrasti in lotta tra loro, di antinomie inconciliabili, di antitesi con la natura della parola e di duello con la natura della memoria. E’ una spedizione verso isole illusorie, un perdurare tra le aggressioni degli elementi vittoriosi nel procurare dolore e vinti con l’immaginazione, la cui ultima meta è una solitaria isola della salvezza – la terra della predestinazione umana: verità espressa nell’ultima poesia di questa raccolta Salmo dello sconforto, scritto da un poeta che fondatamente sperava”:

 

Dove quando chi

Intorno intorno

Niente niente niente

Da solo in alto

Da solo in basso

Una stella in mano

Proiettile

Una stella negli occhi

Fiamma

Non ci sono occhi

Non ci sono

Teeer-rraaa!

 

 

Come di consueto pubblico qui alcune poesie di Jan Śpiewak nella mia versione.

 

 

Poesie di Jan Śpiewak tradotte da Paolo Statuti

 

 

Nella mia tasca

 

Nella mia tasca – un cerbiatto e una stella.

Nella mia tasca – colibrì, una gazzella.

 

Nei miei capelli – fulmini e nevi.

Nei miei capelli – il cielo sorridente.

 

Nelle mie mani – una carrozza, bisonti.

Nelle mie mani – pifferi e un violino.

La stella e il cerbiatto, i bisonti, i colibrì,

Le nevi, le tormente, la carrozza, i meli.

 

Ecco le mie meraviglie, ecco i miei tesori,

Che il vento spazzerà via.

 

 

* * *

 

Durante un acquazzone ho fissato una goccia.

A lungo ho seguito il suo volo.

Le auguravo:

Di cadere lentamente. Senza fretta. Molto lentamente.

Di assorbire in sé il colore dei lampi, il sapore del vento,

il fruscio della luce, il respiro di ogni verde.

Di essere simile a un uccello e a un orso,

a un girino e a una farfalla, all’oceano e a un torrente.

Di scurire come una nuvola,

di farsi miele, betulla,

di sorridere di sale, di assenzio.

Di essere leggera e inerte,

sonora e muta.

D’indossare tutti gli abiti.

Una goccia.

La piccola goccia di uno scrosciante acquazzone.

 

 

* * *

 

Ecco i miei giardini, ecco i miei frutteti.

Qui vengono gli uccelli e diversi animali.

In un giardino ho la mia grotta, nascosta con cura,

vi custodisco i miei sogni più attraenti,

i sorrisi sinceri degli amici – ce ne sono pochi.

Vi custodisco frantumi di parole da tempo dimenticate,

singole note di svariate canzoni

e il fruscio della steppa, per ricordarlo sempre.

Deformi e contorti faggi, argentei abeti,

un timido melo, un salice e un frassino,

e altri alberi di cui non conosco il nome.

Dicono che la bontà non sia così buffa

come ci sembra, spacie quando gli uccelli

portano nei becchi le loro piume più belle.

I fiori qui convivono con l’erbaccia.

Nel mio giardino vengono anche i filosofi,

fanno sonore tirate dicendo che il passato

è sempre stato più saggio, essi amano i libri,

per loro tutti i fiori fioriscono allo stesso modo.

Nel mio giardino vengono le nuvole, a volte

un ramo ricorda un frammento dell’Odissea, è buffo

quando gli alberi ricordano canti dimenticati.

Accade che una singola foglia ricordi Urszula (1),

la figlia morta, alla quale il padre piangendo

eresse un perenne mausoleo di semplici parole.

Una volta nel giardino ho costruito un rifugio,

dove ho messo l’elmo e lo scudo di un cavaliere tracio

che vedevo a Plowdiw, un sassolino colorato,

la fionda da bambino e il fischietto ricavato da un nocciolo.

Il mio giardino non ha un nome e nemmeno uno spazio reale.

Ultimamente ho dimenticato la strada per il mio giardino.

 

(1) Urszula Kochanowska (v. nel mio blog)

 

 

* * *

 

Mia madre che vive in una nuvola,

Ogni giorno mi dice:

Ti ho dato gli occhi – per poter distinguere.

Ti ho dato le dita – per poter cercare.

Ti ho dato un cuore – per poter credere.

Ti ho dato una moglie – per poter esistere.

 

E mette ogni giorno a mia moglie un abito di frutti.

E mette a mia moglie ogni giorno un abito di rami.

E mette ogni giorno a mia moglie un abito di vento.

Un abito di sorriso, un abito di affetto innominato.

 

 

Dice mia madre che vive in una nuvola:

Ecco il frutto, ecco il ramo, ecco il vento.

Ecco la foglia che nelle mie mani cresce,

Perché l’ombra rimanga dopo di te

Nei capelli vibranti di tuo figlio.

 

E mette ogni giorno a mio figlio un abito del mio sangue,

Un abito di affetto di mia moglie nei nidi degli occhi,

E mette a mio figlio ogni giorno un abito di saggezza,

Un abito di riflessione, un abito di esperienze perfette.

 

Mia madre che vive in una nuvola…

 

 

Canto delle abitazioni

 

La mia prima abitazione aveva sette finestre.

La mia seconda abitazione aveva due vetri umidi.

 

Un grammofono – un piccolo calamaio.

Un noce che cantava – un grembiule di scuola.

Un cuore agitato – la luna sulla radura.

Ho lasciato tutto. Sono andato via per sempre.

 

La mia terza abitazione guardava sulla malva.

La mia quarta abitazione: fuoco e speranza.

 

Stradine qua e là – parole ribelli.

Pomeriggi malinconici – sfera e speranza.

Buonanotte, Mammina – dormi, caro Padre.

Ho lasciato tutto. Sono andato via per sempre.

 

La mia quinta abitazione: amore e ansia.

La mia quinta abitazione: nuvole e sorrisi.

 

Un grammofono – testine lucenti.

Sonni interrotti da un grido – cavallini indocili.

Cielo vicino agli occhi – caldo moderato delle stelle.

Questo non lo lascerò. Resterò per sempre.

 

* * *

Tra il movimento delle labbra e la parola

cosa avviene?

Tra il lampo della mente e il tacere

quale precipizio?

 

Tra il grido del neonato e l’immobilità

quali annegamenti?

Tra il chiarore e la polvere

quanta sofferenza?

 

Gente non misurabile, gente integra,

gente evitata, gente avida.

La terra vi punirà, l’albero vi eviterà.

Sarete redenti.

 

Sulla scala gli angeli andavano,

sulla scala gli angeli andavano,

che importa!

 

Tra il suono e il tono chiassoso

quali corridoi?

Tra la supplica e il pentimento

quali fulmini?

 

Gente che si avvilisce, gente non formata.

Gente che brucia nel fuoco, gente non destata.

 

Sulla scala gli angeli andavano.

Sulla scala gli angeli andavano.

E poi?

 

L’interno di un sasso

 

Ho schiacciato un sasso col piede.

E’ scoppiato il fuoco. Un flauto ha pigolato lamentoso.

I muri si sono travestiti da boschi,

i boschi hanno celato un burrone, il burrone ha commosso

le foglie.

 

Sono sfrecciati dardi piumosi, cannoni a lunga gittata.

La parola ha tagliato le labbra. I respiri hanno aperto le

finestre.

Nel pozzo l’acqua ha scrosciato. Le notti hanno svegliato

i canti.

I cavalieri sono accorsi sui cavalli. Gli sparvieri si sono levati

in alto.

Sono balenati coltelli e spade, picche e lance.

 

Mio Dio, perché ho schiacciato il sasso? 

 

* * *

Sono cieco, non vedo i colori,

sono sordo, non distinguo i suoni,

non ho il senso dell’equilibrio, non conosco il tatto

e il gusto.

Chi sono? Come chiamare l’albero che tocco?

Circondato dagli occhi dei nemici mi sollevo nello

spazio,

smarrisco le mani e la bocca, con un gesto fermo

la cabriolet

di mio nonno e mi sventolo coi sorrisi delle zie.

Che le zie ridacchino facendo l’eterno solitario,

anche così il merlo nella gabbia cinguetterà un’argentea

canzone.

 

A lungo ho imparato a guardare, a ritrovare sapori

e colori ,

a lungo ho imparato l’andatura spaziale.

Vi dico addio, tristezze e rumori, addio, goccia che

tintinni sul vetro.

Addio, invisibile vento che scuoti tutte le finestre

insieme.

Addio, stazioni, isole stupite, addio, ruote di treni

rombanti.

Vorrei recuperare il bastone di amareno di mio padre,

andrei a passeggio.

Pigre bisce, sazie tartarughe e agili lucertole,

radure assolate, sentieri chinati nelle felci,

porcino che cresce d’incanto, cervo che corre nelle

selve –

vengo da voi attraverso nevi, calure e piogge.

Vado nel paese in cui crescono parole verdi.

O mio diletto paese, ti offrirei una rosa

o una mia poesia, che non riuscirò mai a scrivere 

 

Vestiamoci di verde

Vestiamoci di pifferi, di schiamazzo e risate.

Vestiamoci di verde, freddo e tempeste.

Vestiamoci di sonagli, tamburi, flauti.

 

Vestiamoci di viaggi, nuvole e nebulose.

Vestiamoci di fuochi, tormente e di verde.

Vestiamoci di pesci, uccelli e animali.

 

Vestiamoci di cervi, di mari, di notti.

Vestiamoci di orchestre , di rabbia e dolcezza.

Vestiamoci di erbe, boccioli e api.

 

Ah, come ci vestiamo prodigalmente ogni giorno!

 

* * *

Monti possenti, boschi slanciati,

Io vi temo.

Dei vostri dirupi la paura mi opprime,

Mi sembra che dita di pietra

Mi tirino giù.

I vostri sentieri salendo ripidi

Mi scuotono ironicamente.

Non vi capisco, non comprendo,

Non conosco il vostro sublime tacere,

Dei fiumi che scorrono senza sosta sulle pietre.

Non so come chiamarvi.

Non so come mi chiamate.

Chi sono per voi,

Misera sabbia in cammino, che nobilmente

tollerate.

 

A mia moglie

 

Vorrei scrivere una poesia su di Te,

anche se la mia penna è più fragile delle nubi

passeggere,

anche se il mio sorriso è più luminoso delle mie

parole.

Vorrei paragonarti a tutto ciò che reca gioia.

Vorrei paragonarti a tutto ciò che vuol dire cura

serena.

Vorrei paragonarti a tutto ciò che vuol dire che vivo.

Mi rivolgo ai fiori, all’albero, mi rivolgo alle foglie,

mi rivolgo al soave fruscio del vento, perché diano

precisione

e un significato univoco ai miei pensieri.

Mi rivolgo a un sassolino del campo, perché mi insegni

a lodarTi tacendo.

Mi rivolgo alla rosa in fiore, perché mi sostituisca

con la sua bellezza.

Mi rivolgo a tutto ciò che canta e che gioisce.

Vorrei evitare parole elevate e sonanti.

Vorrei evitare i semplici detti da me pronunciati.

Vorrei che questo verso si mutasse nella mia bocca

e nei miei occhi.

 

Oh, se parlasse la luce che mi sveglia al mattino.

Oh, se parlassero le strade che abbiamo percorso

insieme.

Oh, se parlassero i colombi del nostro sangue con il

loro saggio affetto.

 

La mia poesia ogni giorno si avvicina a Te titubante.

La mia poesia ogni giorno si aggira a distanza della

mano tesa

e non osa dichiararsi, e paziente aspetta.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

Zuzanna Ginczanka

3 Feb

 

Zuzanna Ginczanka

Zuzanna Ginczanka

 

Nacque a Kiev il 9 marzo 1917. Il suo vero nome era Sara Polina Gincburg. E’ considerata una delle più geniali poetesse del ventennio tra le due guerre. Nella sua opera si richiama allo Skamander e alla poesia di Leśmian (numerosi neologismi), alla poetica dell’avanguardia e dei futuristi. Debuttò nel 1931 a 14 anni con la poesia Il banchetto delle vacanze, pubblicata nella rivista della sua scuola. In casa si parlava russo, ma lei imparò la lingua polacca come autodidatta. Studiò pedagogia nella Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università di Varsavia. Dal 1936 collaborò col settimanale satirico Spilli, dove pubblicava le pungenti satire contro il crescente antisemitismo e contro il fascismo. Nello stesso anno uscì la sua unica raccolta di poesie I centauri. Trascorse i primi anni della guerra a Lwów, dove lavorò come contabile e dove sposò il critico d’arte Michał Weinzieher. Fu una strana unione, perché di fatto Ginczanka era legata al grafico Janusz Woźniakowski.

Nel 1942 una certa Chominowa, proprietaria dell’edificio dove la poetessa abitava, la segnalò come ebrea alla polizia tedesca. Fortunatamente riuscì a fuggire e si rifugiò a Cracovia, ma nell’autunno o nell’inverno del 1944 qualcuno informò la polizia che una sua vicina di casa aveva un aspetto decisamente ebreo. Fu arrestata dalla gestapo. Pensò di finire ad Auschwitz, ma venne fucilata nel cortile della prigione dove era rinchiusa, soltanto qualche settimana prima dell’arrivo dell’Armata Rossa a Cracovia. Aveva appena 27 anni.

Il messaggio artistico di Ginczanka è la “gioia eroica” della stessa esistenza, anche se contrassegnata dall’inquietudine esistenziale e dalla diversità (senza tregua la poetessa, nei versi e nella vita, sottolineava la sua diversità, il suo isolamento derivante dalla sua origine ebrea, e la sua intransigenza nel descrivere le esperienze della donna in genere e di una ebrea in particolare). Scrive Izolda Kiec: “Donna emancipata, libera da stereotipi, ribelle, non aveva bisogno della raccomandazione maschile per esistere nel mondo della cultura. Ma dietro le apparenze di questa indipendenza e l’entusiasmo degli uomini per i suoi versi e la sua bellezza, si celava anche un dramma, che poteva pienamente esprimersi soltanto nella sua poesia malinconica e ricca di motivi androgini”.

Dopo la guerra la sua poesia fu a lungo ignorata dalla critica. Negli anni ’50 uscì una sua raccolta di poesie, ma con notevoli ingerenze da parte del promotore della stessa. La prima monografia apparve soltanto negli anni ’90. 44 dei suoi versi più rappresentativi figurano nel libro pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Biuro Literackie, nel settantesimo anniversario della morte, a cura del poeta Tadeusz Dąbrowski, dal titolo Ascensione della Terra. Nella presentazione Dąbrowski scrive: “Anche se ha lasciato soltanto un volumetto e alcune decine di poesie sparse nelle riviste e nei manoscritti, la sua creazione può dirsi conclusa (i poeti sentono in modo misterioso quanto tempo è loro rimasto). Realmente sentiva l’approssimarsi della guerra? Si dice che Gombrowicz, tornando un giorno a casa dallo Zodiaco, uno dei principali punti di ritrovo della bohème di Varsavia, abbia detto a Ginia (così gli amici chiamavano la poetessa) che per quella guerra imminente bisognava necessariamente procurarsi del veleno. E lei si mise a ridere”.

In Italia nel 2011 è uscita una raccolta di poesie di Zuzanna Ginczanka dal titolo Un viavai di brumose apparenze, a cura di Alessandro Amenta, Austeria Editore. Inoltre nel 2014, in occasione del settantesimo anniversario della morte, la TV italiana ha trasmesso un bel documentario sulla vita e la creazione della poetessa dal titolo La poesia spezzata, realizzato da Alessandro Amenta e Mary Mirka Milo.

Paolo Statuti

 

Poesie di Zuzanna Ginczanka tradotte da Paolo Statuti

 

   Tra le poesie di Zuzanna Ginczanka la più nota è forse Non omnis moriar. Essa ha avuto un ruolo insolito come opera letteraria, in quanto la poetessa vi indicò il nome della delatrice che la segnalò ai nazisti, e in tal modo il testo servì come prova nel processo contro quest’ultima e altri suoi persecutori. Ginczanka era molto bella, ma a causa dei suoi tratti semitici – capelli e occhi scuri, carnagione olivastra, volto affilato – doveva nascondersi ed era braccata dai delatori. Riuscì a salvarsi dall’episodio che descrive nella poesia, ma la volta successiva la fortuna le voltò le spalle. In Non omnis moriar ci sono alcuni riferimenti alla celebre poesia Il mio testamento di Juliusz Słowacki, scritta a Parigi tra il 1839 e il 1840, in cui il fiero e solitario poeta romantico si accomiata dai suoi successori, pregandoli di prendersi cura dell’unica eredità da lui lasciata – la sua fama postuma. Ginczanka ironicamente affida ai suoi persecutori i suoi beni terreni.

Non omnis moriar…

Non omnis moriar – i miei fieri beni,

I prati delle mie tovaglie, i saldi armadi,

Gli ampi lenzuoli, le coperte preziose

E gli abiti resteranno dopo di me.

Non ho lasciato qui nessuna eredità,

Le semitiche cose il tuo fiuto rintracci,

Chominowa (1), audace moglie di una spia,

Delatrice svelta, madre di un folksdojcz (2).

Siano utili a te e ai tuoi, non ad estranei.

Voi miei cari – non sono parole vuote.

Vi ricordo, e quando arrivarono gli szupo (3),

Anche voi vi siete ricordati di me.

Che i miei amici siedano con le coppe alzate

E brindino al mio funerale e a ciò che avranno:

Kilim e arazzi, piatti, candelabri –

Bevano tutta la notte, e all’ultima stella

Comincino a cercare gioielli e oro

Nei divani, materassi, sotto i tappeti.

Oh, come lavoreranno bene e in fretta,

Nugoli di crine di cavallo e di fieno,

Nuvole di cuscini e piumini squarciati,

Le mani piumose diventeranno ali;

Il mio sangue la stoppa e le piume incollerà

E così alati in angeli si muteranno.

(1) Chominowa – Zofia Chominowa, proprietaria dell’edificio dove abitava Zuzanna Ginczanka, durante il suo soggiorno a Lwów negli anni 1939-1942. La Chominowa e suo figlio Marian furono accusati di delazione nei confronti della poetessa. Nel processo svoltosi a Varsavia a novembre del 1948, Marian Chomin fu assolto. Zofia Chominowa invece fu condannata a quattro anni di reclusione.

(2) folksdojcz – durante l’occupazione hitleriana era così chiamata una persona di origine tedesca (spesso non vera), la quale godeva di vari privilegi, rispetto alla restante popolazione polacca.

(3) szupowcy (in tedesco Schutzpolizei) – funzionari della polizia tedesca destinati alla pacificazione delle popolazioni nei paesi occupati.

Il ritorno

 

Ha già smesso di rombare la cascata. Calma si appressa la corrente

con larga onda di sollievi. Una nube intorpidisce all’alba.

Rotolano invisibili bocce di lontani pianeti,

le api dai nettàri succhiano il caldo fluido miele.

Da dove viene questo chiarore? Da là. Profuma il giovane bosco,

un torrente di bianca luce scorre e fruscia,

e streghe sedicenni saltano e cercano

nell’erba gli uccellini caduti questa notte dai nidi.

Nel bosco entra Minerva, dea della saggezza matura,

che viene dall’esperienza, che l’ordine introduce,

volge l’occhio sereno alle acque che hanno smesso di rombare,

si aggiusta sull’abito un mazzolino di viole dell’Olimpo

e dice:

“Una tenda a fiori getta sulle cose segrete,

nelle quali non puoi scorgere il profilo dei significati occulti.

Rassegnati alle apparenze. Stringiti forte al mondo

non con comprensione faticosa, ma con l’amore che ristora.

Accelera il tuo solenne ritorno alle vecchie verità

al suono delle trombe d’ottone, al fischio dei flauti,

al suono dei tamburi. Basta che il male sia chiamato male,

e già sai che cosa evitare, risuona il rombo dell’orchestra.

Torna ai cordiali abbracci del tenero amore famigliare,

alla lunghe strette di mano della bella e salda amicizia,

ai pensieri devoti e modesti, agli svaghi spensierati,

al lavoro incessante intorno a un’opera meritevole.

Infine da oggi non cercare un grande amore per il marito:

non ci sono evidenti indizi per riconoscerlo.

Scegli un abile giovane e prestagli un tenero giuramento,

e la fiamma salterà dalla bocca infiammabile al cuore”.

Delicati paesaggi distesi come laghi,

fonti provenienti dai sogni hanno sommerso tutti gli abissi.

Navigano su di essi. E’ il ritorno con la bandiera sull’albero,

per le cose che ho superato o non ho notato in tempo –

ed ecco ricordando gli avvisi vedo e vedo intorno

le cose piene di armonia, di luci, di forme stupende

e di preziosa temperanza. Nessuna burrasca si avvicina,

l’onda è piatta come vetro. E ormai non si frangerà. Quiete.

Meditazioni

 

Pegaso oggi mi tiene il broncio

e senza di me è fuggito nell’aldilà,

sono sola e considero

di questo mondo i problemi –

mi sono cacciata negli intricati

dubbi della Scolastica:

ti amo perché sono stupida,

o istupidisco perché amo?

Verginità

 

Noi…

Caos di nocciòli trasandati dopo la pioggia

profumo di polpa delle grasse nocciòle,

le mucche partoriscono nell’aria afosa

nelle stalle splendenti come stelle. –

O ribes e frumenti maturi

o succulenza pronta a sgorgare,

o lupa che allatti i piccoli,

occhi di lupa dolci come gigli!

Scolano le resine destinate al miele,

la poppa della capra pesa come zucca –

– scorre il bianco latte come l’eternità

nei templi del seno materno.

E noi…

…nelle ermetiche –

come termos di acciaio –

stanzette color pesca

impigliate fino al collo nei vestiti

facciamo

discorsi

culturali.

Chiarimento a margine

 

Polvere

non sono

e polvere

non tornerò.

Non sono scesa

dal cielo

e in cielo non salirò.

Sono io stessa il cielo

come solaio di vetro.

Sono io stessa la terra

come fertile terreno.

Non sono fuggita

da nessuna parte

e non ci

tornerò.

Oltre a me stessa non conosco altra distanza.

Nel gonfio polmone del vento

e nella calcificazione delle rocce

devo

me stessa

qui

dispersa

ritrovare.

 

Da cosa si riconosce l’amore…

 

Da cosa si riconosce l’amore? Dalla segreta eccitazione

che ti prende, quando incontri la rotonda pendenza della spalla,

sette volte più dolce di altre? O anche dagli abiti alati

che ricami col filo e nei quali intrecci i fiori,

per mostrarti bella e degna della fiamma nell’occhio?

Oppure dalla fedele abitudine dei passi fusi tra loro

e dei respiri armonizzati e della mano che incontra

sempre una mano pronta, quando brama di essere toccata?

O forse dal sollievo con cui dal turbamento

torni alla normalità, come alla patria, verso cui veleggiano i vascelli

di ritorno da un viaggio assai lungo? Oppure dal fatto

che griderai, trafitto dal tradimento, balzerai su,

cadrai di nuovo, di nuovo balzerai su e griderai,

e il corpo ti si fiaccherà come colombo trafitto da freccia piumata?

Da cosa si riconosce l’amore? Uniti in un forte abbraccio

stanno sgomenti, con il corpo troppo vicino, e tacendo cercano i segni.

Due statue immobili sotto una nube che scorre, sull’acqua, dove due trote

rincorrono il riflesso di una nuvola o l’intera notte, fino al mattino,

inseguono il segno del Capricorno, del Leone, dei Pesci e dell’Ariete.

L’abbraccio li ha uniti sotto la nube, sull’acqua. A che titolo?

Rispecchiati nel torrente impetuoso esaminano con calma la questione.

Ecco gli occhi negli occhi, ecco sulle bocche gli occhi

ed ecco la bocca sulla bocca. Come riconoscerlo? Da cosa?

Da quegli abiti alati, da quegli

abiti alati che ricami col filo e nei quali intrecci i fiori?

Uno toglie il segno della Bilancia, una volta dal torrente e una dal cielo,

e dice con grande tristezza: – Dal fatto che non ha bisogno di un segno.

Anno 1938

Epitaffio

 

… E quando attraverso la buia foresta la buia valle scorreva,

scivolando sulle testuggini, sprofondando negli alti formicai,

saltando in scroscianti torrenti, cadendo sul muschio rincorrevo

il tuo inafferrabile sorriso, che era balenato nella nebbia.

… Del tuo viso non è rimasto niente. Niente – solo i tratti composti

nel viso accessibile all’occhio, nell’ossatura del tuo viso di un tempo.

Le nuvolette delle analogie, spaventate dal vento, sembrano essere

calate dai tratti come dalle montagne, perché io possa scorgerle.

… Tale dunque è il tuo sorriso: le azzurre fregate dei ricordi,

le rosee fregate dei sogni, dapprima distese per il volo,

lo celavano con le loro vele. Tale dunque è la tua fronte! Le tempie!

La bocca! L’immagine dell’amore fino ad oggi copriva le tue labbra.

(C) by Paolo Statuti

Eduardas Miezelaitis

28 Gen

 

Eduardas Miezelaitis

Eduardas Miezelaitis

 

Eduardas Mieželaitis

 

   Dal 1940, anno in cui fu invasa dall’Armata Rossa e annessa all’Unione Sovietica, la Lituania per 50 anni è rimasta separata dal mondo. Moltissimi scrittori furono costretti a emigrare. Ma le idee della libertà e dell’indipendenza, anche se manifestate attraverso allusioni e metafore, sono state sempre presenti nella coscienza degli scrittori di questo paese. Nella produzione letteraria lituana pre-indipendenza (riconquistata nel 1990) prevaleva l’impostazione ideologica. Storie di guerra, dopoguerra e tematiche relative alla realtà industriale. Tra i primi che contribuirono con i loro scritti a liberarsi dal realismo socialista ci furono diversi poeti, tra i quali Eduardas Mieželaitis.

Nacque a Kareiviškis il 3 ottobre 1919 e morì a Vilno il 6 giugno 1997. Raggiunse la notorietà a metà degli anni ’40, diventando uno degli autori più popolari nella Lituania Sovietica del dopoguerra. Poeta di grande talento, svolse un ruolo rilevante nella rinascita della qualità e della struttura lirica della poesia lituana. Amalgamando gli elementi folk tradizionali e le tecniche moderne associate al simbolismo e all’espressionismo letterario, Mieželaitis aspirava a creare una sintesi delle forme poetiche: versi canonici e versi sciolti, prosa e dialogo, musicalità e dissonanza. Egli intendeva la poesia come un mezzo per esplorare il significato e lo scopo dell’arte, e come relazione tra l’artista e la realtà. E’ considerato il principale innovatore nello sviluppo della letteratura lituana.

Esponendo il suo credo in una delle sue biografie, Mieželaitis dice: “Dimmi come consideri l’uomo e ti dirò chi sei. In altre parole – quali sono i tuoi principi umani e quale grado di umanesimo hai raggiunto. Perché l’uomo è un continente inesplorato verso cui punta costantemente l’ago della bussola umanistica.” L’autore analizzando l’uomo rivolge particolare attenzione alle sue mani: se le mani creano, o distruggono. “Le mani – dice Mieželaitis – rivelano l’uomo, dicono tutto di lui. Quanto egli ha creato e quanto ha distrutto.”

Molto belle sono le sue poesie dedicate ad Adam Mickiewicz e a Mikolajus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911) – il Pittore della Musica, molto legato alla Polonia e soprattutto a Varsavia. Di lui Romain Rolland (1866-1944) ha scritto: “Mi è difficile esprimere a parole l’eccitazione che questo straordinario artista ha suscitato in me, come uno che non solo ha arricchito l’arte della pittura, ma che ha anche ampliato il nostro orizzonte nella sfera della polifonia. E’ un continente spirituale del tutto nuovo e Čiurlionis è il suo primo Cristoforo Colombo.” Da alcuni critici egli è considerato un precursore di Kandinskij.

Molti versi di Mieželaitis sono nati dai suoi numerosi viaggi. Dalle impressioni riportate nei suoi viaggi in Italia, scaturiscono le sue personali interpretazioni della pittura e della scultura italiane (Giotto, Beato Angelico, Leonardo, Michelangelo). Il tema dell’eterno circolo della natura (unificazione e differenziazione) nonché nella vita spitituale dell’uomo sotto ogni latitudine, è il costante e inseparabile motivo che svolge un ruolo fondamentale nelle poesie scritte da Mieželaitis nella seconda metà della sua vita.

Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo in particolare: Tėviskes vejas (Vento del luogo natale, 1946), Svetimi akmenys (Pietre straniere, 1957), Žmogùs (Uomo, 1962), Lyriniai etiudai (Studi lirici, 1964), Antakalnio barokas (Il barocco di Antakalnis, 1971), Postskriptumai (Post scripta, 1986).

Presento qui alcune poesie di Eduardas Mieželaitis. Questa volta, non conoscendo il lituano e benché io sia restio a tradurre da una lingua intermedia, mi sono servito della versione inglese non rimata, preferendola a quella polacca, nella quale i poeti-traduttori hanno conservato spesso le rime esistenti, costringedoli in tal modo a creare soluzioni alternative rispetto alla letteralità dei testi originali.

 

L’oceano

Oceano!..

Vecchio come il nostro mondo è l’oceano,

anche i poemi che gli hanno dedicato sono vecchi,

eppure è sempre in movimento,

in perpetuo movimento,

e io mi sento come un’isola fusa nel suo stampo.

Lo ammetto, ci ripetiamo, siamo banali,

forse dopo tutto siamo infantili,

ma perché non paragonare la vita umana al mare?

Se le nazioni e la gente sono paragonate a isole,

perché allora non essere avvicinate al mare?

I poeti ci hanno giurato: “La vita è un oceano senza fine”,

ma bagnata nelle pozzanghere delle proprie lacrime.

Perciò noi sveliamo l’ingannevole idea

di navigare soli attraverso l’oceano

dimenticando le nostre paure…

 

Che incantevole elemento!

Osservando il suo moto che lascia senza fiato,

perfino affrontando i suoi venti vuoi restare,

perché il sapore del suo sale ti affascina,

e l’inno delle sue onde continui a sentire

come in una conchiglia…

 

Rigirati, oceano!

Tu ancora non hai provato tale libertà e sollievo…

Anche se alcune navi giacciono immobili nei tuoi fondali,

più nuovi vascelli – tuo orgoglio – accolgono la brezza…

Rigirati, o marosi di popolo!

Rigirati, umanità oceano!

 

Cosa io sono non lo so:

una piccola barca o un’isola, cioè qualcosa di solido,

non importa, o vita diletta, non risparmiare il mio cuore,

percuotilo come roccia con le tue onde senza sosta…

 

Io ammiro l’elevata umanità oceano,

io mi rallegro dei suoi flutti che lambiscono i continenti.

Che qualche snob tratti pure con scherno questa nozione,

ma per me la vita – l’umanità – e l’agitato oceano

è un’immagine che non invecchia mai,

essa offusca molte altre

tutte apparentemente nuove e audaci…

Rigirati, o mare pieno di vita!

Rigirati, o marosi di popolo!

 

Guarda, con mani di poetica devozione

noi terremo la madre Terra in movimento,

in perenne movimento…

 

 

Le cascate del Niagara, ovvero a passeggio con Walt Whitman

 

1.

Stretta, come le parole nei sonetti, nella sua cornice di rive,

obbedendo ai canoni, scorre l’epica acqua del fiume,

come gli eventi in perenni poemi, come l’albero

della canoa che portava Hiawatha,

e come il fumo grigio del tabacco contorto dal vento,

che si levava nella quiete del meriggio dal suo calumet;

lenta come un tempo la Santa Maria di Colombo

veleggiava adagio, nella brezza medioevale.

Ed ecco, a un tratto, l’orlo del precipizio…Come un esercito

spinto in flussi umani a una guerra fratricida,

precipita a piombo nell’abisso e con fragore

rombano le trombe marziali.

 

2.

Ma ora al diavolo l’armonia,

al diavolo i canoni –

nessuna penna potrebbe frenare il ritmo dell’acqua.

Al diavolo i versi,

qui non servono a nessuno,

perché nel chiasso e nel tumulto del torrente

non li sentirebbe neanche il più sensibile orecchio.

Qui i versi devono essere assordanti come il tuono

o, almeno, come salve di cannoni,

perché qui legioni di acqua sfrenata sono in guerra.

Al diavolo anche la logica,

poiché qui prevale l’illogico

e nulla è rimasto delle regole geometriche.

 

Qui la forza prende il sopravvento.

La brutalità esce furiosa in superficie,

calpestando i deboli coi suoi piedi.

Qui domina una selvaggia massa irrompente,

qui di acqua infuria una guerra civile.

 

Qui le razze acquatiche

nera e bianca, rossa e gialla si mescolano,

e la democrazia della Natura trionfa.

Acqua e parole

sono bianchi e neri, rossi e gialli democratici

che infrangono l’intera struttura dei vecchi canoni,

infrangono le eterne e armoniose dittature,

creando un caos monumentale.

 

Qui non udrai mai il flauto del pastore.

Qui i tamburi rombano e le trombe di ottone erompono.

Ma sopra tutto questo inferno pende nell’aria

la colorita armonia del cielo –

l’arcobaleno

che incorona l’argentea testa di Walt Whitman,

il re del caos, il filosofo e il satiro,

mentre dalla sua nivea barba come briciole di pane

si versano sonore parole:

And mind a word of the modern –

the word En Masse.”

 

Io dico a Walt Whitman:

una sola parola, come individuo, non ha senso,

perché non può mai vincere in nessuna battaglia.

Oggi vincitrici saranno le parole en masse –

eserciti di parole, brigate e legioni di parole,

movimenti di parole, rivoluzioni e rivolte,

e nascerà una nuova società di parole, parole – democratici,

un nuovo sistema democraticamente organizzato.

 

Questa cascata di parole

non può più essere stretta

nei confini dei giambi, dei dattili e così via,

perché ci sono troppe parole – intere masse di parole,

e per controllarle altre leggi e sistemi sono richiesti.

I loro versi originano dalle piene del fiume,

dalle raffiche di vento, dal sordo frastuono dei torni

e dallo schianto dei tuoni.

Il loro ritmo è l’asimmetria,

la pulsazione del disordine

che dominano in Natura.

Ma da questo caos emergerà

una magnifica caotica armonia.

 

E le parole prenderanno il colore da tutte le razze umane,

dalla terra, dall’acqua del mare, dall’erba e dall’acciaio.

E sopra la caotica massa d’acqua del Niagara

splenderà la bianca arruffata testa del vecchio Walt Whitman,

il grande Pan della poesia.

 

3.

Agghindo i miei versi come una bambola;

le faccio le trecce di rime,

e la lascio andare graziosa e linda,

bene acconciata come la testolina di mia figlia,

in perfetto ordine – una vera bambola.

 

Ma a volte come un giovane puledro essa scalpita,

all’improvviso prende un’altra strada,

e allora la poesia si scatena,

tanto che neanche Aleksandr Blok

avrebbe potuto tenerla a freno.

 

Ma ha senso comprimerla in rigidi canoni,

nel loro corto letto di Procuste,

se le metafore si mostrano e i versi ignorano la scansione,

se l’immagine, sguainata la spada, vuole sfidare il canone

e lottare finché uno dei due non soccomba?

 

Vale la pena restringere l’amplitudine del ritmo?

Dobbiamo sempre seguire la regola comune

e tessere come gli altri bardi – Dio onnipotente! –

continuare a tessere, spaventati dalle novità,

attorno all’asse giambo-trocaico?

 

Ora ditemi: i fiumi frequentano forse il giambo?

E la brezza si serve dei giambi?

Ditemi: ogni cosa che attraversa il cosmo

sembra forse anche di poco un nostro giambo terrestre

o un nostro trocheo? – ditemi, vi prego!

 

Allora perché dobbiamo ridurre la scala di un poema?

Lasciamo alla nostra poesia completa libertà.

Agghindo a volte la mia poesia, se necessario,

la pettino, perché sia in ordine, prima di mostrarla!

Ma in realtà la poesia-bambola non fa per me!

 

4.

Sono tornato alle mie rive, voi direte…

Sì, è vero!

I vortici, la cascata

formano quest’epoca.

Ma tornare dalla cascata

non è come tornare

alla massima velocità della Santa Maria,

o alla canoa di Hiawatha,

o al fumo contorto del suo calumet.

 

Qui il ritorno

è quello di un cavallo uscito dalla battaglia,

che tende nervosamente tutti i muscoli.

Nel nostro caso, il ritorno è accompagnato

dai ricordi del vortice della cascata.

 

Un fiume che precipita da un dirupo

scorre più lento, ma non ritorna.

E così noi abbiamo due canuti poli

sulle opposte rive del fiume:

il cieco Omero dai capelli bianchi

e Walt Whitman dai capelli bianchi.

 

Uno con le sue foglie di lauro,

l’altro con le sue foglie d’erba –

entrambi hanno verdi corone,

e attraverso il Niagara

si tendono la mano.

 

L’Elmetto e il Crespigno

 

Accanto a un tronco marcito

Bagnato dall’acqua di una fonte

Un elmetto arrugginisce, afflitto,

E su di esso, temerario,

 

Come un audace alpinista

Si arrampica un vermetto. Vicino

Un uccellino esamina la spiaggia

Dove pensa di costruire il nido.

 

Le ultime schegge di ghiaccio

Si sciolgono e si mutano in rivoli.

Ma quale fiore nell’erba

Al vecchio elmetto si stringe?

 

Da sotto il suo cerchio di acciaio

Lo guarda un fragile crespigno.

Sfioragli il capo con la mano –

E’ vivo – imperituro…

 

Iperbole

 

Cos’è il cielo?

Cosa sono le stelle? Non sono semplici occhi blu?

Cos’è la luna? Non è un sopracciglio a forma di arco?

Non sono i tuoi tratti che nella mia poesia nascono

Disegnati nello spazio, e lasciati nei cieli a splendere?

 

Io disegno nello spazio

Il tuo viso effimero

Dalle stelle, dall’aria – con le tinte del tramonto,

Coi trilli dell’usignolo – una parodia

Di un poeta bambino che piange tristemente.

 

Disegno

Il tuo viso effimero dal nulla,

Dallo spazio, dal tempo, dai fulgidi tragitti degli uccelli,

Dai suoni, dal lampo, dalla pioggia, dal vento, dalla neve

E dai più astratti punti nel labirinto delle galassie.

 

 

Io posso sentire

La tua liscia pelle dipinta coi colori dell’aria,

Il mio occhio è attratto dal blu del tuo sguardo,

Il mio quadro ha il tuo profumo – il profumo

Del lillà che danza al chiaro di luna.

 

Ho appeso il ritratto

Qui, nel mio solaio,

E lo imploro di restare, come sogno che svanisce.

No, non è poeta chi non deruba i cieli,

Non è pittore chi non aggiunge le stelle ai propri colori.

 

Cos’è il cielo

Se le stelle sono i tuoi occhi e la luna – il tuo sopracciglio,

Il tramonto – le tue labbra che fluttuano come visione.

Il tuo immenso, immenso effimero ritratto

Disegnato da niente nello spazio

E’ il mio cielo!

 

L’uomo

 

Noi con due piedi sul globo della Terra.

Noi con due mani tese alla sfera del Sole.

 

Così tra il globo della Terra

e la sfera del Sole

io

sto…

 

Tonda è la mia testa – come il globo della Terra –

nel cui centro – come strati di carbone e metalli –

si trova il mio cervello che non vale di meno.

Io lo scavo

e ricavo

dall’acciaio

ogni genere di mezzi giganteschi:

treni

che collegano paesi lontani

tra loro,

navi che solcano gli oceani con ogni tempo,

aerei

che superano l’uccello in volo,

missili

veloci quasi come la luce

e rapidi

come il volo del mio pensiero…

 

Tonda è la mia testa – come la sfera del Sole –

dal cui centro nelle quattro direzioni

stupendi raggi si riversano:

essi alimentano la vita sulla Terra,

vi incoraggiano la nascita perpetua…

 

Cos’è la Terra?

Cosa vale senza di me?

 

…Un tempo una gigantesca e misera palla senza vita

vagava nelle sconfinate distese dello spazio…

La luna come specchio di notte da lontano

rifletteva la sua faccia brutta e butterata…

In miseria allora mi ha creato

e ha foggiato la mia testa come il Sole e la Terra…

La piccola palla – cioè la mia testa – è maturata in fretta,

ha superato il grande globo della Terra

e ora serve come suo asse permanente…

Quando è successo di ubbidire alle mie mani

Io ho rivelato la sua sorprendente bellezza…

E’ la Terra che ha creato me quindi

ma sono io

che l’ha rimodellata e l’ha resa

più nuova, più giovane e più splendida

che mai…

 

Coi miei piedi saldamente posati sulla Terra

e le mie braccia sempre tese verso il Sole,

io sto

come un ponte

che unisce la Terra

e il Sole

lungo il quale

verso la Terra

il Sole scende,

lungo il quale

verso il Sole

la Terra sale…

 

Tutte le splendide creazioni

io le ho foggiate dalla madre Terra

con le mie mani ingegnose,

non smettono mai di girarmi intorno

come una giostra variopinta…

 

…Le guardo girarmi intorno:

città con ponti e piazze,

case con ascensori e scale.

autovetture come insetti sulle ruote,

strutture di cemento e acciaio.

Vedo girare intorno alla mia testa veloci aeroplani,

e intorno ai miei piedi lunghi treni,

transatlantici che solcano acri

di mare e di oceano,

trattori e torni

che si muovono ruggendo,

io vedo lasciare le mie mani

come colombi in volo

molti satelliti e astronavi…

 

Di bell’aspetto, forte, di spalle larghe –

come un ponte che unisce la Terra

e il Sole –

io sto

al centro

del pianeta

irradiando sorrisi di luce solare

in tutte e quattro le direzioni.

Questo sono io –

l’uomo.

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti