Search results for 'Zbigniew Herbert'

La fine del mondo secondo Zbigniew Herbert e Czesław Miłosz

12 Set

 

 

La poesia “All’entrata della valle” di Zbigniew Herbert contiene riferimenti sia all’Apocalisse di san Giovanni che ai campi di concentramento nazisti. Là i prigionieri venivano divisi e privati delle loro cose, i bambini venivano tolti alle madri. Successivamente aveva luogo la selezione che doveva stabilire chi restava nel campo e chi invece doveva morire nelle camere a gas. Coloro che nella poesia cantano i salmi sono le persone uccise, mentre coloro che digrignano i denti sono quelli che dovranno soffrire nella realtà del campo. Sembra che questa da me tradotta sia la versione censurata della poesia, e che quella non censurata, ma introvabile, contenesse anche un chiaro riferimento all’invasione dell’Ungheria nel 1956 da parte delle truppe del Patto di Varsavia.

La poesia “Canzone della fine del mondo” di Czesław Miłosz, diversamente dalla poesia di Herbert e dall’Apocalisse, presenta un Giorno del Giudizio tutt’altro che spettacolare, come si prevede che sarà. Fu scritta da Miłosz nel 1943 a Varsavia occupata dai nazisti. Nella sua “Storia della letteratura polacca” (1969), il poeta scrive: «Nella breve e ironica poesia “Canzone per la fine del mondo” Armageddon è permanente, ma sempre seguito dagli alberi in fiore, dai baci degli amanti, dalla nascita dei bambini». Da queste parole di Miłosz possiamo dedurre che il “Dies irae” è un fenomeno quotidiano, e che il mondo materiale esiste  come se in realtà nulla fosse successo.

 

Zbigniew Herbert: All’entrata della valle

 

Dopo la pioggia di stelle

Sul prato di ceneri

si raccolsero tutti sorvegliati dagli angeli

 

dall’altura scampata

l’occhio abbraccia

l’intero gregge belante dei bipedi

 

veramente non sono molti

contando anche quelli che verranno

dalle cronache dalle fiabe e dalle vite dei santi

 

ma tralasciamo queste considerazioni

spostiamoci con lo sguardo

nella gola della valle

da cui proviene un grido

 

dopo il sibilo delle esplosioni

dopo il sibilo del silenzio

quella voce suona come fonte di acqua viva

 

è come ci spiegano

il grido delle madri che vengono divise dai bambini

perché risulta

che saremo redenti separatamente

 

gli angeli guardiani sono inesorabili

e bisogna ammettere che svolgono un duro lavoro

 

lei prega

– nascondimi in un occhio

in una mano nelle braccia

siamo stati sempre insieme

non puoi abbandonarmi

adesso che sono morta e che ho bisogno di affetto

 

l’angelo anziano

sorridendo spiega il malinteso

 

una vecchia porta

la salma di un canarino

(tutti gli animali sono morti poco prima)

era così dolce – dice piangendo

capiva tutto

quando parlavo –

la sua voce si perde nello strepito generale

 

perfino il taglialegna

che è difficile sospettare di simili cose

vecchio tarchiato ingobbito

si preme l’ascia sul petto

– tutta la vita è stata mia

anche adesso sarà mia

mi manteneva là

mi manterrà qui

nessuno ha il diritto

– dice

non la consegnerò

 

quelli che a quanto pare

ubbidivano rassegnati agli ordini

vanno a testa bassa in segno di riconciliazione

ma stringono nei pugni

brandelli di lettere nastri capelli tagliati

e fotografie

che ingenuamente pensano

non verranno tolti loro

 

così appaiono

un momento

prima dell’ultima divisione

in quelli che digrignano i denti

e in quelli che cantano i salmi

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

 

Czesław Miłosz: Canzone della fine del mondo

 

Nel giorno della fine del mondo

L’ape vola e si posa sui nasturzi,

Il pescatore ripara la sua lucente rete.

Saltano in mare allegri i delfini,

I passerotti si aggrappano alle grondaie

E il serpente ha la pelle dorata, come deve avere.

 

Nel giorno della fine del mondo

Le donne vanno nel campo sotto gli ombrelli,

L’ubriaco si addormenta sul bordo di un’aiola,

Chiamano sulla strada gli erbivendoli

E una barca con la vela gialla raggiunge l’isola,

Il suono di un violino si diffonde nell’aria

E la notte si apre alle stelle.

 

E chi si aspettava lampi e fulmini,

Resta deluso.

E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,

Non crede che stia già avvenendo.

Finché il sole e la luna restano lassù,

Finché il bombo visita la rosa,

Finché i bambini nascono rosati,

Nessuno crede che stia già avvenendo.

 

Solo un vecchio canuto che sarebbe un profeta,

Ma profeta non è, perché ha altre occupazioni,

Dice legando i pomodori:

Una diversa fine del mondo non si sarà,

Una diversa fine del mondo non ci sarà.

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

(C) by Paolo Statuti

Zbigniew Herbert (1924-1998)

24 Lug

 

Vorrei descrivere

Vorrei descrivere la più semplice emozione

la gioia o la tristezza

ma non come fanno gli altri

cercando un raggio di pioggia o di sole

 

vorrei  descrivere la luce

che nasce in me

ma so che essa non somiglia

a nessuna stella

perché non è così luminosa

né così limpida

e incerta

 

vorrei descrivere il coraggio

senza tirarmi dietro un leone impolverato

e anche l’inquietudine

senza urtare un bicchiere d’acqua

 

in altre parole

darò tutte le metafore

per una sola espressione

estratta dal petto come costola

per una sola parola

che rimanga

nei confini della mia pelle

 

ma a quanto pare non è possibile

 

e per dire – amo

corro come un folle

cogliendo fasci di uccelli

e la mia tenerezza

che non è di acqua

chiede all’acqua un viso

 

e la rabbia diversa dal fuoco

prende in prestito da esso

una lingua loquace

 

così si mescola

così si mescola

in me

ciò che canuti signori

hanno diviso una volta per sempre

e hanno detto

questo è il soggetto

e questo è l’oggetto

 

ci addormentiamo

con una mano sotto la testa

e con l’altra in un cumulo di pianeti

 

e i piedi ci lasciano

e assaporano la terra

con piccole radici

che la mattina

strappiamo con dolore

 

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

 

Zbigniew Herbert

3 Mar

Un classicista del XX secolo

   Zbigniew Herbert, poeta, drammaturgo e saggista, nato il 29 ottobre 1924 a Lwów e morto a Varsavia il 28 luglio 1998, è senza dubbio uno dei più illustri protagonisti della storia della poesia polacca del dopoguerra, e uno dei più conosciuti e letti oltre i confini della Polonia. Ha ricevuto infatti importanti premi internazionali, tra cui ricordiamo: Nikolaus Lenau (1965), G. Herder (1973), Gerusalemme (1990), ed è stato tradotto in diverse lingue: tedesco, inglese, ceco, olandese, svedese, italiano a cura di Piero Marchesani.

   Debuttò nel 1956 con la raccolta “Corda di luce”, cui fecero seguito “Ermes, il cane e la stella” (1957), “Studio dell’oggetto” (1961),  “Epigrafe” (1969), “Il signor Cogito” (1974), “Rapporto dalla città assediata” e altri versi (1983), “Elegia per l’addio” (1990), “Rovigo” (1992) e “Epilogo della tempesta” (1998). E’ autore anche di drammi e di bellissimi saggi sull’arte, come ad esempio quelli raccolti nel volume “Un barbaro nel giardino” (1962), ambientato in Italia.

   La creazione di Herbert ha svolto un ruolo essenziale nel rinnovamento della poesia, alla ricerca di nuovi modi di descrivere la drammatica situazione dell’uomo moderno. Sensibile ai conflitti morali della nostra epoca, essa si serve spesso della metafora e della parabola, ricorrendo alla mitologia, alle opere d’arte, ai fenomeni naturali, ai personaggi storici e letterari dai valori simbolici. Abbina in sé il rispetto per la tradizione culturale europea con la modernità dei mezzi d’espressione, gli interessi filosofici con la semplicità poetica della lingua, l’etica e la problematica esistenziale con l’ironia e il senso dell’umorismo. Tra le sue opere più riuscite va annoverata senz’altro la raccolta “Il signor Cogito”, il cui protagonista vive i problemi fondamentali di questa poesia e viene presentato con un distacco moderatamente scherzoso, che elimina il patos e – paradossalmente – accresce il ruolo del messaggio morale contenuto in questi versi. Il carattere intellettuale della poesia di Herbert, la sua erudizione, i legami con la tradizione, nonché il genere specifico di tragicità e il senso della misura, hanno indotto una parte della critica ad inquadrarla nel neoclassicismo del XX secolo.

   Particolarmente interessante è il rapporto del poeta col mondo degli oggetti. Secondo Herbert, tutto possiede una qualche propria identità. Tutto è ricolmo di contenuto e di significato. Anche la materia, a suo modo, è imbevuta di spiritualità, ma in ogni caso essa è un mistero e costituisce una barriera al di là della quale l’uomo colloca il mondo delle proprie aspirazioni e dei propri desideri. Forse – dice il poeta – l’oggetto più bello è quello che non esiste. Esso non serve a niente, non si lascia verificare in modo fisico, e quindi non si può metterne a nudo l’imperfezione. E’ un concetto ideale e non soggiace né alla temporaneità, né alla distruzione.

   L’uomo deve conciliarsi col suo destino e con la missione che deve svolgere nella storia della creazione. Si tratta dell’ordine morale, del diritto naturale scritto negli strati più profondi della psiche umana; si tratta della sincerità e del coraggio di ammettere che si è soltanto uomini. E non è poco esserlo. Una simile tesi è racchiusa nella creazione di Zbigniew Herbert, spesso ardua, tagliente, ironica, piena di rigore interno, ponderosa nel suo appello racchiuso nelle ultime parole della poesia “Il sermone del signor Cogito”:

                                            Sii fedele va’.

 

 

 

Poesie di Zbigniew Herbert tradotte da Paolo Statuti

 

Il ritorno del proconsole

Ho deciso di tornare  alla corte di cesare

ancora una volta proverò se è possibile viverci

potrei restare qui nella remota provincia

sotto le foglie del sicomoro piene di dolcezza

e il mite governo dei malaticci nepoti

quando tornerò non intendo cercare meriti

offrirò una parca dose di applausi

sorriderò di un’oncia aggrotterò le ciglia con discrezione

non mi daranno per questo una catena d’oro

questa di ferro deve bastarmi

ho deciso di tornare domani o dopodomani

non posso vivere tra le vigne tutto qui non è mio

gli alberi sono senza radici le case senza fondamenta la pioggia

                                              è vetrosa i fiori odorano di cera

un’arida nube bussa sul cielo deserto

in ogni caso tornerò dunque tornerò domani dopodomani

bisognerà di nuovo intendersi con il volto

con il labbro inferiore perché sappia reprimere lo sdegno

con gli occhi perché siano idealmente vuoti

e con il povero mento lepre del mio volto

che trema quando entra il capitano delle guardie

di una cosa sono certo non berrò il vino con lui

quando accosterà la sua ciotola abbasserò gli occhi

e fingerò di estrarre dai denti le tracce del pasto

cesare del resto ama il coraggio civile

entro certi limiti entro certi ragionevoli limiti

in fondo è un uomo come tutti gli altri

e ne ha abbastanza dei trucchi col veleno

non può bere a sazietà incessanti scacchi

la coppa a sinistra per Druso nella destra bagnare le labbra

poi bere soltanto acqua non staccare gli occhi da Tacito

uscire in giardino e tornare quando già hanno portato via il corpo.

Ho deciso di tornare alla corte di cesare

spero proprio che in qualche modo ci intenderemo

 

Perché i classici

                                                     Ad  A. H.

1

Nel quarto libro della Guerra del Peloponneso

Tucidite racconta la storia della sua fallita spedizione

tra i lunghi discorsi dei condottieri

le battaglie gli assedi la peste

la fitta rete d’intrighi

di brighe diplomatiche

questo episodio è come un ago

in un bosco

la colonia ateniese di Amfipolis

cadde nelle mani di Brazydas

perché Tucidite tardò a soccorrerla

pagò per questo alla città natale

con l’esilio a vita

gli esuli di ogni tempo

sanno quale prezzo sia

 

2

i generali delle ultime guerre

se accade un impiccio simile

guaiscono in ginocchio davanti ai posteri

elogiano il proprio eroismo

e l’innocenza

incolpano i subalterni

i colleghi invidiosi

i venti sfavorevoli

Tucidite dice soltanto

che aveva sette navi

era inverno

e navigava velocemente

 

3

se tema di un dramma

sarà una brocca infranta

una piccola anima infranta

con una grande compassione di sé

ciò che resterà dopo di noi

sarà come il pianto degli amanti

in un lurido alberghetto

quando spunta la tappezzeria

 

Rapporto dal paradiso

In paradiso una settimana lavorativa dura trenta ore

gli stipendi sono più alti i prezzi calano sempre

il lavoro fisico non stanca (effetto di una minore gravitazione)

spaccare la legna è come scrivere a macchina

l’ordinamento sociale è stabile e il regime ragionevole

davvero in paradiso è meglio che in qualsiasi altro paese

All’inizio doveva essere diverso –

cerchi luminosi cori e gradi di astrattezza

ma non si è riusciti a separare completamente

il corpo dall’anima e veniva qui

con una goccia di grasso attraverso una fibra dei muscoli

è stato necessario trarre le conclusioni

mischiare il seme dell’assoluto con il seme dell’argilla

ancora un abbandono della dottrina l’ultimo abbandono

soltanto Giovanni l’aveva previsto: risorgerete con il corpo

Pochi guardano Dio

è solo per quelli di aria pura

gli altri ascoltano i comunicati sui miracoli e i diluvi

con il tempo tutti guarderanno Dio

quando ciò avverrà non lo sa nessuno

Per il momento il sabato  a mezzogiorno

le sirene muggiscono dolcemente

e dalle fabbriche escono azzurri proletari

sotto il braccio portano goffamente le ali come violini

 

Mamma

Pensavo:

non cambierà mai

sempre aspetterà

col suo abito bianco

e gli occhi azzurri

sulla soglia di tutte le porte

sempre sorriderà

mettendosi la collana

finché di colpo

il filo si spezzò

adesso le perle svernano

nelle fessure del pavimento

la mamma ama il caffè

la calda stufa

la quiete

siede

si sistema gli occhiali

sul naso affilato

legge una mia poesia

e con la testa grigia disapprova

colui che è caduto dalle sue ginocchia

serra la bocca tace

dunque un mesto colloquio

sotto la lampada fonte di dolcezza

o dolore non assopito

da quali pozzi egli beve

per quali strade cammina

figlio diverso dalle attese

l’ho nutrito con un latte benigno

l’inquietudine lo brucia

l’ho lavato nel caldo sangue

ha le mani fredde e ruvide

lontano dai tuoi occhi

trafitti dal cieco amore

è più facile subire la solitudine

 

tra una settimana

nella fredda stanza

con un nodo in gola

leggo la tua lettera

 

nella lettera

i caratteri sono staccati

come i cuori che amano

 

Il sermone del signor Cogito

 

Va’ dove andaron quelli fino all’oscura meta

cercando il vello d’oro del nulla – tuo ultimo premio

 

va’ fiero tra quelli che stanno inginocchiati

tra spalle voltate e nella polvere abbattute

 

non per vivere ti sei salvato

hai poco tempo devi testimoniare

 

abbi coraggio quando il senno delude abbi coraggio

in fin dei conti questo solo è importante

 

e la tua Rabbia impotente sia come il mare

ogni volta che udrai la voce degli oppressi e dei frustati

 

non ti abbandoni tuo fratello lo Sdegno

per le spie i boia e i vili – essi vinceranno

sulla tua bara con sollievo getteranno una zolla

e il tarlo descriverà la tua vita allineata

e non perdonare invero non è in tuo potere

perdonare in nome di quelli traditi all’alba

 

ma guardati dall’inutile orgoglio

osserva allo specchio la tua faccia da pagliaccio

ripeti: m’hanno chiamato – non credo ch’io sia il migliore

 

fuggi l’aridità del cuore ama la fonte mattutina

l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno

la luce sul muro il fulgore del cielo

 

ad essi non serve il tuo caldo respiro

sono solo per dirti: nessuno ti consolerà

 

bada – quando la luna sui monti darà il segnale – alzati e va’

finché il sangue nel petto rivolgerà la tua scura stella

 

ripeti gli antichi scongiuri dell’uomo fiabe e leggende

raggiungerai così quel bene che non raggiungerai

 

ripeti solenni parole ripetile con tenacia

come quelli che andaron nel deserto perendo nella sabbia

 

e ti premieranno per questo come altrimenti non possono

con la sferza della beffa con la morte nel letamaio

 

va’ perché solo così sarai ammesso tra quei gelidi teschi

nel manipolo dei tuoi avi: Ghilgamesh, Ettore, Rolando

che difendono un regno sconfinato e città di ceneri

sii fedele va’

                 

 

 All’entrata della valle

 

Dopo la pioggia di stelle

Sul prato di ceneri

si raccolsero tutti sorvegliati dagli angeli

 

dall’altura scampata

l’occhio abbraccia

l’intero gregge belante dei bipedi

 

veramente non sono molti

contando anche quelli che verranno

dalle cronache dalle fiabe e dalle vite dei santi

 

ma tralasciamo queste considerazioni

spostiamoci con lo sguardo

nella gola della valle

da cui proviene un grido

 

dopo il sibilo delle esplosioni

dopo il sibilo del silenzio

quella voce suona come fonte di acqua viva

 

è come ci spiegano

il grido delle madri che vengono divise dai bambini

perché risulta

che saremo redenti separatamente

 

gli angeli guardiani sono inesorabili

e bisogna ammettere che svolgono un duro lavoro

 

lei prega

– nascondimi in un occhio

in una mano nelle braccia

siamo stati sempre insieme

non puoi abbandonarmi

adesso che sono morta e che ho bisogno di affetto

 

l’angelo anziano

sorridendo spiega il malinteso

 

una vecchia porta

la salma di un canarino

(tutti gli animali sono morti poco prima)

era così dolce – dice piangendo

capiva tutto

quando parlavo –

la sua voce si perde nello strepito generale

 

perfino il taglialegna

che è difficile sospettare di simili cose

vecchio tarchiato ingobbito

si preme l’ascia sul petto

– tutta la vita è stata mia

anche adesso sarà mia

mi manteneva là

mi manterrà qui

nessuno ha il diritto

– dice

non la consegnerò

 

quelli che a quanto pare

ubbidivano rassegnati agli ordini

vanno a testa bassa in segno di riconciliazione

ma stringono nei pugni

brandelli di lettere nastri capelli tagliati

e fotografie

che ingenuamente pensano

non verranno tolti loro

 

così appaiono

un momento

prima dell’ultima divisione

in quelli che digrignano i denti

e in quelli che cantano i salmi

 

Vorrei descrivere

Vorrei descrivere la più semplice emozione

la gioia o la tristezza

ma non come fanno gli altri

cercando un raggio di pioggia o di sole

 

vorrei  descrivere la luce

che nasce in me

ma so che essa non somiglia

a nessuna stella

perché non è così luminosa

né così limpida

e incerta

 

vorrei descrivere il coraggio

senza tirarmi dietro un leone impolverato

e anche l’inquietudine

senza urtare un bicchiere d’acqua

 

in altre parole

darò tutte le metafore

per una sola espressione

estratta dal petto come costola

per una sola parola

che rimanga nei confini della mia pelle

 

ma a quanto pare non è possibile

 

e per dire – amo

corro come un folle

cogliendo fasci di uccelli

e la mia tenerezza

che non è di acqua

chiede all’acqua un viso

 

e la rabbia diversa dal fuoco

prende in prestito da esso

una lingua loquace

 

così si mescola

così si mescola

in me

ciò che canuti signori

hanno diviso una volta per sempre

e hanno detto

questo è il soggetto

e questo è l’oggetto

 

ci addormentiamo

con una mano sotto la testa

e con l’altra in un cumulo di pianeti

 

e i piedi ci lasciano

e assaporano la terra

con piccole radici

che la mattina

strappiamo con dolore

 

Ipotesi su Barabba

Che ne è stato di Barabba? Ho chiesto nessuno lo sa

Liberato dalla catena si avviò sulla strada bianca

poteva voltare a destra andare dritto voltare a sinistra

fare una giravolta cantare con gioia come un gallo

Lui Imperatore delle proprie mani e della propria testa

Lui amministratore del proprio respiro

 

Chiedo perché in un certo senso presi parte alla questione

Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo

come gli altri libera Barabba Barabba

Gridavano tutti se solo io avessi taciuto

sarebbe successo esattamente come doveva succedere

 

E Barabba forse tornò alla sua banda

Sui monti uccide in fretta rapina ad arte

Oppure aprì una bottega di vasi

e le mani macchiate di delitti

purifica nell’argilla della creazione

E’ un acquaiolo un mulattiere un usuraio

proprietario di navi – su una di esse Paolo andò dai Corinzi

oppure – ciò che non si può escludere –

è diventato un’apprezzata spia al soldo dei Romani

 

Guardate e ammirate il vertiginoso gioco del destino

o potenze della possibilità o sorrisi della fortuna

 

E il Nazzareno

rimase solo

senza alternativa

col ripido

sentiero

di sangue

 

 

La gallina

 

La gallina illustra nel modo migliore dove porta la stretta

convivenza con la gente. Ha perso del tutto la leggerezza

e la grazia degli uccelli. La coda sporge sul prosperoso sedere,

come un cappello troppo grande e di cattivo gusto: I suoi

rari momenti di estasi, quando si regge su una sola zampa

e copre gli occhi rotondi con le palpebre-membrane, sono

decisamente disgustosi. E per giunta la sua parodia del canto,

le soffocate suppliche su una cosa indicibilmente buffa: l’uovo –

rotondo, bianco e imbrattato.

La gallina fa venire in mente alcuni poeti.

 

 

La traduzione poetica

 

Come il goffo calabrone

si è posato sul fiore

piegando l’esile gambo

s’introduce negli strati di petali

simili a pagine di un dizionario

tende al cuore

dove c’è l’aroma e la dolcezza

e benché abbia il raffreddore

e gli manchi il gusto

tende lo stesso

finché sbatte la testa

contro il giallo pistillo

 

e lì si ferma

è difficile attraverso

il calice dei fiori arrivare

alla radice

quindi il calabrone esce

fiero di sé

e squillante ronza:

sono giunto al cuore

 

e a quelli

che hanno qualche dubbio

mostra la punta del naso

coperta di polvere gialla

 

Il  signor Cogito pensa al ritorno nella città natale

 

Se tornassi là

senza dubbio non troverei

neanche un’ombra della mia casa

né gli alberi dell’infanzia

né la croce con la targa di ferro

la panca su cui sussurravo scongiuri

i castagni e il sangue

e nessuna cosa che è nostra

 

tutto ciò che si è salvato

è una lastra di pietra

con un cerchio di gesso

sto al centro

su una gamba

un attimo prima del salto

 

non posso crescere

benché passino gli anni

e in alto rombano

pianeti e guerre

 

sto al centro

immobile come un monumento

su una gamba

prima di saltare nella necessità estrema

 

il cerchio di gesso prende il colore

del sangue seccato

intorno crescono mucchi

di cenere

fino alle spalle

fino alla bocca

 

Che sarà

 

che sarà

quando le mani

si staccheranno dai versi

 

quando in altre montagne

berrò acqua asciutta

 

dovrebbe essere indifferente

ma non lo è

 

che ne sarà dei versi

quando se ne andrà il respiro

e sarà negata

la grazia della voce

 

lascerò il tavolo

e scenderò nella valle

dove echeggia

un nuovo ridere

presso una cupa selva?

 

Spine e rose

 

Sant’Ignazio

bianco e fervente passando

accanto alle rose

si gettava sull’arbusto ferendo il corpo

 

con la campana della nera tonaca

voleva coprire

la bellezza del mondo

che sprizzava dal suolo come da una ferita

 

mentre giaceva sul fondo

della culla di spine

vide

che il sangue grondante dalla fronte

si coagulava sulle ciglia

formando una rosa

 

e la cieca mano

che cercava le spine

restò trafitta

dal dolce tocco dei petali

 

piangeva il santo ingannato

tra lo scherno dei fiori

 

spine e rose

rose e spine

cerchiamo la felicità

 

Canto del tamburo

Sono scomparsi gli zufoli dei pastori

l’oro delle trombe domenicali

i verdi echi i corni

anche i violini sono scomparsi –

è rimasto soltanto il tamburo

e il tamburo ci suona ancora

la marcia festiva la marcia funebre

semplici sentimenti vanno a tempo

sulle rigide gambe il tamburino suona

e un solo pensiero una sola parola

quando il tamburo chiama il ripido abisso

portiamo spighe o la lapide

che il saggio tamburo si predirà

quando il passo batte sulla pelle dei selciati

quel passo altero che trasformerà il mondo

in un corteo e in un solo grido

finalmente va l’umanità intera

finalmente ognuno ha trovato il passo

la pelle di vitello due bacchette

hanno distrutto torri e solitudine

e il silenzio è calpestato

e la morte non fa paura quando è densa

la colonna di polvere sul corteo

si aprirà il mare obbediente

scenderemo giù nel baratro

nei vuoti inferni e più in alto

del cielo verifichiamo la falsità

e liberato dagli spaventi

in sabbia si muterà l’intero corteo

portato dal vento beffardo

e così l’ultima eco passerà

lungo l’indocile muffa della terra

resterà solo il tamburo il tamburo

dittatore di musiche disperse

 

1957

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

La musica nella poesia polacca

22 Mag

 

 

Zbigniew Herbert

Canto del tamburo

Sono scomparsi gli zufoli dei pastori

l’oro delle trombe domenicali

i verdi echi i corni

anche i violini sono scomparsi –

è rimasto soltanto il tamburo

e il tamburo ci suona ancora

la marcia festiva la marcia funebre

semplici sentimenti vanno a tempo

sulle rigide gambe il tamburino suona

e un solo pensiero una sola parola

quando il tamburo chiama il ripido abisso

portiamo spighe o la lapide

che il saggio tamburo si predirà

quando il passo batte sulla pelle dei selciati

quel passo altero che trasformerà il mondo

in un corteo e in un solo grido

finalmente va l’umanità intera

finalmente ognuno ha trovato il passo

la pelle di vitello due bacchette

hanno distrutto torri e solitudine

e il silenzio è calpestato

e la morte non fa paura quando è densa

la colonna di polvere sul corteo

si aprirà il mare obbediente

scenderemo giù nel baratro

nei vuoti inferni e più in alto

del cielo verifichiamo la falsità

e liberato dagli spaventi

in sabbia si muterà l’intero corteo

portato dal vento beffardo

e così l’ultima eco passerà

lungo l’indocile muffa della terra

resterà solo il tamburo il tamburo

dittatore di musiche disperse

 

1957

 

Krzysztof Karasek

Spiegazione degli ultimi quartetti di Beethoven

                                                                                           A Paweł Mykietyn

 

Per essere folli bisogna avere conoscenze altolocate.

Quando le persone smettono di darsi del lei,

il resto è inevitabile.

 

Ho vissuto tanto da vedere i figli più vecchi dei genitori.

Grazie a ciò mi sono convinto che pensiamo le stesse cose.

Per quanto riguarda il mio lavoro, per esso ho rischiato la vita,

e la mia ragione è depressa.

Questo è Van Gogh.

 

Non c’è storia d’amore più triste

di quella di Giulietta e Romeo.

Morirò come il cigno, cantando

(Bianca dall’Otello).

Perché i nostri sogni sono sempre eterni?

 

Tre sono le streghe: fede,

speranza, amore.

La terza ora, ora delle streghe.

 

Il caso può essere sinonimo di Dio,

quando non permette troppe confidenze.

Must es sein? Must sein.

 

14.03.2012

Jerzy Liebert

 

Musica mattutita

 

Lontano e così leggero,

Il vento culla alberi e cielo,

Gli uccelli l’azzurro dalle gole

Spandono a gocce nella quiete.

 

Il silenzio come vaso colmo

Fino all’orlo di dolce fluido,

Versa l’azzurro nei calici

Dell’acacia e del gelsomino.

 

L’azzurro si fonde con l’argento,

Sprizza un intenso aroma,

Gratta agli uccelli le linguette

E nuove gocce suonano.

 

1925

 

 Rafał Wojaczek

 

Di nuovo musica

 

Di nuovo musica: chi ci pensa così intensamente,

che il cuore perde la memoria e batte altrove.

E il noto, benché sempre inatteso, timore

fa sì che i nostri corpi si trovino di nuovo.

 

E di nuovo con le labbra impaurite chiedi abilmente

il mio favore e curi la mia lingua addentata.

Ai freddi piedi permetti che lo spavento li guidi,

perché se avrai fiducia, lui stesso ti mostrerà il modo.

 

E di nuovo sei così premurosa e docilmente

fedele a quell’oblio che la musica

ti offre: l’invito ad accompagnarla col sangue.

E di nuovo la morte ci prende con sé per i suoi scopi.

 

1972

 

Bogdan Jaremin

 

Indirizzi di musica della signora Ishizu

 

La giapponese Ishizu non conosceva il tuo indirizzo.

Scriveva: Gould, Toronto, sentiva i suoni della mezzanotte.

 

E si apriva senza resistenza

il chiarore della musica

che ci attira dalla parte del bene comune

l’oscurità della musica

che giustifica il cammino verso l’ignoto

la preghiera della musica

che implora la pietà di Dio per ogni creatura

la fede della musica

che promette il seme al grembo chtonico della donna

la dispensa della musica

che nutre i sogni dei solitari oppressi dallo sconforto

la profondità della musica

da cui emerge un’isola sotto i piedi che affondano

 

Apritevi porte delle orecchie, apriti pietra del cuore

sollevati ferrea palpebra della notte,

svelati indirizzo del senzatempo.

 

2015

 

(Tutti le poesie sono nella versione di Paolo Statuti)

 

(C) by Paolo Statuti

Julian Kornhauser

19 Mar

 

 

Julian Kornhauser

 

 

Poeta, prosatore, critico letterario, traduttore della letteratura serbo-croata, professore di Filologia slava all’Università Jaghiellonica di Cracovia, è uno dei principali rappresentanti della Nouvelle Vague polacca degli anni ’70 e una delle figure di primo piano nella vita letteraria polacca dell’ultimo mezzo secolo. Come critico letterario è ricordato soprattutto nella veste di appassionato difensore dei valori tradizionali della poesia, restando in acceso e ironico contrasto con la generazione dei poeti riuniti intorno alla rivista trimestrale underground “bruLion”, i quali cercavano la libertà come assoluto e propugnavano la rivolta e la contestazione, respingendo la tradizione patriottica e culturale.

E’ nato il 20 settembre 1946 a Gliwice. Il suo debutto poetico risale al 1967 sulla rivista Poesia e sull’Almanacco dei giovani. Dal 1968 al 1975 membro del gruppo Adesso. Negli anni 1981-83 è stato uno dei redattori del mensile Scrittura. Ha pubblicato 18 raccolte di poesia, tre romanzi e numerosi saggi, tra i quali ricordiamo quelli sull’opera di Zbigniew Herbert dal titolo Il sorriso della sfinge.

Fin dalla sua prima sorprendente raccolta Verrà la festa anche per i pigri (1972), dove troviamo inquietanti e fantasmagorici quadri surreali, ispirati dalle visioni di Bruegel e Goya, ha trovato un suo personale linguaggio con l’impiego di un’ampia gamma di mezzi e temi poetici: dalla cronaca di scene di vita a insolite visioni sature di elementi simbolici. E’ rimasto sempre fedele all’idea di letteratura impegnata, dove la poesia è banco di prova del mondo e sensibile apparato di conoscenza dell’uomo.

La sua poesia, che alcuni definiscono anche come “annotazioni sonore della realtà”, è ricca di colori. E’ profondamente personale e sorprendentemente universale. Lirico delicato, sensibile alla bellezza della vita quotidiana, capace di trasformare in materia poetica il ciarpame esistenziale. La sua penultima raccolta Origami si compone di miniature paesaggistiche, annotazioni contemplative e sommesse, dove il poeta cerca di esprimere le impercettibili relazioni tra ciò che è fragile, fugace, e ciò che costituisce l’eterna Natura. Egli riesce sempre ad essere un osservatore raccolto e un acuto pensatore.

Il poeta e critico letterario Bartosz Suwiński scrive: “La poesia di Julian Kornhauser è fragile e delicata come porcellana, è semplice, sobria e coraggiosa, si presta a continue interpretazioni. Essa impiega registri diversi per raccontare poeticamente la realtà. Concede la parola a individui indifesi, esclusi, dimenticati, ed essi a un tratto reclamano dignità. La forza della sua poesia risiede nella franchezza del suo poetare, captando ciò che viene dalla gente, dal mondo. E’ dalla parte dell’uomo. Vede chiaramente e senza pregiudizi. E’ una poesia fatta soprattutto di osservazioni intime, piene di serenità e raccoglimento”.

Penso che Julian Kornhauser, oltre che della propria opera, può essere fiero anche della sua prole: la figlia Agata è la moglie dell’attuale presidente polacco Andrzej Duda, mentre il figlio Jakub, poeta anche lui, è dottore in scienze umanistiche e insegna all’Università Jaghiellonica di Cracovia.

 

Poesie di Julian Kornhauser tradotte da Paolo Statuti

 

Vietnam

                                                                    Ecco il succo rosso scorre sull’erba verde,

                                                                    il succo rosso penetra nella terra nera,

                                                                    e sedici milioni di uomini uccidono…

                                                                    uccidono, uccidono.

                                                                                                             Carl Sandburg

 

Lanciate di più, lanciate più

sogno, in cui non c’è pallottola né fuoco,

in cui il gas è profumo

del paradiso promesso, lanciate più

rami respiranti e trasparenti

frutti, il corpo della giungla è spaccato,

nel fango dei mattini affondano le decisioni

e i rapporti, nella ragazza martoriata

matura il mondo, matura l’uccello

rigonfio, ritagliato dall’Europa e dal progresso,

dall’ora sognata e da un messaggio d’amore,

in entrambe le parti della giungla fiorisce

la benzina, in entrambe le parti del mondo

scoppia il fegato, e l’uomo plasma

di sangue il suo futuro e il suo odio,

non nascono i bambini, le madri non sono più

quelle care signore dalle seriche bianche

mani, e nessuno di questi

intelligenti assassini piange

nemmeno le piante uccise col gas.

 

Poesia

 

La poesia non mi serve per respirare

né per amare, né per mordermi le labbra, per sciogliermi

nella città, per il dolore, per gridare, uccidere. La poesia

non mi serve affatto, mi stringe al collo

con un pugno di carta, gocciola il sangue

secco degli aforismi, gli occhi grigi dei postulati si chiudono,

si aprono, il sordo grido del corteo da dietro

la barricata, che viene alzata, crea

in essa piccole dimore per gli evacuati.

Oh no, la poesia mi guarda come un animaletto

spaventato, sbattete la porta, e andrà a pezzi

la realtà, la modesta stanza di un lirico

naturale, che coltiva la polemica per

tempi migliori. Poesia, sporco asciugamano di albergo

che passa di mano in mano e odora

sempre dello stesso sapone da bucato. Che bello

mantenersi con la morte, che si allena

per le lunghe distanze al Madison Square Garden,

e credere che sia una metafora che assicura

un’onesta immortalità.

 

La pergola

 

Al lavoro vado a piedi

comincio alle sei e mezza

accendo la luce della macchina

se è rimasto il lavoro del giorno prima lo termino

se qualcosa non mi riesce mi innervosisco

smetto riposo penso

ciò che non riesce oggi riuscirà domani

lacune non ci sono

l’uomo come il ferroviere

batte sulla ruota e non chiede perché

come nella vita

il pomeriggio vado nel mio terreno

mi rallegro quando tutto germoglia

dalla pergola vedo l’alveare

 

Colpi

 

Quando il poeta scrive,

scrive per gli altri.

Ma gli altri non si rivolgono a lui,

cercano quelli delle prime pagine dei giornali.

Pieno di odio,

si getta su di loro.

Morde, prende a calci, impreca.

Vuole essere notato,

scrive sempre più furiosamente e di più.

Quanto più a lungo lotta,

tanto meno è per gli altri,

e tanto più è per se stesso.

 

Split

 

Attraverso a piedi la città

di notte, fino al porto.

Cade una calda e fitta pioggerella.

Sento davanti a me soltanto

i passi del mare.

 

La mietitura

 

Leggo le poesie di un nuovo poeta.

Notte, calura estiva, temporale.

Leggo, provando un vago timore

davanti alle sue parole, immensità delle graminacee

silenziosità del mare.

Sento in esse un grido di aiuto, ma

so che ormai non riuscirò a darlo.

Le mie futili parole contro le sue parole.

La mia incertezza e la sua mietitura.

 

Ricordare

 

Hai gli occhi, dunque guarda.

Non perdere neanche una fogliolina di questo mondo,

né un solo nervetto della sua delicata pellicola,

 

guarda e ricorda:

quella è una quercia che non lascerà mai la terra,

quella è una stella che regge con un filo i tuoi sogni,

 

quella è una casa, tronfia come saggio gufo,

e quella è una mamma che toglie le patate dal tegame.

 

Librerie

 

passeggiare tra le librerie

sfogliare i libri

copertine a colori come donne incinte

difficilmente si armonizzano

gli autori sorridono per le alette

le loro note si gonfiano

milioni di parole come piccoli insetti che conquistano i boschi

mi godo le interiezioni

fisso i titoli

non c’è fine all’insolito errare delle illusioni

i ripiani si piegano sotto il peso di sentenze e idee

la ragazza che cura gli affari ha un’aria annoiata

nelle librerie non c’è più anima

è scomparso quel lieve fruscio irritante dei fogli

che conduceva al vestibolo del paradiso del mistero dell’essere

i libri non profumano

le copertine non aprono i portoni

ciò che si sente stride

ciò che si vede si frantuma come vetro

i libri

giardini trascurati con gli aculei pungenti del biancospino

entro in essi rischiando

e mi divora il selvaggio canto delle pagine

 

Era è passato

 

era è passato

tra era ed è passato una piccola fessura bianca

uno stretto varco una pausa senza significato

eppure tante cose sono avvenute

slanci e cadute di sentimenti

previsioni danzanti nei sogni

incontri al vertice e ai margini del bosco

era ciò che è ardente flessibile in una luce improvvisa

era sciocco insidioso ma pieno di contenuto ignoto

è passato perché non ha tremato nelle fondamenta

piccolo era piccolo è passato

era a lungo

è passato due volte

e in mezzo l’erba secca colpita dalla falce del sole

il convento sul fiume l’inquietante rombo del treno

la ghiaia sottile che scende a valle

 

La passata di prugne

 

E’ il libro della primavera,

aperto da una fetta di pane.

Uno spirito buono

che aziona la lama del coltello.

Si siede sulle labbra

come respiro di una primula,

dorme dolcemente

dalla mattina alla sera.

Se cade sulle dita

per disattenzione,

non scappa –

si arrampica sulla corda della bocca.

 

Morte del poeta

 

Sulla rivista Poesia di Belgrado una breve menzione

sulla morte di Miloš Komadina (1955-2004).

Ricordo questo biondo esile ragazzo,

la cui raccolta del debutto Un normale mattino

mi arrivò nel 1978.

Non conosco le sue vicende di questi anni,

non so con chi si è schierato nella guerra civile.

Trent’anni fa scrisse:

Ho abbattuto un albero verde.

Ho tagliato i rami.

Ho tolto la corteccia.

Ho ricavato le tavole.

Ho trovato dei bravi mastri,

tutta la casa è in agitazione,

fanno la bara per me.

Come suona strano adesso:

Ho trovato i becchini,

Hanno scavato la fossa.

L’hanno messo nella bara della sua poesia

e l’hanno coperta di terra sillabotonica?

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Krzysztof Karasek

10 Mar

 

Krzysztof Karasek

 

 

Poeta, saggista, critico letterario. E’ nato a Varsavia il 19 febbraio 1937. Figlio dell’artista plastico Roman Karasek. Ha frequentato l’Accademia di Educazione Fisica e ha studiato filosofia all’Università di Varsavia. Ha pubblicato più di 20 raccolte di poesie. Il suo debutto poetico risale al 1966 sul mensile Poesia. Ha fatto parte della redazione di prestigiose riviste letterarie e ha ricevuto importanti premi per la sua creazione poetica, benché Karasek mantenga le distanze dai riconoscimenti: «… non importa chi riceve un qualunque premio di poesia. Perfino il premio Nobel può essere motivo di vergogna. Ad esempio si dice che Quasimodo, dopo aver ricevuto il Nobel, che allora avrebbe meritato di più Ungaretti, uscì dalla sala impacciato e quasi scappando. La mancanza di popolarità bisogna guadagnarsela. Io ho lavorato per essa troppo a lungo per rinunciarvi a favore dei premi» – ha confessato un giorno al poeta Jarosław Mikołajewski.

Il grande poeta Zbigniew Herbert (1924 – 1998) elogiò la sua poesia: «Krzysztof Karasek a mio avviso è il poeta di maggior spicco della Nouvelle Vague polacca. La sua è una poesia matura, intellettualmente e letterariamente assai ben costruita. Usando un liguaggio sportivo – egli “ha preceduto di una lunghezza” gli altri poeti della stessa generazione». Ryszard Kapuściński (1932 – 2007), scrittore di profonda cultura, critico e notissimo pubblicista, ha detto: «La poesia di Karasek è altamente creativa e in continuo movimento, con una straordinaria immaginazione esplorativa, alla ricerca del senso dell’esistenza, del mondo, della poesia stessa. La colloco tra le maggiori realizzazioni della poesia polacca contemporanea, e perfino europea». A sua volta il poeta e critico letterario Janusz Drzewucki afferma che un’ampia gamma di voci poetiche e una certa eterogeneità hanno caratterizzato la sua creazione fin dall’inizio: «La lirica di questo autore è da sempre polifonica. Egli si serve di poetiche, stili, idiomi di ogni genere. Sa essere poeta pubblicistico, riflessivo, tradizionale e di avanguardia, sa essere univoco ed equivoco, del mondo circostante lo attira sia l’aspetto fisico che metafisico». Nella prefazione alla raccolta L’assolata tinozza dell’infanzia (2013), il poeta e critico Grzegorz Kociuba ha scritto: «La forza di questo libro è l’intimità, la liricità intesa anche tradizionalmente… Non è soltanto l’ennesima raccolta di un autore contemporaneo, ma è il libro di un grande poeta che non getta le sue parole al vento!». Karasek parla dalla posizione del saggio che conosce la vita, la osserva attentamente e a volte anche argutamente.

Il poeta è affascinato dalla pittura. Nel ciclo I miei pittori, dedicato alla memoria del padre, è attratto in particolare da Paul Cézanne, Claude Monet, Vincent van Gogh, Paul Gauguin, Edward Hopper. Vede la parentela tra pittura e poesia, le visioni pittoriche sono visioni sintetiche del mondo. Per questo nella poesia Lettera a Paul Cézanne scrive: «Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne, è quell’artificiosità che colloca gli oggetti e le cose in una nuova luce». Sia il pittore che il poeta creano composizioni coesistenti, che da una sola concreta prospettiva permettono di osservare il fenomeno descritto o dipinto. La sua gamma tematica è assai ampia. Vale la pena ricordare che una parte delle sue opere poetiche si basa sui sogni, che non necessariamente tratta come visioni incomprensibili, ma come una serie di quadri collegati con la realtà e col subconscio.

Nella sua penultima raccolta La gioiosa conoscenza (2015), emerge la convinzione che il processo di conoscenza del mondo sia una gioia. In una delle sue ultime interviste dichiara: «Ritengo che la gioia della creazione, dell’amore, dell’amicizia e della loro reciproca sperimentazione siano questioni per le quali valga la pena di vivere e forse anche di morire. E’ la manifestazione di qualcosa di sacro, è la gioia come una festa. Ci sono persone che vivono nei cimiteri e altri che vivono per la gioia». Della sua ultima raccolta dal titolo enigmatico E’ giunto un uomo per frustare il mare (2017) dice: «Mi hanno chiesto tante volte il perché di questo titolo, alla fine ho cominciato a rispondere che è così, affinché ognuno possa dire la sua».

In uno degli ultimi incontri con i suoi elettori ha detto: «La vera poesia è il linguaggio che possiede una straordinaria dinamica. Parole incompatibili tra loro trovano il proprio posto, l’ordine è messo in dubbio. La poesia smentisce il nostro concetto di letteratura. In quest’ultima ogni opera ha un inizio, una parte centrale e una fine. In una buona composizione poetica tutto è inizio, parte centrale e fine».

Krzysztof Karasek rivolge una particolare attenzione alla poesia dei giovani. La sua sete di letteratura è inestinguibile. A tale proposito egli afferma: «In generale nella poesia mi incuriosiscono due poetiche. La prima si ha quando un verso è assai benfatto, delicato, accurato come in Herbert o Ungaretti. La seconda si ha quando agisce come se qualcuno ti infilasse nel posteriore un generatore elettrico, quando cioè è dotata di energia e ti elettrizza. Nei giovani la cosa più importante è l’imprevedibilità. Se sono diversi dagli altri. Se hanno una voce personale. E ogni volta che apro la raccolta di un giovane, spero sempre di trovare un nuovo Rimbaud».

 

Poesie di Krzysztof Karasek tradotte da Paolo Statuti

 

Deutsches requiem  (frammento)

Ho visto la maschera mortuaria di Gottfried Benn

le orbite coperte di gesso del tempo

la fronte

che sosteneva il giogo della vita. E la bocca

dove covava ancora una piccola scintilla di rivolta

e di speranza – l’orgoglio deluso

e la dignità sconfitta; l’amarezza del resoconto

di un testimone oculare.

 

Tutta l’anima tedesca è concentrata in quella fronte,

in quegli occhi incavati come vetro in fondo al fiume,

l’anima di Novalis e Hölderlin, di Beethoven

e di Hegel. Mistiche tenebre

versate con ogni attrezzo della materia, e

l’anima nuda collocata nella scura fonte

di una eredità romantica; la cieca ragione

e la biologia impazzita, che crearono la superbia

di Nietzsche e l’amara saggezza di Kant

 

colavano da quella bocca, adesso vuota e sterile

come frammento di paesaggio dissanguato

o sonno di fiume frantumato contro l’orizzonte;

con un solo getto traboccavano dall’esofago

e cadevano ai piedi di un testimone casuale.

 

1982

 

Dalla lettera di Bertolt Brecht al figlio

 

Quando la parola sangue è assente in un verso?

 

La parola sangue è assente in un verso quando il sangue

è sospeso in aria, quando diventa pioggia. Quando le vene

non lo reggono più nell’ardente involucro del corpo e lo

mettono in libertà e nel futuro.

 

La parola sangue è assente, quando il vero sangue si

riversa sulle strade, allora malvolentieri si parla di sangue,

la parola sangue scompare dalle enciclopedie e dai dizionari,

i manuali diventano più pallidi, i giornali si ammalano di

anemia, le pagine di storia scompaiono in circostanze

misteriose, la sintassi diventa oggetto di scherni;

 

la parola sangue diventa antiestetica, non risponde alle

necessità delle convenzioni e delle poetiche, del lessico

e della sintassi, non risponde alle “reali” esigenze della

lingua, mentre l’uomo qualunque non distingue più un fiore

da una ferita da sparo (si dice allora: i papaveri sono fioriti

nel tempo sbagliato – poiché è inverno – oppure:

il succo di pomodoro si è sparso sulla spiaggia di una città

litorale – perché finisce l’estate, e le acque del golfo

si sono tinte di rosso).

 

La parola sangue è assente, quando coloro che hanno fatto

versare il sangue, non parlano più di prezzo, ma soltanto

dei profitti ottenuti grazie a questo sangue.

 

Impara a seguire il seme del sangue nelle pagine dei manuali

di storia e di grammatica, nelle fessure tra le frasi di un verso

irregolare, nelle fessure tra le parole. Impara a leggere dalla

sua presenza e assenza le impronte delle ruote della storia.

Lo schianto delle ossa spezzate e il grido della frase torturata,

che si è iniettata di sangue.

1982

 

Agli animali piace la guerra

 

Agli animali piace la guerra,

il suo sapore, la forza che gira nell’aria.

Gli uccelli muoiono nel suo alito,

annerita la forma e il becco –

scheletro steso sull’aria,

sui tendini del vento.

 

Il polso staccato dall’osso,

le braccia vuote, private di muscoli e vene,

la mano, attraverso cui trapela la forma della luce

la circolazione sanguigna della cenere –

agli animali piace la guerra.

 

In qualche luogo nel folto

si sono rapprese le loro voci beffarde,

la caccia è iniziata,

la battuta si avvicina alla fonte.

Agli animali piace la guerra –

l’uomo va a caccia della propria carne,

lascia a loro l’intangibilità di gesti e sogni,

il sonno sprofonda in un udito ansioso,

di mani che non possono reggere il proprio amore.

 

La mia donna grida nel sonno

non potendo trattenere con le mani sfuggenti

la luce che si spegne.

A lei sembra

che dal giardino arrivino animali a cavallo,

in ordine ansioso

trova nella stanza una volpe, una talpa, una puzzola,

un lupo dorme nel suo letto

e mostra i denti.

1988

 

Desidero un buio splendente

 

O verso, mia unica patria

o patria dell’uccello e patria dell’albero

nelle cui foglie la pioggia

di stelle cadenti segue

la pianura con sguardo smarrito

Quando le nubi scorrono di notte sulla città

esco sul balcone e guardo il cielo

Non vedo le stelle e nemmeno la luna

Non vedo neanche il cielo

Tutto ha coperto

Qualche mano sporca

Tutto

è inondato dal piatto paesaggio

di riflessi filtranti della città

e della neve sporca

Nel chiarore spariscono le forme e la gente

la tenebra uguaglia i loro mondi

muoiono in essa alberi e uccelli

come caduti dalle stelle sull’asfalto

muore in essa perfino l’oscurità

Non è la mia patria, grido

non è la mia casa

 

Sono un buio splendente

 

E se essere un cavallo

 

allora solo giallo come in Gauguin,

oppure fulvo,

come nell’Apocalisse,

con una rosa ponsò all’orecchio,

non il mio

ma del cavallo, come un bicchiere

odorare di vodca e di fienile,

guardare il mondo con gli occhi degli oggetti,

essere un cavallo

giallo

oppure fulvo,

con una rosa ponsò

Eccetera.

 

Ciò si chiama vivere non nel proprio corpo.

 

Consigli per Orfeo

 

la luce rivela la grammatica dell’ombra,

l’oscurità denuda la logica della conoscenza,

la fede ci rimanda al passato.

Vediamo confusamente, nel caos,

il tempo cede, lo spazio si rapprende,

il visibile genera l’invisibile,

l’invisibile apre la pianura

dove camminano Shakespeare e Rimbaud.

Dunque non guardare dietro

la luce è una pioggia scura che bevono i morti,

non dire che non lo sapevi. La gente è ammutita

per questo sapere, con cui tutti, noi stessi

dobbiamo vivere. Il chiarore

è una goccia, lo lecca da sotto le palpebre

la neve mattutina mentre

l’orizzonte, come la riga in mano al pittore

s’incurva. Tua è l’aria,

l’oblio e la sorpresa. E ancora

l’istante, quando passa. Era,

dunque è. Nutriti di esso

ma non guardare, non girarti, proprio lui

ti divorerà, quando a dispetto dei miti

la fisserai. Va’

dove le sirene portano il loro dolce canto,

tieni gli occhi rivolti ai sacri altari, non tremare

quando la disonestà ti bacia la bocca. Guarda

attentamente, fino al più crudele sapere, che ti porti

come eco la volta celeste, il suo bagliore

come gelida luce dell’alba ti abbronzerà il viso.

 

Dalla vita degli insetti

 

E di nuovo, come nell’infanzia

torno nel paese dei grilli.

Sono più vecchio, ma nelle orecchie

risuona sempre

la buona novella.

La conversazione tra di noi

 

ancora non è finita.

 

Il tempo prima e il tempo dopo

dorme negli armadi

e negli orologi.

Niente può cambiare la posizione delle macchie

sulla pelle di leopardo.

Se non vuoi essere selvaggina

diventa cacciatore.

 

Non fare domande

se non conosci la risposta.

Una grande bocca deve avere grandi orecchie.

Forse esiste una farfalla con tre ali,

un naso di guttaperca,

un volto di ceralacca,

ma io non l’ho visto.

 

Quando ero piccolo

andavo in biblioteca

e al libro restituito strappavo

l’ultima pagina

per lasciare spazio alla fantasia

di un lettore sconosciuto.

 

Lui dormiva nel libro.

Lo leggeva a dispetto delle frasi.

In ordine alfabetico si avvicinava

e si allontanava.

Conoscevo il suo nome.

Ma questo non bastava per conoscere la vita.

 

Niente può cambiare la posizione delle macchie

sulla pelle di leopardo.

Per questo permettetemi di andarmene.

 

Sérénité

 

Un rametto di lillà nelle tenebre

rischiara la mia mente.

E’ la mia infanzia angelica,

la malerba diabolica.

Il rullo di tamburo della notte

e lo sciame di api sulla stoppia calpestata,

bellezza e minaccia, cui pensava forse

Breton, quando scriveva le parole:

“la bellezza sarà convulsa

o non sarà”,

esigono l’elegia.

 

Una farfalla si è alzata sulla brughiera

di questa sera

portando su di sé un pulviscolo di luce,

e gli stukas in picchiata sulla strada,

per la quale siamo fuggiti ad Est

e poi di nuovo ad Ovest,

riempivano le mie orecchie come galoppo

dei cavalieri dell’Apocalisse.

 

E’ una pallida sera, quasi notte,

sto sul balcone di casa a Varsavia,

una buia sera di maggio,

fisso le luci che si spengono nei grattacieli

e ricordo quando qui c’era un campo

e vedevo l’aereo che un attimo dopo si schiantò,

trent’anni prima,

e i volti nelle aperture

fissi su di  me

fino ai limiti dello stupore.

 

Cerco di nuovo i segni dell’infanzia

e ricordo l’aurora boreale

in Mazovia,

ancora trenta anni prima,

le ondeggianti tende del cielo,

dei verdi e delle rose.

Nell’aria si leva il profumo dell’assenza,

mi dice: mai più,

e io gli rispondo: non perdere la speranza.

 

Quello stesso profumo richiama gli echi

delle notti di maggio della giovinezza,

quando lo zaino sotto la testa

e qualche spicciolo in tasca

erano il senso

del mondo che franava nel sonno.

 

Sì, ti ricordo o buia sera,

sì, ti ricordo o pallida notte.

O sera, quando il cuore fugge verso l’amore,

o notte, che svuoti la promessa del giorno.

Vedevi come immergo le mani nelle tue acque

e come mi sforzo di afferrare un pesce

che nuota lentamente, ammutito come uccello

nella tua corrente.

 

Ti riconosco o pallida notte,

ti riconosco o buia sera.

 

Quasi vi tocco.

 

2005

 

Seppellito nella pelle d’insetto

 

L’amore è un vecchio canto umano;

è qualcosa di così potente,

che forse mantiene le stelle

nel firmamento.

Ma per amare

ci vuole coraggio.

Ascoltavo i gatti di sera,

cantavano tutti Rossini.

La mollica deve essere tolta,

io mangio soltanto la crosta

disse una certa sapientona.

Più di tutto conta conoscere i propri limiti.

E cercare di superarli.

Non permettere che l’anima

si stanchi prima del corpo.

La felicità consiste nell’avere

una buona salute

e una debole memoria?

Tutto ciò che è perfetto, cresce lentamente.

Abbiamo cominciato con Mozart,

finiamo col “Crepuscolo degli dei”.

 

2008

 

Il Lofoten

 

I morti sottoterra.

I vivi di sopra.

E noi in mezzo.

 

Spogliato del sonno. Domenica delle Palme.

Siedo nella veranda dell’amico Paweł Skrzeczkowski

A Kazimierz sulla Vistola.

Sotto di me il pozzo,

E in esso l’acqua. L’acqua della vita.

Il fumo del sigaro riempie lo spazio

Della mia veduta.

Riempie anche me.

Sospeso in aria come una nuvola

Sul Mercato, volo, navigo.

Fedele ai miei demoni.

 

La danza di una grande pipa.

A ritmo di gavotta.

La musica è matematica, tutto

Proviene da essa.

Mi ripeto la frase di Rameau.

E un’altra, di Ortega y Gasset:

Nessuno può capire il genere umano,

Se non vede che matematica e poesia

Hanno le stesse radici.

 

Purzyc si è comprato una casa nel Lofoten,

A che gli serve?

Lo stesso spazio, spopolato,

Lo trovi sul fondo di una scatola di fiammiferi.

Che c’entra con lo spazio

Del pensiero? Che c’entra

Con lo spazio della mia pipa?

 

Kazimierz e il Lofoten.

Qualcuno cammina

O è sospeso in aria.

E’ un angelo

O il passeggero di un boeing.

I versi uniscono il cielo alla terra,

Ma lo spazio rimane.

 

E il tempo, che stilla dalle mammelle

E dagli orologi.

Non sono mai andato nel Lofoten

E forse non ci andrò mai.

Ma questo nome, questa parola.

Si sogna

Come le Floride incredibili

Nel Battello ebbro di Rimbaud.

In realtà là non ci sono affatto,

le ha immaginate Miriam,

traducendo la poesia,

perché così gli andava.

 

Ebbene. Le Floride incredibili,

Il Lofoten sono piuttosto fantasmi di sogni

Non avverati.

Eppure sono necessari,

se vogliamo vivere

e significare qualcosa.

 

La vecchiaia è nella testa, non nelle gambe.

Ci crescono gli anni, ma né tu né io

invecchiamo. Come quelli che vivono

per abitudine.

Ci crescono i chili.

Scompaiono gli amici.

Cresce l’erba della vita.

 

2009

 

Spiegazione degli ultimi quartetti di Beethoven

                                                                                           A Paweł Mykietyn

 

Per essere folli bisogna avere conoscenze altolocate.

Quando le persone smettono di darsi del lei,

il resto è inevitabile.

 

Ho vissuto tanto da vedere i figli più vecchi dei genitori.

Grazie a ciò mi sono convinto che pensiamo le stesse cose.

Per quanto riguarda il mio lavoro, per esso ho rischiato la vita,

e la mia ragione è depressa.

Questo è Van Gogh.

 

Non c’è storia d’amore più triste

di quella di Giulietta e Romeo.

Morirò come il cigno, cantando

(Bianca dall’Otello).

Perché i nostri sogni sono sempre eterni?

 

Tre sono le streghe: fede,

speranza, amore.

La terza ora, ora delle streghe.

 

Il caso può essere sinonimo di Dio,

quando non permette troppe confidenze.

Must es sein? Must sein.

 

14.03.2012

 

Nasturzi punici

 

Come molti vecchi penso anch’io

che siamo soltanto di passaggio

in un mondo senza Dio.

Mi sputo in faccia quando penso

che mi piacevano un tempo

gli ululati dei poeti americani.

La poesia non è una stronzata.

Qui ogni spettro è l’estratto di un tabù.

Se ti accade di sognare una qualche sillaba,

cessa di battere l’orologio del cuore.

Sento qualcuno che riempie la vasca

tre traverse da qui, e loro dicono

che ho problemi di udito.

In ogni modo tutto ciò che è vero

lo devo a mia madre.

C’è la superstizione che si spegne l’incendio

gettando nel fuoco una salamandra.

Aristotele chiamava i lombrichi i budelli della terra.

Se i poeti, come vuole Platone, sono grilli,

finiremo tutti nelle ortiche.

2016

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

La scuola polacca del radiodramma

7 Mar

 

 

   Lo sviluppo del radiodramma in Polonia ha inizio il 29 novembre 1925 con la trasmissione del dramma Warszawianka (La Varsaviana) di Stanisław Wyspiański. I primi autori di radiodrammi furono scrittori, traduttori e registi, e per la loro realizzazione vennero impiegati i migliori attori e compositori. Nel periodo tra le due guerre troviamo radiodrammi come adattamenti di testi letterari e drammatici, ad opera ad esempio di Leon Schiller, Juliusz Osterwa e Wilam Horzyca, nonché radiodrammi originali, scritti da illustri letterati, quali: Czesław Miłosz, Józef Czechowicz, Bolesław Leśmian, Julian Tuwim, Jarosław Iwaszkiewicz, Sofia Nałkowska, Leopold Staff, Antoni Słonimski, Jerzy Szaniawski e altri ancora.

L’”età matura” del teatro radiofonico polacco si fa coincidere con l’anno 1957 (preceduto dal generale risveglio intellettuale del paese nel 1956), quando venne bandito il primo Concorso Nazionale dopo la guerra per un radiodramma originale. In quella occasione fu scoperto il talento di scrittore radiofonico del poeta Zbigniew Herbert, premiando il suo testo Drugi pokój (La seconda stanza).

Un critico tedesco e traduttore di radiodrammi ricordava così il 1957 nello sviluppo della scuola radiofonica polacca: “Appare evidente che il radiodramma polacco si allontana sempre più dal teatro e si avvicina alla letteratura” – letteratura intesa come “arte della parola”, come innalzamento del suo valore estetico. Non è un caso che a partire dal 1957 sia tanto cresciuto il numero dei poeti che hanno scritto radiodrammi.

Nel dopoguerra la scuola polacca del radiodramma sviluppò un suo proprio modello, ponendosi a fianco di altri generi e stili. Tra le più importanti caratteristiche dei radiodrammi di questo periodo ci furono, da una parte l’apertura alla sperimentazione e alla flessibilità, dall’altra la documentazione della realtà con la difficile situazione dell’individuo. La denominazione “scuola polacca del radiodramma” si deve soprattutto al coraggio, sia dal punto di vista del contenuto, sia formale, alla sensibilità e apertura alla verità psicologica, nonché ai valori morali. Per queste sue caratteristiche il radiodramma polacco diventò uno dei più apprezzati in Europa. Lo sviluppo dell’arte radiofonica fu favorito anche dalla difficile situazione del teatro e soprattutto dall’ostilità politica per una creazione teatrale intellettualmente indipendente. Rifugio per gli autori destinati a essere estromessi dalle scene diventò proprio la radio. Fra i temi trattati dal teatro radiofonico, in particolare negli anni ’70 e ’80, prevalevano l’atteggiamento dell’individuo di fronte alla guerra, le tragedie personali e nazionali e l’emigrazione. Oggetto di particolare interesse dei creatori del radiodramma del dopoguerra è quindi anzitutto l’uomo, le sue concezioni, i dilemmi, le inquietudini, le scelte (spesso assai difficili e non sempre appropriate)…

Paulina Kierzek

 

Nella mia versione esistono i seguenti quattro radiodrammi molto noti in Polonia e in altri paesi, ma non mi risulta che lo siano anche in Italia:

 

Jerzy Szaniawski

Jerzy Szaniawski

 

 

L’orologio di Jerzy Szaniawski (1886-1970), drammaturgo e prosatore.

 

4 personaggi: Il principale (Arten), Jan, l’avvocato, la signora

 

   Trama: Il giovane Jan lavora nella bottega di un orologiaio e viene ingiustamente accusato da quest’ultimo del furto di un prezioso orologio. Apparentemente i sospetti dell’orologiaio sono giustificati e Jan viene licenziato. Anni dopo Jan riceve una lettera da una signora che lo invita a recarsi da lei. E’ la sorella della moglie dell’orologiaio deceduta cinque anni prima. In punto di morte ha chiesto alla sorella di rintracciare Jan e di dirgli che l’orologio lo aveva rubato lei. Particolarmente interessante è il racconto di come la moglie dell’orologiaio sia riuscita astutamente a rubare l’orologio senza destare il minimo sospetto su di sé. La donna aveva un giovane amante e ha rubato per pagare un debito del ragazzo. Arten, ormai vecchio, amava molto la moglie e non sa che lei lo tradiva. Ogni domenica va a visitare la tomba della consorte e le porta i fiori. Venuto a conoscenza della verità, il primo impulso di Jan è quello di mettere subito le cose in chiaro con il suo ex principale e va a trovarlo. Arten è sempre convinto che Jan abbia rubato l’orologio, malgrado ciò Jan rinuncia a svelare al vecchio il comportamento della moglie. Paga quindi il presunto valore attuale dell’orologio e mette i soldi nella cassettina con la scritta: “Per l’ospizio dei vecchi orologiai”. “Lei si stupisce? Per quale motivo dovrei darli a lei? L’orologio non l’ho rubato io!” Il finale altamente drammatico è un capolavoro di psicologia e di originalità.

 

Jerzy Krzysztoń

Jerzy Krzysztoń

 

 

 

Maledetto acquazzone di Jerzy Krzysztoń (1931-1982), drammaturgo e prosatore.

 

2 personaggi: Il signore bagnato, il signore asciutto

 

Trama: Piove a dirotto. Un signore sta all’asciutto sotto una piccola tettoia in grado di riparare una sola persona. Arriva un signore già bagnato. Dialogo tra i due. Il signore bagnato vorrebbe che quello asciutto si spostasse un po’ e permettesse anche a lui di ripararsi, ma l’altro replica che così facendo si bagnerebbero entrambi. Poi propone di ripararsi a turno per una questione di giustizia sociale, di bene comune, di solidarietà nel bene e nel male. I due discutono e litigano adducendo argomenti diversi, offendendosi a vicenda con un crescendo di comicità. Alla fine il signore bagnato, visto che facendo la voce grossa non riesce ad ottenere niente, cambia tattica e comincia a lusingare il signore asciutto, che alla fine commosso dalle parole del primo, gli cede il posto sotto la tettoia. Poi lo invita a casa sua a bere un goccio e ascoltare un po’ di musica, credendo di aver trovato un amico. Ma il signore bagnato una volta raggiunto il suo scopo lo caccia via in malo modo.

 

Stanisław Grochowiak

Stanisław Grochowiak

 

 

 

I capricci di Lazzaro di Stanisław Grochowiak (1934-1976), poeta, drammaturgo, prosatore, saggista

 

8 personaggi: Il nonno, la vecchia, il figlio maggiore, il figlio minore. la nuora, il

prete, il dottore, il chierichetto

 

Trama: In una casa di campagna Jacenty, vecchio terribile, sta morendo, o almeno tutti pensano che sia così. Ma come dice il titolo, il nonno dato per spacciato (Lazzaro) “fa i capricci”. Il prete è già stato da lui cinque volte con il viatico, il dottore chiede di non essere più chiamato “a meno che non muoia”, i figli malgrado siano in pieno raccolto perdono il loro tempo prezioso al suo capezzale. Il nonno dice che non morirà, finché i parenti non giureranno di seppellirlo nella sua vecchia terra oltre il fiume Bug (passata all’URSS dopo la guerra). Il prete cerca di convincerlo e arriva perfino a cedergli la propria tomba che si era riservata nel cimitero della chiesa. Ma il vecchio la rifiuta. Il prete lascia la casa del moribondo dicendo che tornerà soltanto quando il vecchio sarà morto. Improvvisamente da dietro la porta della stanza i parenti sentono che il nonno si sta vestendo, poi comincia ad imprecare perché manca un bottone alla manica, le mutande sono strappate, non trova la cravatta nera e la spilla d’oro…La vecchia e i figli pensano che il nonno si sia deciso finalmente a morire e mandano a chiamare il prete. La porta della stanza si apre con fragore e sulla soglia appare Jacenty. Si lamenta che ha fame, gli duole un dente e ha i capelli lunghi. Il vecchio conferma che non vuol morire. Arriva il prete e tutti scappano temendo una sua scenata, lasciando il vecchio solo. Jacenty dice al prete di volersi recare in parrocchia per dare un’occhiata alla tomba da lui cedutagli. Il prete propone di “ricomprarla” per due fiaschi di vino, che naturalmente il vecchio e il curato berranno insieme.

 

Ireneusz Iredyński

Ireneusz Iredyński

 

 

 

La radio di Ireneusz Iredyński (1939-1985), prosatore, drammaturgo, poeta

 

3 personaggi: Bodzio, Olo, l’infermiera

 

Trama: L’anziano Bodzio e il giovane Olo sono ricoverati da due anni nella stessa stanza di una casa di cura. Apparentemente i due non si sopportano e si scambiano insulti (più Bodzio che Olo). La radio si è guastata e Bodzio suona insistentemente il campanello per chiamare l’infermiera. Quando arriva le dice che deve assolutamente ascoltare la radio. Lei gli promette di portargli la radiolina che è nella stanza del medico. I due continuano ad offendersi reciprocamente. Olo non ha mai ricevuto la visita di nessuno, né alcuna lettera, ma racconta a Bodzio di avere un padre, una madre e che saranno presenti al suo funerale se dovesse morire. Dice che il padre è un grande scrittore, ma lui ha proibito ai genitori di fargli visita, perché la sua vita ormai è lì nella casa di cura e non vuole aver niente a che fare con il loro mondo. In realtà Olo è solo, come del resto lo è Bodzio. L’infermiera tarda a portare la radio e Bodzio è sempre più nervoso e impaziente. Finalmente l’infermiera porta la radiolina. Appena in tempo. Sono le quattro. Lo speaker annuncia: “Vi invitiamo ora all’ascolto di un concerto augurale”. Tra i vari auguri i due ascoltano anche questo: “Ad Aleksander (Olo) Lipaki che si trova nella casa di cura di Zambowice in occasione del compimento del ventesimo anno di età esprimono tutto il loro amore i suoi genitori”.

Bodzio: Sono auguri per te, Olo.

Olo: Bodzio, io non ho famiglia. Sono cresciuto nella Casa del Fanciullo…Lo so…hai mandato tu quegli auguri.

Bodzio: Se li hanno trasmessi vuol dire che hai una famiglia.

 

I quattro testi completi di questi radiodrammi sono a disposizione di eventuali registi interessati a metterli in scena, previo accordo con chi possiede i diritti di autore.

(C) by Paolo Statuti

William Stanley Merwin

29 Ott

 

 

William Stanley Merwin

William Stanley Merwin

 

Nato a New York il 30 settembre 1927, è considerato uno dei più grandi poeti americani contemporanei. E’ anche drammaturgo e traduttore. Buddista praticante. Ha pubblicato più di 20 raccolte di poesie. La prima A Mask for Janus uscì nel 1952 e fu scelta da W.H. Auden per il Yale Younger Poets Prize. Ha ricevuto molti prestigiosi premi, tra i quali per ben due volte il Pulitzer (nel 1971 e nel 2009), e nel 2013 è stato il primo vincitore del Premio Letterario polacco “Zbigniew Herbert”. Tra l’altro ha tradotto il Purgatorio di Dante, i drammi di Euripide e di Lorca, poesie di Neruda e Mandel’stam.

Vive serenamente in una ex piantagione di ananas di diciotto acri, in cima al vulcano spento Haleakala, sulla costa nord-est dell’isola di Maui (Hawaii), dove si batte per la difesa delle foreste pluviali.

Ho scoperto questo straordinario poeta per caso, perché tra gli altri lo ha tradotto in polacco Czesław Miłosz, e lo considero davvero un caso fortunato.

Ecco alcune sue poesie nella mia versione.

 

Distacco

La tua assenza è passata attraverso me

Come il filo attraverso l’ago.

Tutto ciò che faccio è cucito col suo colore.

(1963)

 

Isole

 

Ovunque io guardi tu sei le isole

una costellazione di fiori che respira sul mare

isole montuose con fitte foreste fragranti

i fuochi sull’oceano lucente

il fuoco alla radice

tutta la vita volevo toccare la tua caviglia

correndo verso la sua riva

mi ormeggio a te

io ascolto

io ti vedo tra le le immobili foglie

stagno tra le rocce ti guardano

il sole la luna e le stelle

le cascate dell’isola e i loro echi

sono la tua voce le tue spalle tutta te stessa

e ti giri verso di me coi piedi bagnati di foschia

i fiori gli uccelli i colori

sono il tuo respiro

i fiori volutamente profumano di te

gli uccelli fanno le loro piume

non per volare ma per

sentire il tuo corpo

(1982)

 

Nell’anniversario della mia morte

 

Ogni anno senza saperlo ho trascorso questo giorno

Quando mi saluteranno gli ultimi fuochi

E il silenzio allontanerà

L’instancabile viaggiatore

Come un raggio di stella priva di luce

 

Allora non mi sentirò più

In vita come in un abito non mio

Stupito della terra

E dell’amore di una donna

E dell’impudenza degli uomini

Come oggi che scrivo dopo tre giorni di pioggia

Che sento cantare uno scricciolo e cessare lo scroscio

E che non so dove andare

(1993)

 

Alla luce di settembre

 

Quando tu sei già qui

sembri essere soltanto

un nome che parla di te

che tu sia presente o no

 

e per ora sembra come se

tu fossi ancora estate

ancora la nostra intima

estate senza fine

coi suoi riflessi

bronzei nei freschi mattini

e i tardi petali gialli

del verbasco che oscillano

sui gambi piegati

sulle loro ombre interrotte

lungo il suolo spaccato

 

ma tutti loro sanno

che sei arrivato

le cime dei semi di salvia

gli uccelli sussurranti

non c’è modo di nasconderti

per scoprirti più tardi

 

tu

che voli con loro

 

tu che non sei né

prima né dopo

tu che arrivi

con le prugne blu

cadute nella notte

 

perfetta nella rugiada       (2005)

 

Buonanotte

 

Dormi dolcemente mio vecchio amore

mia bellezza nel buio

la notte è un sogno che abbiamo

come tu sai come tu sai

 

la notte è un sogno lo sai

un vecchio amore nel buio

intorno a te quando vai

senza fine come tu sai

 

nella notte dove tu vai

dormi dolcemente mio vecchio amore

senza fine nel buio

nell’amore che tu sai

(2008)

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

Tomasz Gluziński: Il grande pascolo

23 Mag

 

 

Tomasz Gluziński

Tomasz Gluziński

 

   Nel 2005 la casa editrice “Więź” di Varsavia pubblicò un’antologia poetica di Tomasz Gluziński dal titolo “Il grande pascolo”, contenente poesie tratte da diverse sue raccolte, e con una presentazione del poeta, saggista e critico letterario Krzysztof Karasek. Al riguardo ho trovato in internet questo articolo del poeta, saggista e traduttore Jarosław Mikołajewski (v.nel mio blog), scritto nello stesso anno. Eccolo nella mia traduzione.

 

Un capolavoro dimenticato

 

Una gioia maggiore della scoperta di un nuovo talento, si prova quando si ritrova un’opera ingiustamente dimenticata. La gioia di ricordare e di proporre la poesia di Tomasz Gluziński la dobbiamo alla casa editrice “Więź” e a Krzysztof Karasek, che ha scelto le poesie di questo poeta, corredandole di una sua introduzione.

“Gluziński nacque nel 1924 a Lwów – scrive Karasek. Frequentava la scuola nella stessa strada in cui si trovava quella del suo compaesano di dieci anni più giovane Zbigniew Herbert, solo che dalla parte opposta. La guerra lo cacciò dalla città natale e nel 1950 si stabilì a Zakopane”. Un conciso e colorito curriculum di Gluziński lo troviamo nella sua autobiografia essenziale contenuta nella lettera da lui scritta al poeta Zbigniew Herbert nel 1983. Emerge da essa la figura di un patriota che nel 1944 si arruolò nel 1 Reggimento Alpini, che dopo la guerra cercò la sua dimora nella Bassa Slesia, e infine si creò una famiglia, mettendo per sempre radici ai piedi del Giewont. Sciatore, allenatore delle nazionali femminile e maschile di sci, uomo di forte fibra. “Al partito o altra ignobile organizzazione non appartenevo – scrive nella suddetta lettera – non applaudivo, non sorridevo stupidamente, ho pubblicato un paio di libri e neanche una volta ho consegnato personalmente il manoscritto alla casa editrice, servendomi sempre della posta. Non mi conoscono da nessuna parte, non sanno che aspetto ho”.

“Le mie vicende – rispondeva Herbert – sostanzialmente sono state assai simili (…). Grazie a Te mi sono reso conto di quanto sia inestimabile la solidarietà generazionale – non quella che risulta dalla data di nascita, ma quella che deriva dalla osservanza della lealtà”.

Come poeta Gluziński debuttò nel 1958 sul settimanale “Tygodnik Powszechny”, ha pubblicato 11 raccolte di poesie, è morto nel 1986. “Era – scrive Karasek – una delle personalità di Zakopane, come il pittore Brzozowski, lo scultore Rząsa o il generale Boruta-Spiechowicz – stabile elemento del paesaggio di questa città (…). E’ sepolto nel Vecchio Cimitero, celebre necropoli di Zakopane. “Sciavo – scrive riassumendo ad Herbert la sua vita – al sole, nella nebbia, nelle bufere di neve, sul ghiaccio, giravo sulle creste, sulle vette, nei boschi, e ringraziavo Dio che mi aveva fatto diventare un poeta poco istruito, ma esperto”.

Tomasz Gluziński era un poeta che sperimentava In maniera oltremodo consapevole. Era il poeta della rude denominazione della realtà, degli inattesi paragoni, delle ricerche nello spazio e nella fantasia al tempo stesso, del ridurre il mondo alla sua essenza. C’è nei suoi versi il coraggio di denudare i rituali, l’audacia del linguaggio corrente e dell’arrivare al nocciolo delle cose, senza inutili preamboli.

Scrive giustamente Karasek che Gluziński svolse un ruolo rilevante „nella formazione del linguaggio poetico contemporaneo”, lo indica come un creatore della Nouvelle Vague polacca, così importante per i poeti nati negli anni ’40, nonché per quelli assai più giovani.

C’è nella raccolta “Il grande pascolo”  una ricchezza di poesie indipendenti, subordinate soltanto all’avventura spirituale e alla volontà artistica. Autentiche quando le loro fonti scaturiscono da fatti del tutto privati e a noi nascosti. Questo volume di Gluziński è uno dei dei più grandi eventi letterari del nostro tempo, e anche se il poeta è morto 19 anni fa, ciò non cambia affatto la sostanza delle cose.

(2005)                                                            Jarosław Mikołajewski

 

 

 

Alcune poesie di Tomasz Gluziński tradotte da Paolo Statuti

 

Didascalia

dietro la finestra secondo la stagione molte

foglie o un gran gelo e l’ornamento o

la sua completa assenza determina senza alcun

dubbio sia la topografia sia

l’atmosfera di questo luogo dove al

centro su una comune sedia o meglio

in terra siede una persona di sesso

indifferente di qualsiasi età che subito

a prima vista sembra

soffrire benché non sia affatto

una sofferenza per una malattia e la persona

stessa possa essere sostituita semplicemente

con un modello di cera o di cartapesta ma ecco

man mano che cresce tra le quinte una allegra

melodia eseguita al corno

inglese con l’accompagnamento dell’organo e

di voci umane inarticolate

il viso della figura seduta e tutta la sua

ricurva immobilità subisce

una graduale inevitabile metamorfosi

che si manifesta con la scomparsa delle rughe

all’inizio con un lieve poi sempre crescente

gesticolare tanto che quando si alza

il sipario abbiamo davanti a noi un uomo

maturo dal cranio benfatto e distinto e

il volto sereno e tutta la bella virile

figura dimostra la forza e la risolutezza

propria delle persone abituate a svolgere

determinate funzioni e allora secondo

le circostanze da sinistra o da destra

si apre come sempre una porta ed entra

una persona di sesso indifferente che a prima

vista sembra soffrire ma

non è una sofferenza per una

malattia e la persona può essere sostituita

con un semplice pupazzo di cera o di

cartapesta ed ecco a poco a poco man mano che

si sviluppa l’azione con la crescente

melodia al corno inglese e all’organo

con l’accompagnamento di voci umane

inarticolate i ruoli subiscono una impercettibile

lenta e inevitabile trasformazione e così

tra gli applausi il sipario si abbassa e si alza

più volte e bisogna qui aggiungere ancora

che il dramma si svolge con disinvoltura alla luce

del giorno sotto i nostri occhi

 

1968

 

Cosciente

 

nemmeno la guerra

nessuno porta le armi

semplicemente una marcia

 

quel giorno della partenza di trecentomila

pellegrini per il deserto causò

nel calendario della storia

importanti mutamenti

 

in questa situazione

la poesia

non può più

imitare il cinguettio degli uccelli

non può essere un erbario

né il martirio dell’etimologia

 

tutto ciò che avviene intorno

supera l’immaginazione

e i diari di un’anima sensibile

i libri dei sogni e le metafore abissali

adesso sono tanto necessarie

quanto un sacco di sale versato nel mare

 

l’odierna poesia deve essere

cosciente

e nessuna parola

che cozza contro altre con schianto

come lucenti sfere sul verde

abito della fantasia sarà in grado

di uguagliare lo scricchiolio della sabbia

 

e i sussurri del desiderio

 

1977

 

Al crepuscolo

 

come cavarsela col panorama

 

dipingere tutto come viene

coi salici la nuvola l’erba che appassisce

e la rosea gelatina del sangue

 

come dunque immortalare un bel paesaggio

 

covoni di segala il panico degli uccelli

il pallido azzurro del cielo di settembre

e la nuvola di polvere da sotto lo zoccolo

 

gli sciami di mosche il loro verde lucente

 

le pagnotte da poco freddate

che tra le stoppie giacciono

come pietre campestri

 

e il penultimo riflesso del sole

 

prima che sul freddo candore della fronte

al crepuscolo

striscerà come rame

 

17.09.1975

 

Indomabile

 

cercare di astenersi dalle metafore

dire la verità e soltanto

la verità

l’erba

è verde

la neve è fredda

l’acqua è bagnata

la corda è di canapa

e ognuno ha

i buchi nel naso

 

se tuttavia qualcuno

volesse da queste banali

informazioni trarre

delle conclusioni non resterà deluso

 

perfino l’elenco del telefono

in certe circostanze

può risultare anche

una lettura sconvolgente

 

per confrontare

i numeri

di berlino e di varsavia

del 31 agosto 1939

 

quasi la lista

completa dei boia e delle vittime

 

evitare le metafore

l’erba

è nera la neve è calda

neanche una goccia d’acqua la corda

per appendere e i buchi

nel naso nelle spalle nella

nuca

perché non c’è una

parte del corpo che l’indomabile

immaginazione umana

possa risparmiare

 

1977

 

Indipendenza

 

la mia libertà

si compone

di appena qualche elemento

 

il primo

è l’estraneità dell’odio

che è la schiavitù più crudele

 

il secondo

è la discordanza con l’invidia

questa usurpazione del possesso esclusivo

 

il terzo

la libertà di pensiero

o se si preferisce

la resistenza

alle seducenti e a volte

velenose verità della filosofia

degli ultimi secoli

 

i restanti attributi

non meritano

di essere menzionati

se non si vuole

gracchiare come un qualunque pappagallo

in una qualunque

gabbietta di fildiferro

 

Zakopane 17.07.1983

 

Senza chiacchiere

 

i cani

non imparano mai

l’arte di parlare

vivono

forse troppo poco

 

ma anche così

sono superiori all’uomo

nel trasmettere le intenzioni

senza smorfie e senza chiacchiere

 

una particolare articolazione

di desideri di avvisi d’inquietudini

di curiosità e perfino

di affetto

manifestano perfettamente

con il loro tipico atteggiamento

dal naso alla punta della coda

oppure

coi latrati o mugolando ringhiando

e ancora con un certo

vocalizzo da cani

l’espressione

degli occhi dei cani dimostra in modo

suggestivo una intelligente

sensibilità

e la docilità

estorta con un severo addestramento

è un’ulteriore prova

della smisurata fiducia e

dell’amore del tutto irrazionale

degli animali

per l’uomo

 

Zakopane 26.07.1983

 

Quanto ancora

 

quali esperienze ancora

 

quanti sacrifici occorre subire

per non chiamare i bisogni dello spirito

solo un mercato

per un boccone di pane

 

quanto tempo deve passare

 

per capire che la fame del cuore

si nutre di foraggio della verità

e non di oro

che uccide

 

quanto sangue scorrerà ancora

 

quanto ci spremeremo il cervello

per capire l’origine della bramosia

per sapere

cosa ci duole

 

Zakopane 6.09.1983

 

Solo un filo sottile

                                  A Zbigniew Herbert

 

nei rivoli dell’acquazzone

il cervello si bagna

e nelle paludi marcisce l’erba

ai pensieri rigonfi nessuna pausa

di sonno neanche un istante

soltanto la veglia

 

soltanto dietro il colletto cola la paura

goccia dopo goccia penetra nelle tegole di legno

trapela la minaccia dal vecchio tetto

e il fungo si addentra nei quattro angoli

 

con un tale acquazzone

il torrente romba

e dai monti il granito portato batte

l’acqua si avvicina alla porta

e mille rane nascono nel pozzo

 

dietro la finestra rivoli

niente di più

non c’è più né terra né  cielo

solo un filo sottile di speranza

e una fetta di pane ammuffita

 

Zakopane 8.08.1985

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

Pasqua

24 Mar
La Risurrezione (Icona russa del 1500 circa)

La Risurrezione (Icona russa del 1500 circa)

Duccio di Buoninsegna: La Risurrezione, XIII sec.

Duccio di Buoninsegna: La Risurrezione, XIII sec.

La Risurrezione, Icona greca del XIII sec.

La Risurrezione, Icona greca del XIII sec.

 

 

 

Poesie del tempo di Pasqua tradotte da Paolo Statuti

 

Roman Brandstaetter (1906-1987)

La confessione del Cireneo

Non di mia volontà ho portato la Tua croce ,

Signore.

 

Me l’hanno ordinato.

 

Tornavo a casa dal campo

Dopo il duro lavoro

Ed ero stanco.

 

Quando mi trovavo ai piedi del Golgota

Ho visto dei soldati

E Te,

Che cadevi sotto il peso della croce.

 

Volevo stare alla larga da Te

– Non mi piacciono simili scene –

Ma il centurione mi ha preso per un braccio

E ha gridato:

“Porta quella croce!”

 

Che potevo fare?

 

Ho dovuto.

 

Me l’hanno ordinato.

 

 

 

 

Zbigniew Herbert (1924-1998)

 

Ipotesi su Barabba

 

Che ne è stato di Barabba? Ho chiesto nessuno lo sa

Liberato dalla catena si avviò sulla strada bianca

poteva voltare a destra andare dritto voltare a sinistra

fare una giravolta cantare con gioia come un gallo

Lui Imperatore delle proprie mani e della propria testa

Lui amministratore del proprio respiro

 

Chiedo perché in un certo senso presi parte alla questione

Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo

come gli altri libera Barabba Barabba

Gridavano tutti se solo io avessi taciuto

sarebbe successo esattamente come doveva succedere

 

E Barabba forse tornò alla sua banda

Sui monti uccide in fretta rapina ad arte

Oppure aprì una bottega di vasi

e le mani macchiate di delitti

purifica nell’argilla della creazione

E’ un acquaiolo un mulattiere un usuraio

proprietario di navi – su una di esse Paolo andò dai Corinzi

oppure – ciò che non si può escludere –

è diventato un’apprezzata spia al soldo dei Romani

 

Guardate e ammirate il vertiginoso gioco del destino

o potenze della possibilità o sorrisi della fortuna

 

 

E il Nazzareno

rimase solo

senza alternativa

col ripido

sentiero

di sangue

 

Roger McGough (1937 –         )

Tre chiodi arrugginiti

Mamma, c’è un uomo strano

Che aspetta sulla porta

La sua faccia non mi è nuova

Già l’ho vista qualche volta.

 

Dice che si chiama Gesù

Chiede solo un soldino

Ha dato via tutti i miracoli

E ora è triste il suo destino.

 

Sì penso sia uno straniero

Forse Ebreo o forse Egiziano

Vorrebbe anche un po’ di acqua

Dice che viene da lontano.

 

Devo dargli ciò che chiede

O mandarlo a quel paese?

Bene gli darò 5 centesimi

Dirò che abbiamo molte spese.

 

E con l’acqua che facciamo?

Non darla è una brutta azione

Ma vedessi com’è sporco

Sembra proprio uno straccione.

 

Mamma, chiede sempre acqua

Io gli ho dato le monete

E ho detto che il pozzo è vuoto

Ciò ha calmato la sua sete.

Ha detto: questi piccoli gesti

Per me sono i più graditi

Mi ha dato il suo ritratto firmato

E questi tre chiodi arrugginiti.

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti