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Julian Kornhauser

19 Mar

 

 

Julian Kornhauser

 

 

Poeta, prosatore, critico letterario, traduttore della letteratura serbo-croata, professore di Filologia slava all’Università Jaghiellonica di Cracovia, è uno dei principali rappresentanti della Nouvelle Vague polacca degli anni ’70 e una delle figure di primo piano nella vita letteraria polacca dell’ultimo mezzo secolo. Come critico letterario è ricordato soprattutto nella veste di appassionato difensore dei valori tradizionali della poesia, restando in acceso e ironico contrasto con la generazione dei poeti riuniti intorno alla rivista trimestrale underground “bruLion”, i quali cercavano la libertà come assoluto e propugnavano la rivolta e la contestazione, respingendo la tradizione patriottica e culturale.

E’ nato il 20 settembre 1946 a Gliwice. Il suo debutto poetico risale al 1967 sulla rivista Poesia e sull’Almanacco dei giovani. Dal 1968 al 1975 membro del gruppo Adesso. Negli anni 1981-83 è stato uno dei redattori del mensile Scrittura. Ha pubblicato 18 raccolte di poesia, tre romanzi e numerosi saggi, tra i quali ricordiamo quelli sull’opera di Zbigniew Herbert dal titolo Il sorriso della sfinge.

Fin dalla sua prima sorprendente raccolta Verrà la festa anche per i pigri (1972), dove troviamo inquietanti e fantasmagorici quadri surreali, ispirati dalle visioni di Bruegel e Goya, ha trovato un suo personale linguaggio con l’impiego di un’ampia gamma di mezzi e temi poetici: dalla cronaca di scene di vita a insolite visioni sature di elementi simbolici. E’ rimasto sempre fedele all’idea di letteratura impegnata, dove la poesia è banco di prova del mondo e sensibile apparato di conoscenza dell’uomo.

La sua poesia, che alcuni definiscono anche come “annotazioni sonore della realtà”, è ricca di colori. E’ profondamente personale e sorprendentemente universale. Lirico delicato, sensibile alla bellezza della vita quotidiana, capace di trasformare in materia poetica il ciarpame esistenziale. La sua penultima raccolta Origami si compone di miniature paesaggistiche, annotazioni contemplative e sommesse, dove il poeta cerca di esprimere le impercettibili relazioni tra ciò che è fragile, fugace, e ciò che costituisce l’eterna Natura. Egli riesce sempre ad essere un osservatore raccolto e un acuto pensatore.

Il poeta e critico letterario Bartosz Suwiński scrive: “La poesia di Julian Kornhauser è fragile e delicata come porcellana, è semplice, sobria e coraggiosa, si presta a continue interpretazioni. Essa impiega registri diversi per raccontare poeticamente la realtà. Concede la parola a individui indifesi, esclusi, dimenticati, ed essi a un tratto reclamano dignità. La forza della sua poesia risiede nella franchezza del suo poetare, captando ciò che viene dalla gente, dal mondo. E’ dalla parte dell’uomo. Vede chiaramente e senza pregiudizi. E’ una poesia fatta soprattutto di osservazioni intime, piene di serenità e raccoglimento”.

Penso che Julian Kornhauser, oltre che della propria opera, può essere fiero anche della sua prole: la figlia Agata è la moglie dell’attuale presidente polacco Andrzej Duda, mentre il figlio Jakub, poeta anche lui, è dottore in scienze umanistiche e insegna all’Università Jaghiellonica di Cracovia.

 

Poesie di Julian Kornhauser tradotte da Paolo Statuti

 

Vietnam

                                                                    Ecco il succo rosso scorre sull’erba verde,

                                                                    il succo rosso penetra nella terra nera,

                                                                    e sedici milioni di uomini uccidono…

                                                                    uccidono, uccidono.

                                                                                                             Carl Sandburg

 

Lanciate di più, lanciate più

sogno, in cui non c’è pallottola né fuoco,

in cui il gas è profumo

del paradiso promesso, lanciate più

rami respiranti e trasparenti

frutti, il corpo della giungla è spaccato,

nel fango dei mattini affondano le decisioni

e i rapporti, nella ragazza martoriata

matura il mondo, matura l’uccello

rigonfio, ritagliato dall’Europa e dal progresso,

dall’ora sognata e da un messaggio d’amore,

in entrambe le parti della giungla fiorisce

la benzina, in entrambe le parti del mondo

scoppia il fegato, e l’uomo plasma

di sangue il suo futuro e il suo odio,

non nascono i bambini, le madri non sono più

quelle care signore dalle seriche bianche

mani, e nessuno di questi

intelligenti assassini piange

nemmeno le piante uccise col gas.

 

Poesia

 

La poesia non mi serve per respirare

né per amare, né per mordermi le labbra, per sciogliermi

nella città, per il dolore, per gridare, uccidere. La poesia

non mi serve affatto, mi stringe al collo

con un pugno di carta, gocciola il sangue

secco degli aforismi, gli occhi grigi dei postulati si chiudono,

si aprono, il sordo grido del corteo da dietro

la barricata, che viene alzata, crea

in essa piccole dimore per gli evacuati.

Oh no, la poesia mi guarda come un animaletto

spaventato, sbattete la porta, e andrà a pezzi

la realtà, la modesta stanza di un lirico

naturale, che coltiva la polemica per

tempi migliori. Poesia, sporco asciugamano di albergo

che passa di mano in mano e odora

sempre dello stesso sapone da bucato. Che bello

mantenersi con la morte, che si allena

per le lunghe distanze al Madison Square Garden,

e credere che sia una metafora che assicura

un’onesta immortalità.

 

La pergola

 

Al lavoro vado a piedi

comincio alle sei e mezza

accendo la luce della macchina

se è rimasto il lavoro del giorno prima lo termino

se qualcosa non mi riesce mi innervosisco

smetto riposo penso

ciò che non riesce oggi riuscirà domani

lacune non ci sono

l’uomo come il ferroviere

batte sulla ruota e non chiede perché

come nella vita

il pomeriggio vado nel mio terreno

mi rallegro quando tutto germoglia

dalla pergola vedo l’alveare

 

Colpi

 

Quando il poeta scrive,

scrive per gli altri.

Ma gli altri non si rivolgono a lui,

cercano quelli delle prime pagine dei giornali.

Pieno di odio,

si getta su di loro.

Morde, prende a calci, impreca.

Vuole essere notato,

scrive sempre più furiosamente e di più.

Quanto più a lungo lotta,

tanto meno è per gli altri,

e tanto più è per se stesso.

 

Split

 

Attraverso a piedi la città

di notte, fino al porto.

Cade una calda e fitta pioggerella.

Sento davanti a me soltanto

i passi del mare.

 

La mietitura

 

Leggo le poesie di un nuovo poeta.

Notte, calura estiva, temporale.

Leggo, provando un vago timore

davanti alle sue parole, immensità delle graminacee

silenziosità del mare.

Sento in esse un grido di aiuto, ma

so che ormai non riuscirò a darlo.

Le mie futili parole contro le sue parole.

La mia incertezza e la sua mietitura.

 

Ricordare

 

Hai gli occhi, dunque guarda.

Non perdere neanche una fogliolina di questo mondo,

né un solo nervetto della sua delicata pellicola,

 

guarda e ricorda:

quella è una quercia che non lascerà mai la terra,

quella è una stella che regge con un filo i tuoi sogni,

 

quella è una casa, tronfia come saggio gufo,

e quella è una mamma che toglie le patate dal tegame.

 

Librerie

 

passeggiare tra le librerie

sfogliare i libri

copertine a colori come donne incinte

difficilmente si armonizzano

gli autori sorridono per le alette

le loro note si gonfiano

milioni di parole come piccoli insetti che conquistano i boschi

mi godo le interiezioni

fisso i titoli

non c’è fine all’insolito errare delle illusioni

i ripiani si piegano sotto il peso di sentenze e idee

la ragazza che cura gli affari ha un’aria annoiata

nelle librerie non c’è più anima

è scomparso quel lieve fruscio irritante dei fogli

che conduceva al vestibolo del paradiso del mistero dell’essere

i libri non profumano

le copertine non aprono i portoni

ciò che si sente stride

ciò che si vede si frantuma come vetro

i libri

giardini trascurati con gli aculei pungenti del biancospino

entro in essi rischiando

e mi divora il selvaggio canto delle pagine

 

Era è passato

 

era è passato

tra era ed è passato una piccola fessura bianca

uno stretto varco una pausa senza significato

eppure tante cose sono avvenute

slanci e cadute di sentimenti

previsioni danzanti nei sogni

incontri al vertice e ai margini del bosco

era ciò che è ardente flessibile in una luce improvvisa

era sciocco insidioso ma pieno di contenuto ignoto

è passato perché non ha tremato nelle fondamenta

piccolo era piccolo è passato

era a lungo

è passato due volte

e in mezzo l’erba secca colpita dalla falce del sole

il convento sul fiume l’inquietante rombo del treno

la ghiaia sottile che scende a valle

 

La passata di prugne

 

E’ il libro della primavera,

aperto da una fetta di pane.

Uno spirito buono

che aziona la lama del coltello.

Si siede sulle labbra

come respiro di una primula,

dorme dolcemente

dalla mattina alla sera.

Se cade sulle dita

per disattenzione,

non scappa –

si arrampica sulla corda della bocca.

 

Morte del poeta

 

Sulla rivista Poesia di Belgrado una breve menzione

sulla morte di Miloš Komadina (1955-2004).

Ricordo questo biondo esile ragazzo,

la cui raccolta del debutto Un normale mattino

mi arrivò nel 1978.

Non conosco le sue vicende di questi anni,

non so con chi si è schierato nella guerra civile.

Trent’anni fa scrisse:

Ho abbattuto un albero verde.

Ho tagliato i rami.

Ho tolto la corteccia.

Ho ricavato le tavole.

Ho trovato dei bravi mastri,

tutta la casa è in agitazione,

fanno la bara per me.

Come suona strano adesso:

Ho trovato i becchini,

Hanno scavato la fossa.

L’hanno messo nella bara della sua poesia

e l’hanno coperta di terra sillabotonica?

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Krzysztof Karasek

10 Mar

 

Krzysztof Karasek

 

 

Poeta, saggista, critico letterario. E’ nato a Varsavia il 19 febbraio 1937. Figlio dell’artista plastico Roman Karasek. Ha frequentato l’Accademia di Educazione Fisica e ha studiato filosofia all’Università di Varsavia. Ha pubblicato più di 20 raccolte di poesie. Il suo debutto poetico risale al 1966 sul mensile Poesia. Ha fatto parte della redazione di prestigiose riviste letterarie e ha ricevuto importanti premi per la sua creazione poetica, benché Karasek mantenga le distanze dai riconoscimenti: «… non importa chi riceve un qualunque premio di poesia. Perfino il premio Nobel può essere motivo di vergogna. Ad esempio si dice che Quasimodo, dopo aver ricevuto il Nobel, che allora avrebbe meritato di più Ungaretti, uscì dalla sala impacciato e quasi scappando. La mancanza di popolarità bisogna guadagnarsela. Io ho lavorato per essa troppo a lungo per rinunciarvi a favore dei premi» – ha confessato un giorno al poeta Jarosław Mikołajewski.

Il grande poeta Zbigniew Herbert (1924 – 1998) elogiò la sua poesia: «Krzysztof Karasek a mio avviso è il poeta di maggior spicco della Nouvelle Vague polacca. La sua è una poesia matura, intellettualmente e letterariamente assai ben costruita. Usando un liguaggio sportivo – egli “ha preceduto di una lunghezza” gli altri poeti della stessa generazione». Ryszard Kapuściński (1932 – 2007), scrittore di profonda cultura, critico e notissimo pubblicista, ha detto: «La poesia di Karasek è altamente creativa e in continuo movimento, con una straordinaria immaginazione esplorativa, alla ricerca del senso dell’esistenza, del mondo, della poesia stessa. La colloco tra le maggiori realizzazioni della poesia polacca contemporanea, e perfino europea». A sua volta il poeta e critico letterario Janusz Drzewucki afferma che un’ampia gamma di voci poetiche e una certa eterogeneità hanno caratterizzato la sua creazione fin dall’inizio: «La lirica di questo autore è da sempre polifonica. Egli si serve di poetiche, stili, idiomi di ogni genere. Sa essere poeta pubblicistico, riflessivo, tradizionale e di avanguardia, sa essere univoco ed equivoco, del mondo circostante lo attira sia l’aspetto fisico che metafisico». Nella prefazione alla raccolta L’assolata tinozza dell’infanzia (2013), il poeta e critico Grzegorz Kociuba ha scritto: «La forza di questo libro è l’intimità, la liricità intesa anche tradizionalmente… Non è soltanto l’ennesima raccolta di un autore contemporaneo, ma è il libro di un grande poeta che non getta le sue parole al vento!». Karasek parla dalla posizione del saggio che conosce la vita, la osserva attentamente e a volte anche argutamente.

Il poeta è affascinato dalla pittura. Nel ciclo I miei pittori, dedicato alla memoria del padre, è attratto in particolare da Paul Cézanne, Claude Monet, Vincent van Gogh, Paul Gauguin, Edward Hopper. Vede la parentela tra pittura e poesia, le visioni pittoriche sono visioni sintetiche del mondo. Per questo nella poesia Lettera a Paul Cézanne scrive: «Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne, è quell’artificiosità che colloca gli oggetti e le cose in una nuova luce». Sia il pittore che il poeta creano composizioni coesistenti, che da una sola concreta prospettiva permettono di osservare il fenomeno descritto o dipinto. La sua gamma tematica è assai ampia. Vale la pena ricordare che una parte delle sue opere poetiche si basa sui sogni, che non necessariamente tratta come visioni incomprensibili, ma come una serie di quadri collegati con la realtà e col subconscio.

Nella sua penultima raccolta La gioiosa conoscenza (2015), emerge la convinzione che il processo di conoscenza del mondo sia una gioia. In una delle sue ultime interviste dichiara: «Ritengo che la gioia della creazione, dell’amore, dell’amicizia e della loro reciproca sperimentazione siano questioni per le quali valga la pena di vivere e forse anche di morire. E’ la manifestazione di qualcosa di sacro, è la gioia come una festa. Ci sono persone che vivono nei cimiteri e altri che vivono per la gioia». Della sua ultima raccolta dal titolo enigmatico E’ giunto un uomo per frustare il mare (2017) dice: «Mi hanno chiesto tante volte il perché di questo titolo, alla fine ho cominciato a rispondere che è così, affinché ognuno possa dire la sua».

In uno degli ultimi incontri con i suoi elettori ha detto: «La vera poesia è il linguaggio che possiede una straordinaria dinamica. Parole incompatibili tra loro trovano il proprio posto, l’ordine è messo in dubbio. La poesia smentisce il nostro concetto di letteratura. In quest’ultima ogni opera ha un inizio, una parte centrale e una fine. In una buona composizione poetica tutto è inizio, parte centrale e fine».

Krzysztof Karasek rivolge una particolare attenzione alla poesia dei giovani. La sua sete di letteratura è inestinguibile. A tale proposito egli afferma: «In generale nella poesia mi incuriosiscono due poetiche. La prima si ha quando un verso è assai benfatto, delicato, accurato come in Herbert o Ungaretti. La seconda si ha quando agisce come se qualcuno ti infilasse nel posteriore un generatore elettrico, quando cioè è dotata di energia e ti elettrizza. Nei giovani la cosa più importante è l’imprevedibilità. Se sono diversi dagli altri. Se hanno una voce personale. E ogni volta che apro la raccolta di un giovane, spero sempre di trovare un nuovo Rimbaud».

 

Poesie di Krzysztof Karasek tradotte da Paolo Statuti

 

Deutsches requiem  (frammento)

Ho visto la maschera mortuaria di Gottfried Benn

le orbite coperte di gesso del tempo

la fronte

che sosteneva il giogo della vita. E la bocca

dove covava ancora una piccola scintilla di rivolta

e di speranza – l’orgoglio deluso

e la dignità sconfitta; l’amarezza del resoconto

di un testimone oculare.

 

Tutta l’anima tedesca è concentrata in quella fronte,

in quegli occhi incavati come vetro in fondo al fiume,

l’anima di Novalis e Hölderlin, di Beethoven

e di Hegel. Mistiche tenebre

versate con ogni attrezzo della materia, e

l’anima nuda collocata nella scura fonte

di una eredità romantica; la cieca ragione

e la biologia impazzita, che crearono la superbia

di Nietzsche e l’amara saggezza di Kant

 

colavano da quella bocca, adesso vuota e sterile

come frammento di paesaggio dissanguato

o sonno di fiume frantumato contro l’orizzonte;

con un solo getto traboccavano dall’esofago

e cadevano ai piedi di un testimone casuale.

 

1982

 

Dalla lettera di Bertolt Brecht al figlio

 

Quando la parola sangue è assente in un verso?

 

La parola sangue è assente in un verso quando il sangue

è sospeso in aria, quando diventa pioggia. Quando le vene

non lo reggono più nell’ardente involucro del corpo e lo

mettono in libertà e nel futuro.

 

La parola sangue è assente, quando il vero sangue si

riversa sulle strade, allora malvolentieri si parla di sangue,

la parola sangue scompare dalle enciclopedie e dai dizionari,

i manuali diventano più pallidi, i giornali si ammalano di

anemia, le pagine di storia scompaiono in circostanze

misteriose, la sintassi diventa oggetto di scherni;

 

la parola sangue diventa antiestetica, non risponde alle

necessità delle convenzioni e delle poetiche, del lessico

e della sintassi, non risponde alle “reali” esigenze della

lingua, mentre l’uomo qualunque non distingue più un fiore

da una ferita da sparo (si dice allora: i papaveri sono fioriti

nel tempo sbagliato – poiché è inverno – oppure:

il succo di pomodoro si è sparso sulla spiaggia di una città

litorale – perché finisce l’estate, e le acque del golfo

si sono tinte di rosso).

 

La parola sangue è assente, quando coloro che hanno fatto

versare il sangue, non parlano più di prezzo, ma soltanto

dei profitti ottenuti grazie a questo sangue.

 

Impara a seguire il seme del sangue nelle pagine dei manuali

di storia e di grammatica, nelle fessure tra le frasi di un verso

irregolare, nelle fessure tra le parole. Impara a leggere dalla

sua presenza e assenza le impronte delle ruote della storia.

Lo schianto delle ossa spezzate e il grido della frase torturata,

che si è iniettata di sangue.

1982

 

Agli animali piace la guerra

 

Agli animali piace la guerra,

il suo sapore, la forza che gira nell’aria.

Gli uccelli muoiono nel suo alito,

annerita la forma e il becco –

scheletro steso sull’aria,

sui tendini del vento.

 

Il polso staccato dall’osso,

le braccia vuote, private di muscoli e vene,

la mano, attraverso cui trapela la forma della luce

la circolazione sanguigna della cenere –

agli animali piace la guerra.

 

In qualche luogo nel folto

si sono rapprese le loro voci beffarde,

la caccia è iniziata,

la battuta si avvicina alla fonte.

Agli animali piace la guerra –

l’uomo va a caccia della propria carne,

lascia a loro l’intangibilità di gesti e sogni,

il sonno sprofonda in un udito ansioso,

di mani che non possono reggere il proprio amore.

 

La mia donna grida nel sonno

non potendo trattenere con le mani sfuggenti

la luce che si spegne.

A lei sembra

che dal giardino arrivino animali a cavallo,

in ordine ansioso

trova nella stanza una volpe, una talpa, una puzzola,

un lupo dorme nel suo letto

e mostra i denti.

1988

 

Desidero un buio splendente

 

O verso, mia unica patria

o patria dell’uccello e patria dell’albero

nelle cui foglie la pioggia

di stelle cadenti segue

la pianura con sguardo smarrito

Quando le nubi scorrono di notte sulla città

esco sul balcone e guardo il cielo

Non vedo le stelle e nemmeno la luna

Non vedo neanche il cielo

Tutto ha coperto

Qualche mano sporca

Tutto

è inondato dal piatto paesaggio

di riflessi filtranti della città

e della neve sporca

Nel chiarore spariscono le forme e la gente

la tenebra uguaglia i loro mondi

muoiono in essa alberi e uccelli

come caduti dalle stelle sull’asfalto

muore in essa perfino l’oscurità

Non è la mia patria, grido

non è la mia casa

 

Sono un buio splendente

 

E se essere un cavallo

 

allora solo giallo come in Gauguin,

oppure fulvo,

come nell’Apocalisse,

con una rosa ponsò all’orecchio,

non il mio

ma del cavallo, come un bicchiere

odorare di vodca e di fienile,

guardare il mondo con gli occhi degli oggetti,

essere un cavallo

giallo

oppure fulvo,

con una rosa ponsò

Eccetera.

 

Ciò si chiama vivere non nel proprio corpo.

 

Consigli per Orfeo

 

la luce rivela la grammatica dell’ombra,

l’oscurità denuda la logica della conoscenza,

la fede ci rimanda al passato.

Vediamo confusamente, nel caos,

il tempo cede, lo spazio si rapprende,

il visibile genera l’invisibile,

l’invisibile apre la pianura

dove camminano Shakespeare e Rimbaud.

Dunque non guardare dietro

la luce è una pioggia scura che bevono i morti,

non dire che non lo sapevi. La gente è ammutita

per questo sapere, con cui tutti, noi stessi

dobbiamo vivere. Il chiarore

è una goccia, lo lecca da sotto le palpebre

la neve mattutina mentre

l’orizzonte, come la riga in mano al pittore

s’incurva. Tua è l’aria,

l’oblio e la sorpresa. E ancora

l’istante, quando passa. Era,

dunque è. Nutriti di esso

ma non guardare, non girarti, proprio lui

ti divorerà, quando a dispetto dei miti

la fisserai. Va’

dove le sirene portano il loro dolce canto,

tieni gli occhi rivolti ai sacri altari, non tremare

quando la disonestà ti bacia la bocca. Guarda

attentamente, fino al più crudele sapere, che ti porti

come eco la volta celeste, il suo bagliore

come gelida luce dell’alba ti abbronzerà il viso.

 

Dalla vita degli insetti

 

E di nuovo, come nell’infanzia

torno nel paese dei grilli.

Sono più vecchio, ma nelle orecchie

risuona sempre

la buona novella.

La conversazione tra di noi

 

ancora non è finita.

 

Il tempo prima e il tempo dopo

dorme negli armadi

e negli orologi.

Niente può cambiare la posizione delle macchie

sulla pelle di leopardo.

Se non vuoi essere selvaggina

diventa cacciatore.

 

Non fare domande

se non conosci la risposta.

Una grande bocca deve avere grandi orecchie.

Forse esiste una farfalla con tre ali,

un naso di guttaperca,

un volto di ceralacca,

ma io non l’ho visto.

 

Quando ero piccolo

andavo in biblioteca

e al libro restituito strappavo

l’ultima pagina

per lasciare spazio alla fantasia

di un lettore sconosciuto.

 

Lui dormiva nel libro.

Lo leggeva a dispetto delle frasi.

In ordine alfabetico si avvicinava

e si allontanava.

Conoscevo il suo nome.

Ma questo non bastava per conoscere la vita.

 

Niente può cambiare la posizione delle macchie

sulla pelle di leopardo.

Per questo permettetemi di andarmene.

 

Sérénité

 

Un rametto di lillà nelle tenebre

rischiara la mia mente.

E’ la mia infanzia angelica,

la malerba diabolica.

Il rullo di tamburo della notte

e lo sciame di api sulla stoppia calpestata,

bellezza e minaccia, cui pensava forse

Breton, quando scriveva le parole:

“la bellezza sarà convulsa

o non sarà”,

esigono l’elegia.

 

Una farfalla si è alzata sulla brughiera

di questa sera

portando su di sé un pulviscolo di luce,

e gli stukas in picchiata sulla strada,

per la quale siamo fuggiti ad Est

e poi di nuovo ad Ovest,

riempivano le mie orecchie come galoppo

dei cavalieri dell’Apocalisse.

 

E’ una pallida sera, quasi notte,

sto sul balcone di casa a Varsavia,

una buia sera di maggio,

fisso le luci che si spengono nei grattacieli

e ricordo quando qui c’era un campo

e vedevo l’aereo che un attimo dopo si schiantò,

trent’anni prima,

e i volti nelle aperture

fissi su di  me

fino ai limiti dello stupore.

 

Cerco di nuovo i segni dell’infanzia

e ricordo l’aurora boreale

in Mazovia,

ancora trenta anni prima,

le ondeggianti tende del cielo,

dei verdi e delle rose.

Nell’aria si leva il profumo dell’assenza,

mi dice: mai più,

e io gli rispondo: non perdere la speranza.

 

Quello stesso profumo richiama gli echi

delle notti di maggio della giovinezza,

quando lo zaino sotto la testa

e qualche spicciolo in tasca

erano il senso

del mondo che franava nel sonno.

 

Sì, ti ricordo o buia sera,

sì, ti ricordo o pallida notte.

O sera, quando il cuore fugge verso l’amore,

o notte, che svuoti la promessa del giorno.

Vedevi come immergo le mani nelle tue acque

e come mi sforzo di afferrare un pesce

che nuota lentamente, ammutito come uccello

nella tua corrente.

 

Ti riconosco o pallida notte,

ti riconosco o buia sera.

 

Quasi vi tocco.

 

2005

 

Seppellito nella pelle d’insetto

 

L’amore è un vecchio canto umano;

è qualcosa di così potente,

che forse mantiene le stelle

nel firmamento.

Ma per amare

ci vuole coraggio.

Ascoltavo i gatti di sera,

cantavano tutti Rossini.

La mollica deve essere tolta,

io mangio soltanto la crosta

disse una certa sapientona.

Più di tutto conta conoscere i propri limiti.

E cercare di superarli.

Non permettere che l’anima

si stanchi prima del corpo.

La felicità consiste nell’avere

una buona salute

e una debole memoria?

Tutto ciò che è perfetto, cresce lentamente.

Abbiamo cominciato con Mozart,

finiamo col “Crepuscolo degli dei”.

 

2008

 

Il Lofoten

 

I morti sottoterra.

I vivi di sopra.

E noi in mezzo.

 

Spogliato del sonno. Domenica delle Palme.

Siedo nella veranda dell’amico Paweł Skrzeczkowski

A Kazimierz sulla Vistola.

Sotto di me il pozzo,

E in esso l’acqua. L’acqua della vita.

Il fumo del sigaro riempie lo spazio

Della mia veduta.

Riempie anche me.

Sospeso in aria come una nuvola

Sul Mercato, volo, navigo.

Fedele ai miei demoni.

 

La danza di una grande pipa.

A ritmo di gavotta.

La musica è matematica, tutto

Proviene da essa.

Mi ripeto la frase di Rameau.

E un’altra, di Ortega y Gasset:

Nessuno può capire il genere umano,

Se non vede che matematica e poesia

Hanno le stesse radici.

 

Purzyc si è comprato una casa nel Lofoten,

A che gli serve?

Lo stesso spazio, spopolato,

Lo trovi sul fondo di una scatola di fiammiferi.

Che c’entra con lo spazio

Del pensiero? Che c’entra

Con lo spazio della mia pipa?

 

Kazimierz e il Lofoten.

Qualcuno cammina

O è sospeso in aria.

E’ un angelo

O il passeggero di un boeing.

I versi uniscono il cielo alla terra,

Ma lo spazio rimane.

 

E il tempo, che stilla dalle mammelle

E dagli orologi.

Non sono mai andato nel Lofoten

E forse non ci andrò mai.

Ma questo nome, questa parola.

Si sogna

Come le Floride incredibili

Nel Battello ebbro di Rimbaud.

In realtà là non ci sono affatto,

le ha immaginate Miriam,

traducendo la poesia,

perché così gli andava.

 

Ebbene. Le Floride incredibili,

Il Lofoten sono piuttosto fantasmi di sogni

Non avverati.

Eppure sono necessari,

se vogliamo vivere

e significare qualcosa.

 

La vecchiaia è nella testa, non nelle gambe.

Ci crescono gli anni, ma né tu né io

invecchiamo. Come quelli che vivono

per abitudine.

Ci crescono i chili.

Scompaiono gli amici.

Cresce l’erba della vita.

 

2009

 

Spiegazione degli ultimi quartetti di Beethoven

                                                                                           A Paweł Mykietyn

 

Per essere folli bisogna avere conoscenze altolocate.

Quando le persone smettono di darsi del lei,

il resto è inevitabile.

 

Ho vissuto tanto da vedere i figli più vecchi dei genitori.

Grazie a ciò mi sono convinto che pensiamo le stesse cose.

Per quanto riguarda il mio lavoro, per esso ho rischiato la vita,

e la mia ragione è depressa.

Questo è Van Gogh.

 

Non c’è storia d’amore più triste

di quella di Giulietta e Romeo.

Morirò come il cigno, cantando

(Bianca dall’Otello).

Perché i nostri sogni sono sempre eterni?

 

Tre sono le streghe: fede,

speranza, amore.

La terza ora, ora delle streghe.

 

Il caso può essere sinonimo di Dio,

quando non permette troppe confidenze.

Must es sein? Must sein.

 

14.03.2012

 

Nasturzi punici

 

Come molti vecchi penso anch’io

che siamo soltanto di passaggio

in un mondo senza Dio.

Mi sputo in faccia quando penso

che mi piacevano un tempo

gli ululati dei poeti americani.

La poesia non è una stronzata.

Qui ogni spettro è l’estratto di un tabù.

Se ti accade di sognare una qualche sillaba,

cessa di battere l’orologio del cuore.

Sento qualcuno che riempie la vasca

tre traverse da qui, e loro dicono

che ho problemi di udito.

In ogni modo tutto ciò che è vero

lo devo a mia madre.

C’è la superstizione che si spegne l’incendio

gettando nel fuoco una salamandra.

Aristotele chiamava i lombrichi i budelli della terra.

Se i poeti, come vuole Platone, sono grilli,

finiremo tutti nelle ortiche.

2016

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Stanislaw Baranczak, Ryszard Krynicki, Adam Zagajewski

7 Lug

poeti della nouvelle vague polacca („Nowa Fala”)  tradotti da Paolo Statuti

 

Stanisław Barańczak (1946)

 

Perché restate lì

Stanislaw Baranczak

Donne mature,

vecchiette, pensionati:

perché vi siete eretti

a muro di quel palazzo,

nel cui anello di mattoni

è montato il brillante

della vetrina: “LA CARNE”?

Perché quel muro,

quel coro di tragedia,

per quale senso comune,

generale e necessario,

legato alla fila

di lontana memoria?

Perché insistete

un giorno dopo l’altro,

a chi date l’esempio

con quei vostri occhi spenti?

Quale legge difendete

col vostro muro

di volti ottusi?

Per quale nebbia,

per quale stolta pena,

dalle quattro di mattina,

come condannati al muro,

pensate che dalla nebbia

arrivi in tempo la grazia?

 

Perché restate,

non so cosa c’è dietro

a tutta questa storia,

o donne stremate e scialbe,

o miei pensionati ingobbiti,

là contro il muro

spinti da una speranza

invisibile,

là contro un senso oscuro –

oscuro, eppure anche mio,

e anch’io sto lì per esso,

a costo di lacerarmi,

spezzarmi, fuggire via,

 

sì, anch’io, nel coro

silenzioso e stanco.

 

 

Guardiamo la verità negli occhi

 

guardiamo la verità negli occhi: negli assenti

occhi di qualcuno urtato per caso

che passa col bavero alzato; nei rappresi

occhi rivolti all’orario delle partenze

dei treni a lungo raggio; nei miopi

occhi accostati alle righe dei giornali;

negli occhi lavati in fretta la mattina

da un sogno indocile, in fretta liberati

di giorno da lacrime indocili, in fretta

coperti con monete, perché anche la morte

è indocile, troppo incalza nei vicoli ciechi

delle orbite; quindi tutto cediamo

di noi a questi sguardi, restiamo all’altezza

degli occhi, come una scritta sul muro, osiamo guardare

la verità negli occhi grigi, così insistenti,

che sono dovunque, inchiodati alla strada sotto i piedi,

incollati a un manifesto e fissi alle nubi;

e benché sotto di noi mai si pieghino

le gambe, questo solo riuscirà a metterci

in ginocchio.

 

1970

 

 

Se proprio devi urlare, fallo sottovoce

 

Se proprio devi urlare, fallo sottovoce (le pareti

hanno

le orecchie), se proprio devi fare all’amore,

spegni la luce (il vicino

ha

il binocolo), se proprio devi

alloggiare, non sbarrare la porta (il potere

ha un mandato),

se proprio

devi soffrire, fallo a casa tua (la vita

ha

i suoi diritti), se

proprio devi vivere, limitati in tutto (tutto

ha

i suoi limiti)

 

N.N. comincia a porsi domande

 

Parlare una lingua, in cui la parola “sicurezza”

desta il brivido dell’orrore, e la parola “verità” è

il titolo d’un giornale, le parole “libertà” e

“democrazia” sono soggette per motivi di servizio

a un generale di polizia;

com’è accaduto, che abbiamo cominciato

a scherzare con questo. Con questi giochi di parole. Calembour,

papere, capovolgimenti di significato,

con questa poesia linguistica.

Vivere in tempi pieni d’incessante ammiccamento,

d’occhiatine eloquenti, di moniti col dito

alzato (non posso farci niente,

lei capisce), di pacche sul ginocchio

sotto il tavolo presidenziale (in privato la compatisco,

compagno), di cordiali abbracci

dei delatori di ieri;

che cosa insomma ci succede, che continuiamo

a scherzare con questo. Con questi gesti di rito, segni

d’intesa. Svaghi movimentati all’aria più aperta,

con questa ginnastica artistica.

Vivere su un territorio “detto giustamente il nostro campo”,

dove un piatto di carne alla luce di recentissime

ricerche risulterebbe nocivo,

dove ogni aumento dei prezzi significa

benessere che aumenta, dove di tutto hanno colpa gli Ebrei,

che non ci sono (il grosso l’ha sistemato il gas, il resto un

                                                                    quarto di secolo dopo

i giornali), dove come ad Atene fioriscono le accademie

poliziesche e dove la scheda nell’urna getta,

senza nemmeno guardarla, quasi il 100% del popolo,

inclusi gli infermi negli ospedali, i detenuti

e qualche defunto;

che cosa insomma ci costringe a scherzare

continuamente con questo? Con questi logici enigmi?

                                                                     Con tutti questi

brillanti paradossi? Con questi cruciverba intellettuali?

Eh?

 

13.11.79: Elegia seconda, genetliaca

 

                       Dal compleanno mi tengo

                       lontano e sulle dita

              conto i miei trentatré anni, compiuti

                       alla svelta e a tirar via

   come un lavoro urgente che non mi è mai piaciuto

                        perché mi metto la mano

                        sul cuore e riconosco: non

               mi aspettavo affatto proprio questa vita,

                        proprio questa e nessun’altra,

   quando a suo tempo venni al mondo. A dirla schietta,

                          se si tratta della vita,

                          non ho un’opinione

                foggiata dall’uso corrente, né un cassetto

                          che scorra liscio su e giù,

   con il quale poter chiudere ermeticamente

                           la bocca ai dubbi; alle mie

                           opinioni – secondo me –

                 manca la destrezza, manca l’urbanità,

                           che agevolano la vita

   nei suoi momenti seri, ad esempio nel momento

                            della morte. La parola

                            estrema è di chi n’è certo,

                 di chi risoluto afferma: “il più importante

                            è sopravvivere”, oppure

   “la vita ha i suoi diritti”, oppure (meglio ancora)

                            “la vita è la vita”; nelle

                            mie opinioni non c’è traccia

                  alcuna della certezza, che realmente

                             la vita (propria) è importante

   e che ha  i   s  u  o  i   diritti, e che inoltre è 

                             la vita e non qualcos’altro;

                             non sono certo della mia

                   vita, non sono certo di me stesso, non so

                             neppure se sento la fossa 

   certa sotto i piedi, già, incerto è perfino

                             il paternoster (mai sono

                             riuscito a impararlo bene

                     né a dirlo difilato come un robot,

                              senza sosta mi ha schiacciato

   questo globo di ghisa , è così arduo sollevarlo

                                fino ai certi bordi del cielo,

                                vola e porta coccinella

                      di pane certo una mollichella, no, tuttora

                                 non so come dire questo

   con voce certa e piena, dove troverei una tale

                                  voce, se la gola ancora

                                  duole dopo il primo grido,

                        quello di trentatré anni fa) ; no, non sto

                                   sopra un terreno certo, sto

   sulla mobile sabbia, che misura il mio, il nostro tempo

Ryszard Krynicki

 

Ryszard  Krynicki  (1943)

 

 

La nostra vita cresce

La nostra vita cresce come lo sgomento e la paura,

la nostra vita cresce come la fila per il pane;

la nostra vita cresce come erba, come polvere e muschio

come ragnatela, come brina e coltura di muffa,

la nostra vita cresce implacabile come la tosse e la risata;

a prescindere da guerre, tregue dei negoziati,

distensione, variazioni di clima, ONU,

sfruttamento segreto e palese tirannia,

spocchia di nere limousine e di gelidi giudici,

servitori dell’infamia, sudditi della nullità,

oggetti smarriti e sogni plastici,

giornali velenosi e trapianti di cuore,

trattati segreti e palese menzogna,

dileggio delle nostre reliquie,

inquinamento dell’atmosfera e terremoto;

la nostra vita cresce irresistibile, nelle macerie

e attraverso il sonno più profondo,

al di sopra di noi, intorno a noi e attraverso di noi, che siamo

i suoi prodighi figli,

la nostra vita cresce come il celato aumento dei prezzi, la

science fiction,

come la pressione sanguigna, gli imperi della finzione,

la paura di far tardi al lavoro o di guardare negli occhi;

la nostra vita cresce come il feto e come la fame,

la nostra vita cresce come la flora e la fauna

ma la nostra vita non cresce come l’odio, la brama di ritorsione

o la sete di vendetta

e anche quando non sa cosa vuole,

la nostra vita vuole vivere

da uomo

1978

 

 

 

Dicendo

 

Dicendo: – Come posso lottare

per i diritti umani

se ho moglie e figlio

tu stesso li condanni a una pena,

la cui misura non conoscono

neppure i carnefici.

1981

Cosa vai sognando

 

Poveretta, cosa vai sognando,

quale forza?

Sono forse la sua prova le prigioni:

nella più grande di esse non sfuggirai

al più piccolo pericolo.

Possono forse dartela la polizia e le forze armate:

contro chi le manderai,

se non contro te stessa?

1978

 

Anche

 

Le nuvole liberamente varcano i confini

e violano lo spazio aereo del paese limitrofo,

le onde marine scorrono

in acque territoriali altrui,

la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo

si piega alle costituzioni,

le costituzioni sono meno pratiche

dei codici penali:

da quando negli stati polizieschi

si è decretata la tutela dell’ambiente naturale,

anche il destino della natura

sembra essere pregiudicato

1978

La lingua, questa escrescenza carnosa

 

Al Signor Zbigniew Herbert                                                   

                                                            e al Signor Cogito

la lingua, questa escrescenza carnosa che cresce nella ferita,

nell’aperta ferita della bocca, che si ciba di falsa verità,

la lingua, questo cuore scoperto, nuda lama

indifesa, questo bavaglio che soffoca

la nascita delle parole, questa bestia addomesticata

coi denti umani, questo elemento disumano che cresce in noi

e ci sovrasta, questa bandiera rossa che sputiamo

col sangue, questo bìfido che accerchia, questa

vera menzogna che abbaglia,

questo fanciullo, che imparando il vero, veracemente mentisce

1975

Libri, quadri

 

Libri, quadri, una collana di ambra,

l’alloggio, se vivremo abbastanza,

lo sguardo del cielo e una goccia di rugiada,

una conchiglia tigrata, il passaporto, la memoria,

una patria umana senza esercito e frontiere,

gli anelli nuziali, le fotografie, i manoscritti,

cinque litri di sangue (in tutto: dieci), la fame,

le aurore serali e il dono del mattino,

tutto possiamo perdere,

tutto è possibile toglierci

tranne le indipendenti,

anonime parole,

anche se ci hanno solo attraversato,

tranne la santa parola, che benché

annotata nel ghiaccio delle lingue morte

riuscirà un giorno a risuscitare.

1978

Non serve

 

Non serve cercare,

da soli si ritrovano, gli schiavi,

inclini a esercitare quel potere

che su di noi

può avere soltanto l’amore

e una malattia mortale.

1978

Quasi come

 

No, non come in un sogno: quasi come

sulla strada di una città sconosciuta,

dove non ti troverai mai più,

rammenti parole e indirizzi,

ne sono rimasti così pochi:

muto telefono, muta neve,

tracce di piè di porco sulla porta –

cosa si riuscirà a salvare?

Due frasi, il numero di casa,

non sprecarli, conservali

per i momenti difficili.

Va’, non guardarti intorno.

Guarda attentamente avanti.

1985

Rue de Poitiers

 

Tardo pomeriggio, nevicchia.

Non lontano dal Musée d’Orsay in sciopero

si vede un grigio fagotto sul marciapiede:

un barbone raggomitolato (o un migrante

da un paese dove infuria la guerra civile)

disteso sulla grata, imbacuccato nella coperta,

sacco a pelo di fortuna e diritto alla vita.

Ieri aveva ancora il transistor acceso.

Oggi le monete che infreddiscono formano sul giornale

costellazioni di pianeti e lune inesistenti.

(Novembre 1995)

Tornando da Assisi

 

Giotto storpiato. Un chiassoso: Silenzio!

Da un veicolo per il trasporto di animali

sorpassato sulla strada

mi accompagna lo sguardo

smarrito di un vitello

condotto al mattatoio.

Aiutalo, san Francesco.

Appari davanti alla porta del macello.

E se ora sei occupato,

manda

fra Silvestro

o il lupo di Gubbio.

(1 agosto 2003)

 

Macchine da scrivere

 

conosco posti

che possiedono macchine da scrivere

che si trasformano (secondo

la situazione) in altoparlanti di registratori, in apparati

d’intercettazione, nella perversa

pianta detta drosera (oppure donna), o infine

in tritacarne

il poeta (di solito è un patito della poesia del sangue e della

terra,

ossia un c.d. poeta nazionale)

grazie a tale macchina da scrivere

risponde esattamente alle esigenze del momento:

basta che nella sua macchina macini una porzione giornaliera

di giornale, la propria madre,

un bambino di altri o suo

oppure la moglie sua o di altri

conosco altresì qualche poeta metafisico

(tra essi anche alcuni surrealisti)

che si muovono in aiuto delle bocche di altri

(oggigiorno le bocche sono ali involute)

1975                            dal volume: “Organismo collettivo”

Nuovo foraggio

 

Il problema di cosa fare coi vecchi

giornali – sembra risolto. Uno scienziato

americano, il dr. David Dinius, ha sperimentato che

i giornali mischiati a soia, vitamine ecc., diventano

un ottimo foraggio

per le vacche. Come sostiene lo scienziato, una sola

vacca americana

può consumare più di 80 pagine al giorno

di giornali tagliati a strisce, prescindendo dalla lingua

in cui il giornale è scritto. Il nuovo metodo di alimentazione

riduce il costo di mantenimento degli animali e, al tempo stesso –

dice il dr. Dinius –

rappresenta un contributo alla soluzione del problema

dell’inquinamento delle città, a tale riguardo scienziati di tutto

il mondo

meditano sulla possibilità di nutrire gli animali anche

con televisori, automobili e acciaierie.

marzo 1971                        dal volume: “Organismo collettivo)

Adam Zagajewski  (1945)

 

Il fuoco

 

Sono forse un comunissimo borghese

che difende i diritti d’ognuno, la parola libertà

intendo senza straordinarie restrizioni

di classe, ingenuo politicamente, di media

istruzione (brevi attimi di chiarezza

sono il principale alimento), ricordo

l’ardente appello di quel fuoco, che secca

le avide labbra della folla e poi brucia

i libri, carbonizza la pelle delle città, cantavo

anche quelle canzoni, so come è stupendo

correre assieme agli altri, più tardi resterò solo,

in bocca ho il sapore della cenere e sento

della menzogna l’ironica voce, urla il coro

e io mi tocco la testa là sotto le dita

il cranio ricurvo – della mia patria il duro lembo.

 

I filosofi

 

Finitela d’ingannarci o filosofi

il lavoro non è la gioia l’uomo non è il fine ultimo

il lavoro è sudore mortale Dio quando torno a casa

vorrei dormire ma il sonno non è che la cinghia di trasmissione

che mi porge al giorno che segue e il sole è una falsa

moneta al mattino squarcia le mie palpebre saldate come prima

della nascita le mie mani sono due sfruttati e neanche

le lacrime mi appartengono prendono parte alla vita pubblica

come oratori con le labbra screpolate e il cuore che

si è risaldato al cervello

il lavoro non è gioia ma dolore incurabile

come malattia della coscienza aperta come nuove borgate

per le quali con alti stivali di pelle

passa il cittadino vento

 

*  *  *

 

ma non vedi

ma non ti accorgi

quale rabbia regna nelle nostre case

nelle nostre strette case zeppe di mobili

e di figurine di ceramica

le figlie troppo a lungo vivono con le madri

i figli troppo a lungo restano in casa

non hai notato che così non possono levarsi i canti

i canti esigono la libertà il passo lieve

del vento e occorre che qualcuno scherzi quando gli altri cantano

non hai notato come stona l’Internazionale nei saloni

forniti di soffici ovattate poltrone

com’è sordo il suo suono

e come echeggiava una volta nelle piazze

e nelle gole dei grandi cortei

quando sbriciolava i muri dei palazzi borghesi

ma le città si risveglieranno

di nuovo echeggeranno i canti

 

Non permettere alla concentrazione di sciogliersi

 

Non permettere alla concentrazione di sciogliersi

Lascia che immobile duri l’istante fulgente

anche se finirà il foglio e la fiamma lampeggiante

Ancora non riusciamo a coglierci

lento come il dente del giudizio cresce il sapere

Ancora troppo in alto sulle bianche porte

è segnata la statura dell’uomo

Da lontano giunge l’allegra voce d’una tromba

e rannicchiata come gatto che dorme una canzone

Ciò che passa non si tramuta in vuoto

Di continuo nuovo carbone nel fuoco getta il fochista

Non permettere alla concentrazione di sciogliersi

In un asciutto resistente tessuto

la verità devi fissare

 

 

 

Silenzio

 

Anche in una grande città cala

a volte il silenzio e lungo il marciapiede

si sentono, spinte dal vento,

avanzare le foglie dell’anno scorso,

nel loro interminabile cammino

verso la distruzione.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti