Un classicista del XX secolo
Zbigniew Herbert, poeta, drammaturgo e saggista, nato il 29 ottobre 1924 a Lwów e morto a Varsavia il 28 luglio 1998, è senza dubbio uno dei più illustri protagonisti della storia della poesia polacca del dopoguerra, e uno dei più conosciuti e letti oltre i confini della Polonia. Ha ricevuto infatti importanti premi internazionali, tra cui ricordiamo: Nikolaus Lenau (1965), G. Herder (1973), Gerusalemme (1990), ed è stato tradotto in diverse lingue: tedesco, inglese, ceco, olandese, svedese, italiano a cura di Piero Marchesani.
Debuttò nel 1956 con la raccolta “Corda di luce”, cui fecero seguito “Ermes, il cane e la stella” (1957), “Studio dell’oggetto” (1961), “Epigrafe” (1969), “Il signor Cogito” (1974), “Rapporto dalla città assediata” e altri versi (1983), “Elegia per l’addio” (1990), “Rovigo” (1992) e “Epilogo della tempesta” (1998). E’ autore anche di drammi e di bellissimi saggi sull’arte, come ad esempio quelli raccolti nel volume “Un barbaro nel giardino” (1962), ambientato in Italia.
La creazione di Herbert ha svolto un ruolo essenziale nel rinnovamento della poesia, alla ricerca di nuovi modi di descrivere la drammatica situazione dell’uomo moderno. Sensibile ai conflitti morali della nostra epoca, essa si serve spesso della metafora e della parabola, ricorrendo alla mitologia, alle opere d’arte, ai fenomeni naturali, ai personaggi storici e letterari dai valori simbolici. Abbina in sé il rispetto per la tradizione culturale europea con la modernità dei mezzi d’espressione, gli interessi filosofici con la semplicità poetica della lingua, l’etica e la problematica esistenziale con l’ironia e il senso dell’umorismo. Tra le sue opere più riuscite va annoverata senz’altro la raccolta “Il signor Cogito”, il cui protagonista vive i problemi fondamentali di questa poesia e viene presentato con un distacco moderatamente scherzoso, che elimina il patos e – paradossalmente – accresce il ruolo del messaggio morale contenuto in questi versi. Il carattere intellettuale della poesia di Herbert, la sua erudizione, i legami con la tradizione, nonché il genere specifico di tragicità e il senso della misura, hanno indotto una parte della critica ad inquadrarla nel neoclassicismo del XX secolo.
Particolarmente interessante è il rapporto del poeta col mondo degli oggetti. Secondo Herbert, tutto possiede una qualche propria identità. Tutto è ricolmo di contenuto e di significato. Anche la materia, a suo modo, è imbevuta di spiritualità, ma in ogni caso essa è un mistero e costituisce una barriera al di là della quale l’uomo colloca il mondo delle proprie aspirazioni e dei propri desideri. Forse – dice il poeta – l’oggetto più bello è quello che non esiste. Esso non serve a niente, non si lascia verificare in modo fisico, e quindi non si può metterne a nudo l’imperfezione. E’ un concetto ideale e non soggiace né alla temporaneità, né alla distruzione.
L’uomo deve conciliarsi col suo destino e con la missione che deve svolgere nella storia della creazione. Si tratta dell’ordine morale, del diritto naturale scritto negli strati più profondi della psiche umana; si tratta della sincerità e del coraggio di ammettere che si è soltanto uomini. E non è poco esserlo. Una simile tesi è racchiusa nella creazione di Zbigniew Herbert, spesso ardua, tagliente, ironica, piena di rigore interno, ponderosa nel suo appello racchiuso nelle ultime parole della poesia “Il sermone del signor Cogito”:
Sii fedele va’.
Poesie di Zbigniew Herbert tradotte da Paolo Statuti
Il ritorno del proconsole
Ho deciso di tornare alla corte di cesare
ancora una volta proverò se è possibile viverci
potrei restare qui nella remota provincia
sotto le foglie del sicomoro piene di dolcezza
e il mite governo dei malaticci nepoti
quando tornerò non intendo cercare meriti
offrirò una parca dose di applausi
sorriderò di un’oncia aggrotterò le ciglia con discrezione
non mi daranno per questo una catena d’oro
questa di ferro deve bastarmi
ho deciso di tornare domani o dopodomani
non posso vivere tra le vigne tutto qui non è mio
gli alberi sono senza radici le case senza fondamenta la pioggia
è vetrosa i fiori odorano di cera
un’arida nube bussa sul cielo deserto
in ogni caso tornerò dunque tornerò domani dopodomani
bisognerà di nuovo intendersi con il volto
con il labbro inferiore perché sappia reprimere lo sdegno
con gli occhi perché siano idealmente vuoti
e con il povero mento lepre del mio volto
che trema quando entra il capitano delle guardie
di una cosa sono certo non berrò il vino con lui
quando accosterà la sua ciotola abbasserò gli occhi
e fingerò di estrarre dai denti le tracce del pasto
cesare del resto ama il coraggio civile
entro certi limiti entro certi ragionevoli limiti
in fondo è un uomo come tutti gli altri
e ne ha abbastanza dei trucchi col veleno
non può bere a sazietà incessanti scacchi
la coppa a sinistra per Druso nella destra bagnare le labbra
poi bere soltanto acqua non staccare gli occhi da Tacito
uscire in giardino e tornare quando già hanno portato via il corpo.
Ho deciso di tornare alla corte di cesare
spero proprio che in qualche modo ci intenderemo
Perché i classici
Ad A. H.
1
Nel quarto libro della Guerra del Peloponneso
Tucidite racconta la storia della sua fallita spedizione
tra i lunghi discorsi dei condottieri
le battaglie gli assedi la peste
la fitta rete d’intrighi
di brighe diplomatiche
questo episodio è come un ago
in un bosco
la colonia ateniese di Amfipolis
cadde nelle mani di Brazydas
perché Tucidite tardò a soccorrerla
pagò per questo alla città natale
con l’esilio a vita
gli esuli di ogni tempo
sanno quale prezzo sia
2
i generali delle ultime guerre
se accade un impiccio simile
guaiscono in ginocchio davanti ai posteri
elogiano il proprio eroismo
e l’innocenza
incolpano i subalterni
i colleghi invidiosi
i venti sfavorevoli
Tucidite dice soltanto
che aveva sette navi
era inverno
e navigava velocemente
3
se tema di un dramma
sarà una brocca infranta
una piccola anima infranta
con una grande compassione di sé
ciò che resterà dopo di noi
sarà come il pianto degli amanti
in un lurido alberghetto
quando spunta la tappezzeria
Rapporto dal paradiso
In paradiso una settimana lavorativa dura trenta ore
gli stipendi sono più alti i prezzi calano sempre
il lavoro fisico non stanca (effetto di una minore gravitazione)
spaccare la legna è come scrivere a macchina
l’ordinamento sociale è stabile e il regime ragionevole
davvero in paradiso è meglio che in qualsiasi altro paese
All’inizio doveva essere diverso –
cerchi luminosi cori e gradi di astrattezza
ma non si è riusciti a separare completamente
il corpo dall’anima e veniva qui
con una goccia di grasso attraverso una fibra dei muscoli
è stato necessario trarre le conclusioni
mischiare il seme dell’assoluto con il seme dell’argilla
ancora un abbandono della dottrina l’ultimo abbandono
soltanto Giovanni l’aveva previsto: risorgerete con il corpo
Pochi guardano Dio
è solo per quelli di aria pura
gli altri ascoltano i comunicati sui miracoli e i diluvi
con il tempo tutti guarderanno Dio
quando ciò avverrà non lo sa nessuno
Per il momento il sabato a mezzogiorno
le sirene muggiscono dolcemente
e dalle fabbriche escono azzurri proletari
sotto il braccio portano goffamente le ali come violini
Mamma
Pensavo:
non cambierà mai
sempre aspetterà
col suo abito bianco
e gli occhi azzurri
sulla soglia di tutte le porte
sempre sorriderà
mettendosi la collana
finché di colpo
il filo si spezzò
adesso le perle svernano
nelle fessure del pavimento
la mamma ama il caffè
la calda stufa
la quiete
siede
si sistema gli occhiali
sul naso affilato
legge una mia poesia
e con la testa grigia disapprova
colui che è caduto dalle sue ginocchia
serra la bocca tace
dunque un mesto colloquio
sotto la lampada fonte di dolcezza
o dolore non assopito
da quali pozzi egli beve
per quali strade cammina
figlio diverso dalle attese
l’ho nutrito con un latte benigno
l’inquietudine lo brucia
l’ho lavato nel caldo sangue
ha le mani fredde e ruvide
lontano dai tuoi occhi
trafitti dal cieco amore
è più facile subire la solitudine
tra una settimana
nella fredda stanza
con un nodo in gola
leggo la tua lettera
nella lettera
i caratteri sono staccati
come i cuori che amano
Il sermone del signor Cogito
Va’ dove andaron quelli fino all’oscura meta
cercando il vello d’oro del nulla – tuo ultimo premio
va’ fiero tra quelli che stanno inginocchiati
tra spalle voltate e nella polvere abbattute
non per vivere ti sei salvato
hai poco tempo devi testimoniare
abbi coraggio quando il senno delude abbi coraggio
in fin dei conti questo solo è importante
e la tua Rabbia impotente sia come il mare
ogni volta che udrai la voce degli oppressi e dei frustati
non ti abbandoni tuo fratello lo Sdegno
per le spie i boia e i vili – essi vinceranno
sulla tua bara con sollievo getteranno una zolla
e il tarlo descriverà la tua vita allineata
e non perdonare invero non è in tuo potere
perdonare in nome di quelli traditi all’alba
ma guardati dall’inutile orgoglio
osserva allo specchio la tua faccia da pagliaccio
ripeti: m’hanno chiamato – non credo ch’io sia il migliore
fuggi l’aridità del cuore ama la fonte mattutina
l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno
la luce sul muro il fulgore del cielo
ad essi non serve il tuo caldo respiro
sono solo per dirti: nessuno ti consolerà
bada – quando la luna sui monti darà il segnale – alzati e va’
finché il sangue nel petto rivolgerà la tua scura stella
ripeti gli antichi scongiuri dell’uomo fiabe e leggende
raggiungerai così quel bene che non raggiungerai
ripeti solenni parole ripetile con tenacia
come quelli che andaron nel deserto perendo nella sabbia
e ti premieranno per questo come altrimenti non possono
con la sferza della beffa con la morte nel letamaio
va’ perché solo così sarai ammesso tra quei gelidi teschi
nel manipolo dei tuoi avi: Ghilgamesh, Ettore, Rolando
che difendono un regno sconfinato e città di ceneri
sii fedele va’
All’entrata della valle
Dopo la pioggia di stelle
Sul prato di ceneri
si raccolsero tutti sorvegliati dagli angeli
dall’altura scampata
l’occhio abbraccia
l’intero gregge belante dei bipedi
veramente non sono molti
contando anche quelli che verranno
dalle cronache dalle fiabe e dalle vite dei santi
ma tralasciamo queste considerazioni
spostiamoci con lo sguardo
nella gola della valle
da cui proviene un grido
dopo il sibilo delle esplosioni
dopo il sibilo del silenzio
quella voce suona come fonte di acqua viva
è come ci spiegano
il grido delle madri che vengono divise dai bambini
perché risulta
che saremo redenti separatamente
gli angeli guardiani sono inesorabili
e bisogna ammettere che svolgono un duro lavoro
lei prega
– nascondimi in un occhio
in una mano nelle braccia
siamo stati sempre insieme
non puoi abbandonarmi
adesso che sono morta e che ho bisogno di affetto
l’angelo anziano
sorridendo spiega il malinteso
una vecchia porta
la salma di un canarino
(tutti gli animali sono morti poco prima)
era così dolce – dice piangendo
capiva tutto
quando parlavo –
la sua voce si perde nello strepito generale
perfino il taglialegna
che è difficile sospettare di simili cose
vecchio tarchiato ingobbito
si preme l’ascia sul petto
– tutta la vita è stata mia
anche adesso sarà mia
mi manteneva là
mi manterrà qui
nessuno ha il diritto
– dice
non la consegnerò
quelli che a quanto pare
ubbidivano rassegnati agli ordini
vanno a testa bassa in segno di riconciliazione
ma stringono nei pugni
brandelli di lettere nastri capelli tagliati
e fotografie
che ingenuamente pensano
non verranno tolti loro
così appaiono
un momento
prima dell’ultima divisione
in quelli che digrignano i denti
e in quelli che cantano i salmi
Vorrei descrivere
Vorrei descrivere la più semplice emozione
la gioia o la tristezza
ma non come fanno gli altri
cercando un raggio di pioggia o di sole
vorrei descrivere la luce
che nasce in me
ma so che essa non somiglia
a nessuna stella
perché non è così luminosa
né così limpida
e incerta
vorrei descrivere il coraggio
senza tirarmi dietro un leone impolverato
e anche l’inquietudine
senza urtare un bicchiere d’acqua
in altre parole
darò tutte le metafore
per una sola espressione
estratta dal petto come costola
per una sola parola
che rimanga nei confini della mia pelle
ma a quanto pare non è possibile
e per dire – amo
corro come un folle
cogliendo fasci di uccelli
e la mia tenerezza
che non è di acqua
chiede all’acqua un viso
e la rabbia diversa dal fuoco
prende in prestito da esso
una lingua loquace
così si mescola
così si mescola
in me
ciò che canuti signori
hanno diviso una volta per sempre
e hanno detto
questo è il soggetto
e questo è l’oggetto
ci addormentiamo
con una mano sotto la testa
e con l’altra in un cumulo di pianeti
e i piedi ci lasciano
e assaporano la terra
con piccole radici
che la mattina
strappiamo con dolore
Ipotesi su Barabba
Che ne è stato di Barabba? Ho chiesto nessuno lo sa
Liberato dalla catena si avviò sulla strada bianca
poteva voltare a destra andare dritto voltare a sinistra
fare una giravolta cantare con gioia come un gallo
Lui Imperatore delle proprie mani e della propria testa
Lui amministratore del proprio respiro
Chiedo perché in un certo senso presi parte alla questione
Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo
come gli altri libera Barabba Barabba
Gridavano tutti se solo io avessi taciuto
sarebbe successo esattamente come doveva succedere
E Barabba forse tornò alla sua banda
Sui monti uccide in fretta rapina ad arte
Oppure aprì una bottega di vasi
e le mani macchiate di delitti
purifica nell’argilla della creazione
E’ un acquaiolo un mulattiere un usuraio
proprietario di navi – su una di esse Paolo andò dai Corinzi
oppure – ciò che non si può escludere –
è diventato un’apprezzata spia al soldo dei Romani
Guardate e ammirate il vertiginoso gioco del destino
o potenze della possibilità o sorrisi della fortuna
E il Nazzareno
rimase solo
senza alternativa
col ripido
sentiero
di sangue
La gallina
La gallina illustra nel modo migliore dove porta la stretta
convivenza con la gente. Ha perso del tutto la leggerezza
e la grazia degli uccelli. La coda sporge sul prosperoso sedere,
come un cappello troppo grande e di cattivo gusto: I suoi
rari momenti di estasi, quando si regge su una sola zampa
e copre gli occhi rotondi con le palpebre-membrane, sono
decisamente disgustosi. E per giunta la sua parodia del canto,
le soffocate suppliche su una cosa indicibilmente buffa: l’uovo –
rotondo, bianco e imbrattato.
La gallina fa venire in mente alcuni poeti.
La traduzione poetica
Come il goffo calabrone
si è posato sul fiore
piegando l’esile gambo
s’introduce negli strati di petali
simili a pagine di un dizionario
tende al cuore
dove c’è l’aroma e la dolcezza
e benché abbia il raffreddore
e gli manchi il gusto
tende lo stesso
finché sbatte la testa
contro il giallo pistillo
e lì si ferma
è difficile attraverso
il calice dei fiori arrivare
alla radice
quindi il calabrone esce
fiero di sé
e squillante ronza:
sono giunto al cuore
e a quelli
che hanno qualche dubbio
mostra la punta del naso
coperta di polvere gialla
Il signor Cogito pensa al ritorno nella città natale
Se tornassi là
senza dubbio non troverei
neanche un’ombra della mia casa
né gli alberi dell’infanzia
né la croce con la targa di ferro
la panca su cui sussurravo scongiuri
i castagni e il sangue
e nessuna cosa che è nostra
tutto ciò che si è salvato
è una lastra di pietra
con un cerchio di gesso
sto al centro
su una gamba
un attimo prima del salto
non posso crescere
benché passino gli anni
e in alto rombano
pianeti e guerre
sto al centro
immobile come un monumento
su una gamba
prima di saltare nella necessità estrema
il cerchio di gesso prende il colore
del sangue seccato
intorno crescono mucchi
di cenere
fino alle spalle
fino alla bocca
Che sarà
che sarà
quando le mani
si staccheranno dai versi
quando in altre montagne
berrò acqua asciutta
dovrebbe essere indifferente
ma non lo è
che ne sarà dei versi
quando se ne andrà il respiro
e sarà negata
la grazia della voce
lascerò il tavolo
e scenderò nella valle
dove echeggia
un nuovo ridere
presso una cupa selva?
Spine e rose
Sant’Ignazio
bianco e fervente passando
accanto alle rose
si gettava sull’arbusto ferendo il corpo
con la campana della nera tonaca
voleva coprire
la bellezza del mondo
che sprizzava dal suolo come da una ferita
mentre giaceva sul fondo
della culla di spine
vide
che il sangue grondante dalla fronte
si coagulava sulle ciglia
formando una rosa
e la cieca mano
che cercava le spine
restò trafitta
dal dolce tocco dei petali
piangeva il santo ingannato
tra lo scherno dei fiori
spine e rose
rose e spine
cerchiamo la felicità
Canto del tamburo
Sono scomparsi gli zufoli dei pastori
l’oro delle trombe domenicali
i verdi echi i corni
anche i violini sono scomparsi –
è rimasto soltanto il tamburo
e il tamburo ci suona ancora
la marcia festiva la marcia funebre
semplici sentimenti vanno a tempo
sulle rigide gambe il tamburino suona
e un solo pensiero una sola parola
quando il tamburo chiama il ripido abisso
portiamo spighe o la lapide
che il saggio tamburo si predirà
quando il passo batte sulla pelle dei selciati
quel passo altero che trasformerà il mondo
in un corteo e in un solo grido
finalmente va l’umanità intera
finalmente ognuno ha trovato il passo
la pelle di vitello due bacchette
hanno distrutto torri e solitudine
e il silenzio è calpestato
e la morte non fa paura quando è densa
la colonna di polvere sul corteo
si aprirà il mare obbediente
scenderemo giù nel baratro
nei vuoti inferni e più in alto
del cielo verifichiamo la falsità
e liberato dagli spaventi
in sabbia si muterà l’intero corteo
portato dal vento beffardo
e così l’ultima eco passerà
lungo l’indocile muffa della terra
resterà solo il tamburo il tamburo
dittatore di musiche disperse
1957
(C) by Paolo Statuti