Krzysztof Karasek

10 Mar

 

Krzysztof Karasek

 

 

Poeta, saggista, critico letterario. E’ nato a Varsavia il 19 febbraio 1937. Figlio dell’artista plastico Roman Karasek. Ha frequentato l’Accademia di Educazione Fisica e ha studiato filosofia all’Università di Varsavia. Ha pubblicato più di 20 raccolte di poesie. Il suo debutto poetico risale al 1966 sul mensile Poesia. Ha fatto parte della redazione di prestigiose riviste letterarie e ha ricevuto importanti premi per la sua creazione poetica, benché Karasek mantenga le distanze dai riconoscimenti: «… non importa chi riceve un qualunque premio di poesia. Perfino il premio Nobel può essere motivo di vergogna. Ad esempio si dice che Quasimodo, dopo aver ricevuto il Nobel, che allora avrebbe meritato di più Ungaretti, uscì dalla sala impacciato e quasi scappando. La mancanza di popolarità bisogna guadagnarsela. Io ho lavorato per essa troppo a lungo per rinunciarvi a favore dei premi» – ha confessato un giorno al poeta Jarosław Mikołajewski.

Il grande poeta Zbigniew Herbert (1924 – 1998) elogiò la sua poesia: «Krzysztof Karasek a mio avviso è il poeta di maggior spicco della Nouvelle Vague polacca. La sua è una poesia matura, intellettualmente e letterariamente assai ben costruita. Usando un liguaggio sportivo – egli “ha preceduto di una lunghezza” gli altri poeti della stessa generazione». Ryszard Kapuściński (1932 – 2007), scrittore di profonda cultura, critico e notissimo pubblicista, ha detto: «La poesia di Karasek è altamente creativa e in continuo movimento, con una straordinaria immaginazione esplorativa, alla ricerca del senso dell’esistenza, del mondo, della poesia stessa. La colloco tra le maggiori realizzazioni della poesia polacca contemporanea, e perfino europea». A sua volta il poeta e critico letterario Janusz Drzewucki afferma che un’ampia gamma di voci poetiche e una certa eterogeneità hanno caratterizzato la sua creazione fin dall’inizio: «La lirica di questo autore è da sempre polifonica. Egli si serve di poetiche, stili, idiomi di ogni genere. Sa essere poeta pubblicistico, riflessivo, tradizionale e di avanguardia, sa essere univoco ed equivoco, del mondo circostante lo attira sia l’aspetto fisico che metafisico». Nella prefazione alla raccolta L’assolata tinozza dell’infanzia (2013), il poeta e critico Grzegorz Kociuba ha scritto: «La forza di questo libro è l’intimità, la liricità intesa anche tradizionalmente… Non è soltanto l’ennesima raccolta di un autore contemporaneo, ma è il libro di un grande poeta che non getta le sue parole al vento!». Karasek parla dalla posizione del saggio che conosce la vita, la osserva attentamente e a volte anche argutamente.

Il poeta è affascinato dalla pittura. Nel ciclo I miei pittori, dedicato alla memoria del padre, è attratto in particolare da Paul Cézanne, Claude Monet, Vincent van Gogh, Paul Gauguin, Edward Hopper. Vede la parentela tra pittura e poesia, le visioni pittoriche sono visioni sintetiche del mondo. Per questo nella poesia Lettera a Paul Cézanne scrive: «Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne, è quell’artificiosità che colloca gli oggetti e le cose in una nuova luce». Sia il pittore che il poeta creano composizioni coesistenti, che da una sola concreta prospettiva permettono di osservare il fenomeno descritto o dipinto. La sua gamma tematica è assai ampia. Vale la pena ricordare che una parte delle sue opere poetiche si basa sui sogni, che non necessariamente tratta come visioni incomprensibili, ma come una serie di quadri collegati con la realtà e col subconscio.

Nella sua penultima raccolta La gioiosa conoscenza (2015), emerge la convinzione che il processo di conoscenza del mondo sia una gioia. In una delle sue ultime interviste dichiara: «Ritengo che la gioia della creazione, dell’amore, dell’amicizia e della loro reciproca sperimentazione siano questioni per le quali valga la pena di vivere e forse anche di morire. E’ la manifestazione di qualcosa di sacro, è la gioia come una festa. Ci sono persone che vivono nei cimiteri e altri che vivono per la gioia». Della sua ultima raccolta dal titolo enigmatico E’ giunto un uomo per frustare il mare (2017) dice: «Mi hanno chiesto tante volte il perché di questo titolo, alla fine ho cominciato a rispondere che è così, affinché ognuno possa dire la sua».

In uno degli ultimi incontri con i suoi elettori ha detto: «La vera poesia è il linguaggio che possiede una straordinaria dinamica. Parole incompatibili tra loro trovano il proprio posto, l’ordine è messo in dubbio. La poesia smentisce il nostro concetto di letteratura. In quest’ultima ogni opera ha un inizio, una parte centrale e una fine. In una buona composizione poetica tutto è inizio, parte centrale e fine».

Krzysztof Karasek rivolge una particolare attenzione alla poesia dei giovani. La sua sete di letteratura è inestinguibile. A tale proposito egli afferma: «In generale nella poesia mi incuriosiscono due poetiche. La prima si ha quando un verso è assai benfatto, delicato, accurato come in Herbert o Ungaretti. La seconda si ha quando agisce come se qualcuno ti infilasse nel posteriore un generatore elettrico, quando cioè è dotata di energia e ti elettrizza. Nei giovani la cosa più importante è l’imprevedibilità. Se sono diversi dagli altri. Se hanno una voce personale. E ogni volta che apro la raccolta di un giovane, spero sempre di trovare un nuovo Rimbaud».

 

Poesie di Krzysztof Karasek tradotte da Paolo Statuti

 

Deutsches requiem  (frammento)

Ho visto la maschera mortuaria di Gottfried Benn

le orbite coperte di gesso del tempo

la fronte

che sosteneva il giogo della vita. E la bocca

dove covava ancora una piccola scintilla di rivolta

e di speranza – l’orgoglio deluso

e la dignità sconfitta; l’amarezza del resoconto

di un testimone oculare.

 

Tutta l’anima tedesca è concentrata in quella fronte,

in quegli occhi incavati come vetro in fondo al fiume,

l’anima di Novalis e Hölderlin, di Beethoven

e di Hegel. Mistiche tenebre

versate con ogni attrezzo della materia, e

l’anima nuda collocata nella scura fonte

di una eredità romantica; la cieca ragione

e la biologia impazzita, che crearono la superbia

di Nietzsche e l’amara saggezza di Kant

 

colavano da quella bocca, adesso vuota e sterile

come frammento di paesaggio dissanguato

o sonno di fiume frantumato contro l’orizzonte;

con un solo getto traboccavano dall’esofago

e cadevano ai piedi di un testimone casuale.

 

1982

 

Dalla lettera di Bertolt Brecht al figlio

 

Quando la parola sangue è assente in un verso?

 

La parola sangue è assente in un verso quando il sangue

è sospeso in aria, quando diventa pioggia. Quando le vene

non lo reggono più nell’ardente involucro del corpo e lo

mettono in libertà e nel futuro.

 

La parola sangue è assente, quando il vero sangue si

riversa sulle strade, allora malvolentieri si parla di sangue,

la parola sangue scompare dalle enciclopedie e dai dizionari,

i manuali diventano più pallidi, i giornali si ammalano di

anemia, le pagine di storia scompaiono in circostanze

misteriose, la sintassi diventa oggetto di scherni;

 

la parola sangue diventa antiestetica, non risponde alle

necessità delle convenzioni e delle poetiche, del lessico

e della sintassi, non risponde alle “reali” esigenze della

lingua, mentre l’uomo qualunque non distingue più un fiore

da una ferita da sparo (si dice allora: i papaveri sono fioriti

nel tempo sbagliato – poiché è inverno – oppure:

il succo di pomodoro si è sparso sulla spiaggia di una città

litorale – perché finisce l’estate, e le acque del golfo

si sono tinte di rosso).

 

La parola sangue è assente, quando coloro che hanno fatto

versare il sangue, non parlano più di prezzo, ma soltanto

dei profitti ottenuti grazie a questo sangue.

 

Impara a seguire il seme del sangue nelle pagine dei manuali

di storia e di grammatica, nelle fessure tra le frasi di un verso

irregolare, nelle fessure tra le parole. Impara a leggere dalla

sua presenza e assenza le impronte delle ruote della storia.

Lo schianto delle ossa spezzate e il grido della frase torturata,

che si è iniettata di sangue.

1982

 

Agli animali piace la guerra

 

Agli animali piace la guerra,

il suo sapore, la forza che gira nell’aria.

Gli uccelli muoiono nel suo alito,

annerita la forma e il becco –

scheletro steso sull’aria,

sui tendini del vento.

 

Il polso staccato dall’osso,

le braccia vuote, private di muscoli e vene,

la mano, attraverso cui trapela la forma della luce

la circolazione sanguigna della cenere –

agli animali piace la guerra.

 

In qualche luogo nel folto

si sono rapprese le loro voci beffarde,

la caccia è iniziata,

la battuta si avvicina alla fonte.

Agli animali piace la guerra –

l’uomo va a caccia della propria carne,

lascia a loro l’intangibilità di gesti e sogni,

il sonno sprofonda in un udito ansioso,

di mani che non possono reggere il proprio amore.

 

La mia donna grida nel sonno

non potendo trattenere con le mani sfuggenti

la luce che si spegne.

A lei sembra

che dal giardino arrivino animali a cavallo,

in ordine ansioso

trova nella stanza una volpe, una talpa, una puzzola,

un lupo dorme nel suo letto

e mostra i denti.

1988

 

Desidero un buio splendente

 

O verso, mia unica patria

o patria dell’uccello e patria dell’albero

nelle cui foglie la pioggia

di stelle cadenti segue

la pianura con sguardo smarrito

Quando le nubi scorrono di notte sulla città

esco sul balcone e guardo il cielo

Non vedo le stelle e nemmeno la luna

Non vedo neanche il cielo

Tutto ha coperto

Qualche mano sporca

Tutto

è inondato dal piatto paesaggio

di riflessi filtranti della città

e della neve sporca

Nel chiarore spariscono le forme e la gente

la tenebra uguaglia i loro mondi

muoiono in essa alberi e uccelli

come caduti dalle stelle sull’asfalto

muore in essa perfino l’oscurità

Non è la mia patria, grido

non è la mia casa

 

Sono un buio splendente

 

E se essere un cavallo

 

allora solo giallo come in Gauguin,

oppure fulvo,

come nell’Apocalisse,

con una rosa ponsò all’orecchio,

non il mio

ma del cavallo, come un bicchiere

odorare di vodca e di fienile,

guardare il mondo con gli occhi degli oggetti,

essere un cavallo

giallo

oppure fulvo,

con una rosa ponsò

Eccetera.

 

Ciò si chiama vivere non nel proprio corpo.

 

Consigli per Orfeo

 

la luce rivela la grammatica dell’ombra,

l’oscurità denuda la logica della conoscenza,

la fede ci rimanda al passato.

Vediamo confusamente, nel caos,

il tempo cede, lo spazio si rapprende,

il visibile genera l’invisibile,

l’invisibile apre la pianura

dove camminano Shakespeare e Rimbaud.

Dunque non guardare dietro

la luce è una pioggia scura che bevono i morti,

non dire che non lo sapevi. La gente è ammutita

per questo sapere, con cui tutti, noi stessi

dobbiamo vivere. Il chiarore

è una goccia, lo lecca da sotto le palpebre

la neve mattutina mentre

l’orizzonte, come la riga in mano al pittore

s’incurva. Tua è l’aria,

l’oblio e la sorpresa. E ancora

l’istante, quando passa. Era,

dunque è. Nutriti di esso

ma non guardare, non girarti, proprio lui

ti divorerà, quando a dispetto dei miti

la fisserai. Va’

dove le sirene portano il loro dolce canto,

tieni gli occhi rivolti ai sacri altari, non tremare

quando la disonestà ti bacia la bocca. Guarda

attentamente, fino al più crudele sapere, che ti porti

come eco la volta celeste, il suo bagliore

come gelida luce dell’alba ti abbronzerà il viso.

 

Dalla vita degli insetti

 

E di nuovo, come nell’infanzia

torno nel paese dei grilli.

Sono più vecchio, ma nelle orecchie

risuona sempre

la buona novella.

La conversazione tra di noi

 

ancora non è finita.

 

Il tempo prima e il tempo dopo

dorme negli armadi

e negli orologi.

Niente può cambiare la posizione delle macchie

sulla pelle di leopardo.

Se non vuoi essere selvaggina

diventa cacciatore.

 

Non fare domande

se non conosci la risposta.

Una grande bocca deve avere grandi orecchie.

Forse esiste una farfalla con tre ali,

un naso di guttaperca,

un volto di ceralacca,

ma io non l’ho visto.

 

Quando ero piccolo

andavo in biblioteca

e al libro restituito strappavo

l’ultima pagina

per lasciare spazio alla fantasia

di un lettore sconosciuto.

 

Lui dormiva nel libro.

Lo leggeva a dispetto delle frasi.

In ordine alfabetico si avvicinava

e si allontanava.

Conoscevo il suo nome.

Ma questo non bastava per conoscere la vita.

 

Niente può cambiare la posizione delle macchie

sulla pelle di leopardo.

Per questo permettetemi di andarmene.

 

Sérénité

 

Un rametto di lillà nelle tenebre

rischiara la mia mente.

E’ la mia infanzia angelica,

la malerba diabolica.

Il rullo di tamburo della notte

e lo sciame di api sulla stoppia calpestata,

bellezza e minaccia, cui pensava forse

Breton, quando scriveva le parole:

“la bellezza sarà convulsa

o non sarà”,

esigono l’elegia.

 

Una farfalla si è alzata sulla brughiera

di questa sera

portando su di sé un pulviscolo di luce,

e gli stukas in picchiata sulla strada,

per la quale siamo fuggiti ad Est

e poi di nuovo ad Ovest,

riempivano le mie orecchie come galoppo

dei cavalieri dell’Apocalisse.

 

E’ una pallida sera, quasi notte,

sto sul balcone di casa a Varsavia,

una buia sera di maggio,

fisso le luci che si spengono nei grattacieli

e ricordo quando qui c’era un campo

e vedevo l’aereo che un attimo dopo si schiantò,

trent’anni prima,

e i volti nelle aperture

fissi su di  me

fino ai limiti dello stupore.

 

Cerco di nuovo i segni dell’infanzia

e ricordo l’aurora boreale

in Mazovia,

ancora trenta anni prima,

le ondeggianti tende del cielo,

dei verdi e delle rose.

Nell’aria si leva il profumo dell’assenza,

mi dice: mai più,

e io gli rispondo: non perdere la speranza.

 

Quello stesso profumo richiama gli echi

delle notti di maggio della giovinezza,

quando lo zaino sotto la testa

e qualche spicciolo in tasca

erano il senso

del mondo che franava nel sonno.

 

Sì, ti ricordo o buia sera,

sì, ti ricordo o pallida notte.

O sera, quando il cuore fugge verso l’amore,

o notte, che svuoti la promessa del giorno.

Vedevi come immergo le mani nelle tue acque

e come mi sforzo di afferrare un pesce

che nuota lentamente, ammutito come uccello

nella tua corrente.

 

Ti riconosco o pallida notte,

ti riconosco o buia sera.

 

Quasi vi tocco.

 

2005

 

Seppellito nella pelle d’insetto

 

L’amore è un vecchio canto umano;

è qualcosa di così potente,

che forse mantiene le stelle

nel firmamento.

Ma per amare

ci vuole coraggio.

Ascoltavo i gatti di sera,

cantavano tutti Rossini.

La mollica deve essere tolta,

io mangio soltanto la crosta

disse una certa sapientona.

Più di tutto conta conoscere i propri limiti.

E cercare di superarli.

Non permettere che l’anima

si stanchi prima del corpo.

La felicità consiste nell’avere

una buona salute

e una debole memoria?

Tutto ciò che è perfetto, cresce lentamente.

Abbiamo cominciato con Mozart,

finiamo col “Crepuscolo degli dei”.

 

2008

 

Il Lofoten

 

I morti sottoterra.

I vivi di sopra.

E noi in mezzo.

 

Spogliato del sonno. Domenica delle Palme.

Siedo nella veranda dell’amico Paweł Skrzeczkowski

A Kazimierz sulla Vistola.

Sotto di me il pozzo,

E in esso l’acqua. L’acqua della vita.

Il fumo del sigaro riempie lo spazio

Della mia veduta.

Riempie anche me.

Sospeso in aria come una nuvola

Sul Mercato, volo, navigo.

Fedele ai miei demoni.

 

La danza di una grande pipa.

A ritmo di gavotta.

La musica è matematica, tutto

Proviene da essa.

Mi ripeto la frase di Rameau.

E un’altra, di Ortega y Gasset:

Nessuno può capire il genere umano,

Se non vede che matematica e poesia

Hanno le stesse radici.

 

Purzyc si è comprato una casa nel Lofoten,

A che gli serve?

Lo stesso spazio, spopolato,

Lo trovi sul fondo di una scatola di fiammiferi.

Che c’entra con lo spazio

Del pensiero? Che c’entra

Con lo spazio della mia pipa?

 

Kazimierz e il Lofoten.

Qualcuno cammina

O è sospeso in aria.

E’ un angelo

O il passeggero di un boeing.

I versi uniscono il cielo alla terra,

Ma lo spazio rimane.

 

E il tempo, che stilla dalle mammelle

E dagli orologi.

Non sono mai andato nel Lofoten

E forse non ci andrò mai.

Ma questo nome, questa parola.

Si sogna

Come le Floride incredibili

Nel Battello ebbro di Rimbaud.

In realtà là non ci sono affatto,

le ha immaginate Miriam,

traducendo la poesia,

perché così gli andava.

 

Ebbene. Le Floride incredibili,

Il Lofoten sono piuttosto fantasmi di sogni

Non avverati.

Eppure sono necessari,

se vogliamo vivere

e significare qualcosa.

 

La vecchiaia è nella testa, non nelle gambe.

Ci crescono gli anni, ma né tu né io

invecchiamo. Come quelli che vivono

per abitudine.

Ci crescono i chili.

Scompaiono gli amici.

Cresce l’erba della vita.

 

2009

 

Spiegazione degli ultimi quartetti di Beethoven

                                                                                           A Paweł Mykietyn

 

Per essere folli bisogna avere conoscenze altolocate.

Quando le persone smettono di darsi del lei,

il resto è inevitabile.

 

Ho vissuto tanto da vedere i figli più vecchi dei genitori.

Grazie a ciò mi sono convinto che pensiamo le stesse cose.

Per quanto riguarda il mio lavoro, per esso ho rischiato la vita,

e la mia ragione è depressa.

Questo è Van Gogh.

 

Non c’è storia d’amore più triste

di quella di Giulietta e Romeo.

Morirò come il cigno, cantando

(Bianca dall’Otello).

Perché i nostri sogni sono sempre eterni?

 

Tre sono le streghe: fede,

speranza, amore.

La terza ora, ora delle streghe.

 

Il caso può essere sinonimo di Dio,

quando non permette troppe confidenze.

Must es sein? Must sein.

 

14.03.2012

 

Nasturzi punici

 

Come molti vecchi penso anch’io

che siamo soltanto di passaggio

in un mondo senza Dio.

Mi sputo in faccia quando penso

che mi piacevano un tempo

gli ululati dei poeti americani.

La poesia non è una stronzata.

Qui ogni spettro è l’estratto di un tabù.

Se ti accade di sognare una qualche sillaba,

cessa di battere l’orologio del cuore.

Sento qualcuno che riempie la vasca

tre traverse da qui, e loro dicono

che ho problemi di udito.

In ogni modo tutto ciò che è vero

lo devo a mia madre.

C’è la superstizione che si spegne l’incendio

gettando nel fuoco una salamandra.

Aristotele chiamava i lombrichi i budelli della terra.

Se i poeti, come vuole Platone, sono grilli,

finiremo tutti nelle ortiche.

2016

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

2 Risposte a “Krzysztof Karasek”

  1. almerighi marzo 14, 2018 a 11:07 am #

    davvero interessante, non potendolo fare sul blog dove ho trovato l’articolo (dove sono sistematicamente censurato), vengo a ringraziarla qui, a casa sua: il suo è un grande misconosciuto lavoro

  2. Paolo Statuti marzo 14, 2018 a 12:57 PM #

    Grazie sono felice quando scopro che qualcuno condivide e gradisce le mie scoperte! 🙂

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