Poesie di Vladimir Majakovskij tradotte da Paolo Statuti
A tutta voce
(Во весь голос)
(Prima introduzione al poema)
Egregi
compagni posteri!
Scavando
nello sterco impietrito
del presente,
studiando le tenebre odierne,
voi,
forse,
chiederete anche di me.
E, forse, dirà
il vostro erudito,
con la mente
piena di questioni,
che viveva da qualche parte un tale
cantore dell’acqua bollita
e nemico acerrimo dell’acqua corrente.
Professore,
togliti gli occhiali-bicicletta!
Io stesso racconterò
del tempo
e di me dirò.
Io, fognaiolo
e portacqua,
dalla rivoluzione
richiamato,
io per il fronte ho lasciato
i signorili giardini
della poesia –
capricciosa megera.
Che giardino guarda e ammira,
figlia,
la casa,
pulisci
e stira –
io da sola l’ho piantato,
solo io l’annaffierò.
Chi versa strofe dai catini,
chi spruzza
dalla bocca –
leziosi Mitrejki,
saccenti Kudrejki –
come raccapezzarsi!
Per la melma non c’è quarantena –
mandolinano tutto il giorno:
«Tara-tena, tara-tena,
ten-n-n…»
Non è un grande onore,
se tra le rose
alzano i miei busti
nei giardinetti,
dove scatarra la tubercolosi,
dove un teppista abbraccia una puttana
e la sifilide impera.
Anch’io
della propaganda
ho le tasche piene,
anch’io
potrei scrivere
romanze su di voi, –
è più redditizio
e più allettante.
Ma io
me stesso
ho domato,
e con il piede pesante
ho schiacciato la gola
della mia canzone.
Ascoltate,
compagni posteri,
l’agitatore,
lo strillone-caporione.
Soffocando
i torrenti della poesia,
io avanzerò
tra volumi di liriche,
da vivo
ai vivi parlando.
Verrò da voi
in un futuro comunista,
non come
il melodioso bardo eseniano.
La mia poesia giungerà
attraverso i crinali dei secoli
e attraverso le teste
dei governi e dei poeti.
La mia poesia giungerà alla meta,
ma essa vi giungerà,
non come una freccia
lanciata da Cupido a sorte,
non come arriva
a un numismatico una consunta moneta
e non come arriva la luce delle stelle morte.
La mia poesia
con la fatica
sfonderà la mole degli anni
e apparirà
ponderosa,
rude,
visibile,
come ancora oggi
è visibile l’acquedotto,
eretto
dagli schiavi di Roma.
Nei tumuli di libri,
di versi seppelliti,
ritrovando per caso la ferraglia delle strofe,
voi
con rispetto
prendetela in mano,
come vecchia
arma fatale.
Io
l’oreccchio
con la parola
non sono avvezzo a carezzare;
il delicato orecchio di ragazza
nei riccioli
dal doppio senso sfiorato
non arrossirà.
Dopo aver disteso in parata
le mie pagine-plotoni,
io passerò
il fronte delle strofe.
I versi stanno
pesanti come piombo,
pronti anche alla morte
e alla gloria immortale.
I poemi sono morti,
canna contro canna
dei titoli puntati
e squarciati.
L’arma
del genere
preferito,
è pronta
a lanciarsi con un grido,
s’è irrigidita
la cavalleria delle facezie,
avendo alzate delle rime
le lance acuminate.
E tutte
le truppe fino ai denti armate,
che venti anni nelle vittorie
hanno passato,
fino all’ultima
pagina
io affido a te,
proletario del pianeta.
Il nemico
della classe operaia –
è anche il mio nemico,
giurato e di vecchia data.
Ci hanno chiesto
di andare
con la bandiera rossa
anni di lavoro
e giorni di fame.
Noi aprivamo
di Marx
ogni volume,
come in casa
propria
apriamo le persiane,
ma anche senza lettura
noi sapevamo
da che parte andare,
contro chi lottare.
A noi
la dialettica
non l’ha insegnata Hegel.
Essa al suono delle lotte
nei versi è penetrata,
quando
sotto le pallottole
i borghesi fuggivano da noi,
come noi
un tempo
fuggivamo da loro.
Che
dietro ai geni
come vedova sconsolata
si trascini la gloria
in una funebre marcia –
muori, o mio verso,
muori, come semplice soldato,
come ignoti
all’attacco sono morti i nostri!
Io sputo sopra
il bronzo dei monumenti
io sputo sopra
il viscido marmo.
Grondiamo di gloria –
noi tutti noi, –
che il nostro
monumento comune
sia il socialismo
eretto
nelle lotte.
O posteri,
controllate i galleggianti dei dizionari:
dal Lete
emergeranno
i resti di parole
come «prostituzione»,
«tubercolosi»,
«blocco».
Per voi
che
siete sani e destri,
il poeta
leccava
gli sputi dei tisici
con la ruvida lingua del manifesto.
Con la coda degli anni
io divento la somiglianza
di mostri
fossili con la coda.
Compagna vita,
su,
presto bruciamo,
bruciamo
in cinque anni
il resto dei giorni.
A me
neanche un rublo
hanno portato i versi,
di ebano
non è arrivato un mobile in casa.
E tranne
una camicia fresca di bucato,
dirò sinceramente,
a me non serve niente.
Entrato
Nella Commissione di Controllo
dei luminosi
anni che verranno,
io sulla banda
di poeti
scrocconi e furfanti
solleverò
come tessera bolscevica,
i miei
libri di partito –
tutti quanti.
1929-1930
Il violino e un po’ nervosamente
Il violino coi nervi tesi, supplicando,
a un tratto scoppiò in pianto
così infantilmente,
che il tamburo non resse:
“Bene, bene, bene!”
E lui stesso si stancò,
non finì di ascoltare il violino,
sgattaiolò in fretta
e se ne andò.
L’orchestra estraneamente guardava
il violino che si sfogava nel pianto
senza parole
senza tempo,
e solo chissà dove
uno stupido piatto
strepitava:
“Cos’è?”
“Com’è?”
E quando il flicorno –
cornoramato,
sudato,
gridò:
“Scemo,
piagnone,
asciugati!” –
io mi alzai,
barcollando, mi arrampicai tra le note,
tra i leggii curvi per lo spavento,
chissà perché gridai:
“Mio Dio!”,
mi buttai al collo di legno:
“Sai una cosa, violino?
Noi ci somigliamo tremendamente:
ecco anch’io
urlo –
ma non so dimostrare nulla!”
I musicisti ridono:
“S’è invischiato e come!
E’ venuto dalla fidanzata di legno!
Che testa!”
Ma io – me ne frego!
Io – sono un bel tipo.
“Sai una cosa, violino?
Dai –
Vivremo insieme!
Sì?”
Veramente a voi non prudono ambedue le scapole?
Veramente
a voi
non prudono
ambedue le scapole?
Se
dal cielo
l’arcobaleno
pende
o
è azzurro
senza una sola toppa –
davvero
a voi
non prudono
ambedue
le scapole?!
Davvero non si vuole,
che da sotto le bluse,
dove prima
c’era la gobba,
gettato via
il peso
delle camicie-fardello,
si distendano
un paio di ali?!
Oppure
la notte quando
le stelle si accendono
e le Orse
tutte
si arrampicano –
davvero non fa invidia?!
Davvero non si vuole?!
Si vuole!
Ad ogni costo!
Si sta stretti,
e in cielo
la vastità –
un buco!
Alzarsi in volo
verso i villaggi degli dei!
Presentare
al Signore delle schiere
un ordine
di sfratto
dell’Ufficio Centrale per gli Alloggi!
Kaluga!
Perché ti sei cinta con un prato?
Dormi
in una fossa del terreno?
Tambov!
Kaluga!
In alto!
Come passeri!
Bene,
se ha deciso di sposarsi:
battere l’ala –
e
oltre duecento province!
Strappò
una piuma
allo struzzo –
e la rese
in dono
alla fidanzata!
Saratov!
Perché hai sgranato gli occhi?!
Incantata?
Da un punto d’uccello?
In alto –
come rondine!
Bene
così
lavoro pulito:
Sera.
La sera vuole scagliarsi contro la porta.
Roma.
Frustare
a Roma un fascista –
e
un’ora dopo
di ritorno
al samovar
a Tver’.
O semplicemente:
guardi,
l’alba è spuntata –
e cominci
a gara
a rincorrere e rincorrere.
Ma…
la gente – un popolo
senz’ali.
La gente
creata
secondo un cattivo piano:
la schiena –
e nessun profitto.
Comprare
un aereo ciascuno –
questo soltanto
resta.
E cresceranno
la coda,
le piume,
le ali.
Il petto
appunta
per qualsiasi volo.
Staccati da terra!
Vola, squadriglia!
Russia,
spicca il volo come flotta aerea.
Presto!
Perché,
tesati come una pertica,
da terra
ammirare
la volta celeste?
Perforala,
avio.
1923
Sentite un po’!
Sentite un po’!
Ma se le stelle si accendono –
significa – servono a qualcuno?
Significa – qualcuno le vuole?
Significa – quegli sputacchi per qualcuno sono perle?
E, soffocato
nelle bufere di polvere meridiana,
si precipita da dio,
teme d’essere in ritardo,
piange,
gli bacia la mano nerboruta,
prega –
che ad ogni costo in cielo ci sia una stella! –
giura –
che non sopporterà quel tormento senza stelle!
E dopo
cammina inquieto,
ma tranquillo in apparenza.
Dice a qualcuno:
“Allora adesso non c’è male?
E’ passata la paura?
Sì?!
Sentite un po’!
Ma se le stelle
si accendono –
significa – servono a qualcuno?
Significa – è necessario
che ogni sera
sopra i tetti
ci sia almeno un stella?!
1914
E voi potreste?
In un attimo ho unto la mappa del trantran
con la vernice versata dal bicchiere;
ho mostrato sopra a un piatto di gelatina
gli zigomi obliqui dell’oceano.
Sulla scaglia di un pesce di latta
ho declamato gli appelli di nuove labbra.
E voi
potreste
sonare un notturno
su un flauto di grondaie?
1913
Al diletto se stesso,
queste righe dedica l’autore
Quattro.
Pesanti, come un colpo.
“A Cesare quel che è di Cesare – a dio quel che è di dio”.
E a uno
come me,
dove ficcarsi?
Dove ho pronto il mio giaciglio?
Se fossi
piccolo,
come un oceano, –
sulle punte delle onde starei,
con la marea vezzeggerei la luna.
Dove trovarmi
una diletta come me?
Una così non entrerebbe nell’esiguo cielo!
Oh, se io fossi indigente!
Come un miliardario!
Cos’è per l’anima il denaro?
In essa c’è un avido ladro.
Alla sfrenata orda dei miei desideri
non basta l’oro dell’intera California.
Se balbettassi
come Dante
o Petrarca!
L’anima accendere a una sola!
Coi versi ridurla in polvere!
E le parole
e il mio amore –
un arco di trionfo:
solennemente,
senza lasciar traccia passeranno in essa
le amanti di secoli interi.
Oh, se io fossi
quieto,
come il tuono, –
frignerei,
tremando stringerei il vecchio eremo della terra.
Se io con tutta la sua potenza
tuonerò con la mia enorme voce, –
le comete si torceranno la mani ardenti,
gettandosi giù per disperazione.
Io con i raggi degli occhi rosicchierei le notti –
oh, se io fossi
oscuro come il sole!
Ho tanto bisogno
di abbeverare col mio splendore
il seno smunto della terra!
Passerò,
la mia amata trascinando.
In quale notte
delirante,
sofferente
da quali Golia sono stato concepito –
io così grande
e che non servo a niente?
1916
Non capiscono niente
Entrò dal Barbiere, disse – tranquillo:
“Siate gentile pettinatemi le orecchie”.
Il barbiere rasato subito diventò aghiforme,
la faccia si allungò come in una pera.
“Pazzo!
Buffone!” –
danzavano le parole.
Gli insulti turbinavano tra i guaiti,
e a lu-u-u-u-ngo
una testa sogghignava
staccandosi dalla folla, come un vecchio ravanello.
1913
Alle insegne
Leggete libri di ferro!
Al flauto d’una lettera dorata
accorreranno aringhe affumicate
e navoni dai riccioli d’oro.
E se con gaiezza canina
roteranno le costellazioni “Maggi” –
l’ufficio dei convogli funebri
manderà i propri sarcofaghi.
Quando, cupo e lacrimoso,
spegnerà i segni dei lampioni,
innamoratevi sotto un cielo di bettole
dei papaveri delle teiere di faenza!
1913
Tu
Sei giunta –
risoluta,
al mio ruggito
per la mia statura,
e gettato uno sguardo
hai visto solo un ragazzo.
Hai afferrato,
hai rapito il mio cuore
e semplicemente
hai preso a giocare con esso –
come una bambina con la palla.
E ciascuna –
come vedendo un prodigio –
la dama che restò di stucco
e la vergine fanciulla.
“Amare uno come quello?
Uno così si avventerà!
Deve essere una domatrice.
Deve venire dal serraglio!”
Ma io esulto.
Il giogo –
non c’è!
Stordito dalla gioia,
saltavo,
ballavo come un pellirossa alle nozze,
tanto ero allegro,
tanto ero leggero.
1919
La blusa del bellimbusto
Io mi cucirò neri calzoni
di velluto della mia voce.
Una blusa gialla di due metri di tramonto.
Lungo il Nevskij del mondo e le sue lucide parti,
andrò col passo di un Don Giovanni e di un bellimbusto.
Che la terra gridi, effeminata e tranquilla:
“Tu vai a violentare le verdi primavere!”
Io urlerò al sole, con un ghigno insolente:
“Sul liscio asfalto mi piace grandeggiare!”
Non perché il cielo è blu,
e la terra mi è amante in questo lindore festivo,
io vi dono versi, allegri, come burattini
e pungenti e necessari, come stuzzicadenti!”
Donne che amate la mia carne, e la ragazza
che mi rivolge lo sguardo come a un fratello,
lanciate i vostri sorrisi a me, il poeta, –
io li cucirò come fiori sulla mia blusa di bellimbusto!
1914
Commiato
In macchina,
cambiato l’ultimo franco.
– A che ora per Marsiglia? –
Parigi
corre,
accompagnandomi
in tutta
l’impossibile bellezza.
Accedi
agli occhi,
brodaglia del distacco,
il cuore
spaccami
col sentimentalismo!
Io vorrei
vivere
e morire a Parigi,
se non ci fosse
una terra simile –
Mosca.
1925
E’ passata l’una…
E’ passata l’una. Dovresti andare a letto.
La Via Lattea scorre argentea nella notte.
Non ho fretta; con telegrammi lampo
Non ho motivo di stancarti e turbarti.
E, come essi dicono, l’incidente è chiuso.
La barca dell’amore s’è infranta contro la fatica del giorno.
Adesso tu ed io siamo pari. Perché dunque il fastidio
Di bilanciare le reciproche sofferenze e ferite?
Guarda ciò che la quiete posa sul mondo.
La notte copre il cielo in omaggio alle stelle.
In ore come queste, ci si alza per parlare
Agli anni, alla storia, a tutto il creato.
1930
La nuvola in calzoni
Prologo
La vostra mente,
sognante sul cervello rammollito,
come grasso lacché sopra un unto divano,
io provocherò contro un pezzo di cuore insanguinato;
a sazietà befferò mordace e villano.
Nell’anima non ho un solo bianco capello,
e la decrepita dolcezza è assente!
Stordito il mondo con la forza del mio canto,
vado – bello,
ventiduenne.
O teneri!
Voi l’amore sui violini ponete.
L’amore sui timpani pone un buzzurro.
E come me, rovesciarvi non potete,
per diventare labbra sole e soltanto.
Vieni ad imparare –
da un salotto di batista,
impiegata-modello d’una angelica lega.
Che le labbra sfogli tranquilla,
come una cuoca il libro di cucina.
Se volete –
sarò furioso di carne
– e, come il cielo, mutando i toni –
se volete –
sarò perfettamente tenero,
non uomo, ma – nuvola in calzoni!
Non credo a una Nizza floreale!
Da me di nuovo sono celebrati
gli uomini giaciuti, come un ospedale,
e le donne, come proverbi logorati.
(C) by Paolo Statuti
Grazie, gentile Paolo Statuti, per questa poesia: poesia vera, vera poesia.
Giorgina Busca Gernetti
Concordo, fedele e preziosa lettrice!