Caleidoscopio di poeti polacchi
Inserisco qui molte poesie di poeti polacchi (in ordine alfabetico), da me tradotte casualmente e/o in diverse occasioni, nel corso degli anni. Questi poeti si aggiungono a quelli cui ho dedicato un post a parte nel mio blog. In tal modo in quest’ultimo troverete tutte le poesie nella mia versione, pubblicate a suo tempo nella antologia annessa alla “Guida alla moderna letteratura polacca” di Jerzy Pomianowski (Bulzoni, Roma 1973).
Edward Balcerzan
Evanescenze e riferimenti del fiume
(Rozkojarzenie rzeki)
Si riferiva per mezzo delle rive Vicino
alla prima ondata di movimenti tribali
che lo ricordavano per l’Impetuosità
anche nelle cronache orali
C’erano in esse anche penisole di reticenze
che cessavano a metà parola E secche con gli uccelli
che voltavano con le ali le pagine d’un libro futuro
le pagine del mondo
E gli alberi
che fluivano
sembravano un presentimento di Maiuscole
segnate non con l’oro ma col timbro di voce
Vi si posavano ciotole di bronzo
Non reperti ancora
ma già in frantumi
Si riferiva sorprendente tramite un filosofo
al tempo in generale
in quello pieno di pesci
i cui gorghi non sono tali ma inghiottiscono le zattere
i cui luoghi benché nel verde e nell’alveo di terra
sono così fluenti Come nelle lingue E così balbettanti
Questi erano riferimenti
ormai lontani
Soltanto in mare
aperto
si riferiva in modo esauriente
a distinti sorsi d’acqua dolce
alle monete gettate alla fonte
Ma erano riferimenti abbastanza sciolti
tra righe
di alghe
del fiume che si ramificava
Nel quale continuamente ondeggiava il villaggio
ricoperto di lampade tra i giardini come
una corazza
Un tempo negli occhi resi profondi
da una paura abissale
si riversava come mite Fiume della Dimenticanza
Adesso è nella mappa politica
un nervo
fratricida sotto la spinata linea dei confini
Ciò che nella poesia del fiume è un assurdo
Ciò che forma un altro romanzo-fiume
Zbigniew Bieńkowski (1913-1994)
Varsavia
Costruita dal ricordo, dal sangue e dal dolore
di nuovo vedo il Tuo corpo e sento il Tuo passo.
Oggi il Tuo battito, anche se scuote il mio cuore,
non mi commuove così come un solo Tuo masso.
Ripeto il Tuo nome come unica preghiera
per le esecuzioni, i morti e la liberazione.
Oh sì, darò battaglia con ogni Tua maceria,
perché Tu sia vittoria, impeto e mattone.
Più spesso Ti sei nutrita di sete che di fame.
Non di terra ma di cielo il Tuo suolo è composto.
Un frammento delle Tue mura è un pezzo di pane,
e una goccia del Tuo fiume è il più grande conforto.
1945
Jacek Bierezin (1947-1993)
Emigrazione
Corsi molto per giungere in tempo alla nave ubriaca
che partiva dalla stazione orientale alle 6.40
La valigia era pronta Avevo solo bisogno di qualche libro
come ogni uomo comune ma pensante
Che ha negato i rapporti causa-effetto della rivoluzione
nella sfera della coscienza della felicità e del bello
(leggi i libri Sankya: chi distingue considera
la felicità dell’uomo una sorte di sofferenza).
Niente mi legava a questa città
Alla mia domanda quanto l’India è distante
il vigile rispose annuendo
ma innanzi tutto mi rimproverò aspramente
di aver smesso di scrivere versi
privandolo in tal modo di vita interiore
Sulla strada i tram strepitavano allegramente
Sisifo rotolava il sasso Si trasportava il latte
Apparentemente tutto era normale
Noi come del resto ogni solito schiavo
che non supera i limiti dell’ordine imposto
avendo alle spalle l’esperienza di venti secoli
fingevamo che nulla fosse successo –
e aspettavamo la venuta dei nuovi barbari
Ieri sera con verdetto della coscienza
mi son tolto il diritto all’isolamento interno
Non senza sforzo ho chiuso alle mie spalle la porta
pesante dell’unica impossibile uscita
Ho provato ad occuparmi di consuete cose ed ho iniziato
raschiando tracce di sangue da centinaia di libri assassinati
Il modo tradizionale di vincere il senso di solitudine
che m’è noto da Fromm e dalla vita d’ogni giorno
questa volta è risultato vano (del resto l’avevo previsto)
Ho preso a leggere l’orario indeciso
se prestare attenzione agli arrivi o alle partenze dei treni
Tutto ciò accadde una sera d’inverno quando l’incertezza
delle parole mi si rivelò come verità
Ora correvo per giungere in tempo alla nave ubriaca
che partiva dalla stazione orientale alle 6.40
benché sapessi che non ci sono più navi ubriache
che certi viaggi come sempre non sono possibili
Il viaggio al termine della notte e del silenzio sapeva di sangue
ma dagli angoli sbucava senza posa la miseria della quotidianità
Non riuscivo ancora a capire sebbene sapessi molto
La penna torturata caparbiamente si rifiutò di deporre
Infine sgorgò la luce dalle vene aperte
1972
Janina Brzostowska (1897-1986)
In memoria dei fucilati
a Varsavia
in viale Jerozolimski
il 28. II. 1944
Passanti assorti
sulle tombe delle città bruciate –
e voi, ormai sorridenti,
pieni della grazia dell’essere!
Ricordatevi,
che come la luce
che al mattino getta il primo chiarore
alla finestra
e risveglia
al nuovo giorno,
c’è
ogni giorno pulsante in noi con nuovo flusso
la vita.
Che è colloquio
di sguardi fino in fondo felici,
commozione
della bontà senza riserve,
che è amore.
E che è dolore immenso
e terrore delle mani
che si aggrappano alle sponde del carro
che porta all’esecuzione…
Che è desiderio:
di resistere!
di non morire!
Forse intuirete
l’impossibilità del commiato,
col quale si strappavano ai giorni dischiusi
nel mezzo delle questioni terrene,
diretti verso la morte.
L’impossibilità
in cui c’era tutto,
tutto ciò che è rimasto:
la Patria!
Marian Czuchnowski (1909-1991)
Donne e cavalli
Pestata dall’erba nuda correva la pianura.
Nel fiume donne sode e come il fuoco spavalde
bagnavan delle gambe i lunghi steli e le linfe calde
dei seni che pungevan la blusa sotto la maglia di lana dura.
Il ronzio dell’acciaio vestiva d’aroma la sera.
In basso le nebbie: del silenzio le morte cascate.
Sui colli giumente in calore, di terra odoranti e di sale,
sull’ispido vento poggiavan le groppe sudate.
Fiutando il nudo del maschio spizzicavano con l’erba
Il fresco, il profumo, la primavera.
1931
Tytus Czyżewski (1880-1945)
Primavera del 1917
Alla memoria del poeta Apollinaire
Terra ho più volte invocato
oggi il sole è lo squarcio d’un gigante
già da tempo privo dei pugnali
Cesare Borgia il giullare scarlatto
l’ombra gobba di Riccardo III sul muro
guardano la fetta di luna che sporge
dalla sacca sulle spalle
nella volta del cielo scorrono le rondini
i fiori primaverili sbocciano nei campi
le nubi si preparano alla scontro armato
vedo Alessandro il Grande
dal mosaico pompeiano
le armate coi vessilli escono
dalle trincee di Verdun
e lontano nelle nubi primaverili
si delinea l’elmo scuro d’artigliere
del tenente Wilhelm Kostrowicki
il treno blindato sfreccia nel cielo
il tuono primaverile scuote la terra
fino alle sue viscere bacate
fino al cuore messo a nudo dell’uomo
la tempesta piega un grosso albero
sfogliato là in mezzo ai campi
il verde esuberante della vite selvaggia
s’inerpica sul tronco annerito
Witold Dąbrowski (1933-1978)
Forse chissà Iddio…
Forse chissà Iddio ha l’aspetto d’un generale a riposo.
Ha organizzato tutto.
Or comandano altri, più giovani.
Ha smesso le medaglie, i nastrini, è superiore a questo.
Forse ogni mattina scrive le sue lunghe memorie
piene di rettifiche, chiarimenti e correzioni,
facendo più volte il punto della situazione,
e indicando l’ora esatta.
Non gli permettono di pubblicarle,
hanno elaborato una propria versione dei fatti.
Eppure vorrei leggerle quelle memorie.
1965
Stanisław Grochowiak (1934-1976)
I puliti
Meglio la bruttezza
E’ più vicina al sangue
Delle parole quando radiografate
E tormentate
Essa incolla le forme più ricche
Salva con la fuliggine
Le pareti dell’obitorio
Nella gelità delle statue
Immette odore di topo
Perché ci sono persone così lavate
Che quando passano
Nemmeno un cane ringhierà
Benché non siano sante
E nemmeno quiete
1959
Paweł Hertz (1918-2001)
La gravosa lira
L’occhio brama il mondo, come una musa incostante,
Che dice parole vuote, pur con senno parlando,
La mano non ama alcuno, rimane incurante
E accarezza la bella fronte, l’ombra palpando.
Il sonno incline alla morte, l’amor che fa avanzare
Chiudendo i begli occhi, benché della strada ignaro,
Ma ecco la musa pone fine a questo errare
E togliendo la lira ti porge il lauro amaro.
Nato troppo tardi, troppo presto al fato cedi,
Troppo esiguo per gli angeli, troppo altero per la gente,
E la tua mano inquieta si sforza vanamente
Di toccar le corde d’oro, che solo in sogno vedi.
1938
Al poeta
Se mai creare un’opera fosse dato,
pur negli occhi un disegno scarno,
leggera come un bimbo greco addormentato
sopra una nuvola di marmo.
Ma tu non sei uno scalpello, o penna amata,
tu tremi tra le mie dita, incerta,
nella capitale, dagli azzurri estraniata,
che è per me come Troia deserta.
Qui il vento percuote con le sabbie d’oro,
e mira infallibile alla morte.
Non la creazione ardua, ma il bel lavoro
sopravviverà alla mia notte.
1938
Anna Janko (1957)
Non ho paura
di morire prima che tutto si avveri
prima che con i denti arrostiti dal sole
felicemente sazia
mi chiuda dietro la quarta tavola
e vada alle formiche
lasciando in alto una fila di bambini
e una nobile giustificazione non omnis
Non ho paura
che qualcuno mi aggradisca alle spalle
e non guardandomi il viso
(che forse potrebbe darmi una chance)
la finisca con me in nome di qualcosa
Non ho paura dei selvaggi
tra le affabili pieghe della cultura
muoiono solamente gli eletti dalla sorte
sono soltanto uno dei suicidi
anche se mi uccide qualcuno
incontrato per caso
Józef Nikodem Kłosowski (1904-1959)
Litania della Madonna di Częstochowa
Maria di Jasna Góra,
Vestita di piume argentate, o effige scura,
Da secoli i miracoli ti hanno reso famosa,
Del sole più bella, delle stelle più luminosa!
Scaccia la belva germana dai nostri focolari,
Arresta il fiume di sangue che scorre a Biłgoraj,
Restituiscici alle nostre case e ai nostri campi,
Prega per noi, Madre degli erranti!
Madonna Nera!
Scendi su questa terra sconvolta dalla bufera,
Nei villaggi travolti dalla famelica onda,
Dove la morte più dell’assenzio nei campi abbonda,
Dove la cieca soldataglia uccide i neonati,
Dove i bambini implorano dietro i reticolati!
O Mattutino, o fulgida stella dorata,
Prega per noi, o rosa profumata!
O Madre Afflitta,
Sotto la croce della sofferenza trafitta,
Speranza dei derelitti e iride dei dubbiosi,
Scendi tra quelli che gemono nelle prigioni,
Sorreggi il popolo schiacciato dall’orrida guerra,
Da’ alle ceneri dei martiri la pace eterna,
Fa’ che il nostro paese non grondi più di pianto.
Regina di Polonia, riparaci col tuo manto!
Per i quali giacigli, bottegucce e pigioni,
dimore estranee e grigie,
dovevano rimpiazzare ciò che era più caro:
il cielo sul mare di Genezareth.
Quello calpestato,
che nel lurido tugurio
pesando il pesce e il pane a etti,
quando il fucile
suona
sulla porta
come violino,
la sua pallottola – la sua morte aspetta.
Chi è caduto anche se una volta
picchiato col fucile,
chi sputava sangue in una fogna
quando si alzerà –
le selci della strada
riuscirà a strappare,
se colpire col pugno non basterà.
Chi è stato insultato,
schiaffeggiato,
quando toccherà la pietra,
quando la stringerà –
qualunque cosa accada,
non lo spaventerà più,
non lo spezzerà.
Non c’è nessuna scelta.
Ai massacrati,
ai torturatori
per l’ultima volta questa sera
brilli negli occhi il sole che tramonta.
Non aspettare la notte silenziosa
e non sognare il mattino che arriva…
Ma con la vendetta
gridare in risposta
alla violenza –
lanciare,
lanciare
anche una sola granata!
Tadeusz Kubiak (1924-1979)
Ghetto
Ai fiaccati, ai corrosi dalle fiamme,
ai massacrati in un cigolio di gelide armi,
la rabbia
ha serrato
le mani insanguinate
in pugni.
Ad una percossa, che si chiama Chaja,
ad uno soffocato, che era Salomone –
per i quali nessuna casa
in nessun paese
fu la loro casa.
Che mai in nessun portone
torneranno
e busseranno,
ma scorreranno nell’oceano furioso
fino in capo al mondo.
Per i quali giacigli. bottegucce e pigioni,
dimore estranee e grigie,
dovevano rimpiazzare ciò che era più caro:
il cielo sul mare di Genezareth.
Quello calpestato,
che nel lurido tugurio
pesando il pesce e il pane a etti,
quando il fucile
suona
sulla porta
come violino,
la sua pallottola – la sua morte aspetta.
Chi è caduto anche se una volta
colpito col fucile,
chi sputava sangue in una fogna
quando si alzerà –
le selci della strada
riuscirà a strappare,
se colpire col pugno non basterà.
Chi è stato insultato,
schiaffeggiato,
quando toccherà la pietra,
quando la stringerà –
qualunque cosa accada,
non lo spaventerà più,
non lo spezzerà.
Non c’è nessuna scelta.
Ai massacrati,
ai torturatori
per l’ultima volta questa sera
brilli negli occhi il sole che tramonta.
Non aspettare la notte silenziosa
e non sognare il mattino che arriva…
Ma con la vendetta
gridare la risposta
alla violenza –
lanciare,
lanciare
anche una sola granata!
Jalu kurek (1904-1983)
Pensando a mia madre
Canta la notte.
quasi avesse in gola mille uccelli,
notte dai lunghi capelli,
nuda.
Cieli afosi.
Afosi e tinnanti.
Il firmamento arde di stelle.
La notte scende nei varchi,
nello scuro orizzonte,
nei gelsomini fragranti.
Penso a te,
morta, ma sempre viva,
quando la notte si allunga e non s’interrompe.
Da te, o madre, volo
come foglia d’autunno verso la terra.
La vita come abito si logora.
Un ramo che cade.
Che il vestito si laceri, si strappi,
purché ti abbia fino all’ultimo
sulle labbra.
1957
Leopold Lewin (1910-1995)
Le Nuove Termopili
“Westerplatte si difende!” – avidamente ascolto il ronzio
Che esce dall’altoparlante come da un tumultuoso abisso,
E a un tratto il grido cresce con le onde dell’etere,
Che la guarnigione resiste ancora, che ancora si difende.
Quando cominceranno a mutarsi in storica polvere
E da questa polvere a creare i miti del nostro tempo,
E diranno che sono le Nuove Termopili
E che là perì un intero stuolo di Leònidi,
E quando sul litorale erigeranno una tomba
In onore dell’Ignoto Cavaliere del Mare,
Credendo che questa tomba raffigura la forza
Che difenderà il litorale polacco,
Quando, incantata dalla stupenda leggenda,
La nazione renderà loro l’onore dovuto agli eroi –
Tu non credere: essi vivono e vivranno in eterno,
Westerplatte si difende e mai si arrenderà!
Andrzej Mandalian (1926-2011)
Lamento per san Giorgio
San Giorgio non esiste Non è morto
Né trafitto dalla lancia né con la lancia in mano
Né vincitore né morto da prode Non sulla sella
Né gettato di sella Non fu
Sottoposto a dura prova dai pagani
Né venduto né condannato al martirio
Né immerso nel piombo nella pece nell’immondizia
San Giorgio non è mai esistito
San Giorgio non fu san Giorgio
Le deposizioni di testimoni degni di fede
Non permettono di stabilire l’identità
Si parla di subdole icone
Di leggenda fraintesa L’armatura non era un’armatura
Il cavallo non era un cavallo le gesta non erano gesta
La vergine presente al fatto è scomparsa senza tracce
L’occhio della provvidenza ammicca anziché rispondere
E non servono più le tavole dipinte
Le tele stillanti oro la pietra rozzamente scolpita
San Giorgio non esiste
Il canone della virtù cavalleresca fu creato
In circostanze sospette
Secondo alcuni da un paio di Zingari
Che vagabondavano con la luna e con la favola eterna
Secondo altri in una locanda da frati questuanti
Con le mani vuote certo ma col boccale pieno
Al servizio di qualche impostore vagabondo
La Chiesa accolse la notizia con la dovuta riserva
Ma il popolo la prese subito per buona
Il drago affollò le terre il cavaliere levò la lancia
Per difendere le caste fanciulle e i dolci neonati
Adesso è tutto un abbaglio una sembianza illusoria
Ben presto si saprà che il drago non sputava fuoco
Né sferzava con la coda E’ vero diamine
Il mondo non si compone più di quattro elementi
Il mondo finisce
S’adegua all’occhio ingannatore
Che scorge solo il multiforme anziché l’unità
Nessuno bada più alla liturgia ambrosiana
Nulla più vale la parola di papa Gelasio
San Giorgio è stato abolito
Tutto in regola
Nessuno più cavalcherà nei campi con la bianca armatura
Con la rossa croce
Nessuno più si mostrerà alle schiere presso Gerusalemme
Nulla rimarrà della leggenda nulla resterà delle gesta
Ma che accadrà della fanciulla
Fino a quando deve mantenersi casta
Che accadrà dei neonati
Fino a quando si riuscirà a tacere
In verità vi chiedo
Chi ucciderà il drago
Noi mansueti e poveri di spirito
Che facciamo fiduciosi la pace umili misericordi
Sempre puri di cuore Noi che soffriamo
Noi che piangiamo che abbiamo fame e sete
Noi la cui salvezza è tutta in questa frase
La realtà è menzognera e la vita fallace
Strappandoci a brandelli gli abiti da lutto noi gridiamo
San Giorgio non esiste
Guidaci san Giorgio! (1972)
Leszek Aleksander Moczulski (1938)
* * *
Un caseggiato. Un sudicio spiazzo di fronte. Una panca sbilenca.
Senza intonaco. La tromba delle scale imbrattata di vernice.
Come se chi ha pitturato, ormai non sperasse più.
Che a difesa del diritto, che il riso dei bambini, che la verità
cambierà qualcosa.
* * *
Non capisco questo dialetto.
Mi sento come uno straniero, quando con le parole che conosco
dall’infanzia,
gli atti di violenza vuoi
suddividere in giusti, meno giusti e ingiusti.
Tadeusz Nowak (1930-1991)
I cavalli di legno
Dalla frutta fluisce il buio.
Il fiume ha il ventre melmoso del pesce.
Solo dal mattatoio risplende il bue:
galassia sezionata in quarti.
E noi abbiamo i cavalli di legno
e dai ginocchi materni non scendiamo.
Si scontrano nel campo i capricorni,
scorre il bagliore – e nel giardino appare
incorniciato da un ramo di melo
il mongolo viso dell’inverno slavo.
E quando dei nostri padri soltanto
dai fiaschi narra tonando il sidro,
essi nelle giubbe color tabacco
ruotano dei propri corpi i meloni.
Indossan le vedove vesti nuziali.
E’ l’alba – tonfare di mele,
ravviare di chiome, tergere di mani
e addestrare di cavalli.
Dalla frutta fluisce il buio.
Si va spegnendo il pesce sezionato.
Nitriscono i cavalli nel solaio.
Le madri vanno in abito da lutto
sulle colline imbevute di fiele
e ci prendono sui loro ginocchi.
1959
Salmo del paradiso
S’indora sotto il melo il corpo nudo
Dai seni il frutto rotola ai ginocchi
Nella mia infanzia è già accaduto
ciò che han visto d’erbe e di bestie gli occhi
Andavo presso i meli nottetempo
con accetta corda sega e coltello
per vederli tremare di spavento
per darne in sogno ai nipoti il flagello
Dalla parrocchia dai suoi recisi meli
Adamo ed Eva fuggivano nei campi
io gli scrivevo come il Dio dei cieli
d’infernale veleno colmi canti
E fino in guerra d’un angelo alleato
stringevo un’enorme spada in mano
Oggi mi grida Cristo fucilato
invano o figliolo o angelo invano
Invano Giace l’arcangelo selvaggio
in trincea avvolto nel filo spinato
Eva sulle ferite il miglio ha cosparso
Adamo la spada in bacchette ha mutato
S’indora sotto il melo il corpo nudo
Dai seni il frutto rotola ai ginocchi
Nel grano sotto il melo è accaduto
Coprite all’erba e alle bestie gli occhi
L’amore
Non troverai sulla terra un amore tale,
Balbettante parole sventate e sconnesse,
Che il corpo impaziente non osa toccare,
Perché la mano non tremi per le carezze.
Ma vedevo chi le parole pronunciate
E falsi sospiri accoglieva, non sapendo
Che nelle parole c’è soltanto una parte
Di amore, e che l’altra parte è tormento.
Apprezzo l’amore che toglie il sonno agli occhi,
Per terminare una frase spezzata a metà,
Per il quale gli anni amati son troppo corti
E i secondi di attesa sembrano un’eternità.
Agnieszka Osiecka (1936-1997)
Gli amanti di Via del Sasso
Gli occhi hanno come li hanno tanti
per il cinema solo due lire
hanno pane e birra soltanto
e un freddo da morire
E gli amanti di questa mia città
anelli e fiori non danno
e gli amanti di questa mia città
chi sia Shakespeare non sanno
sono gli amanti di Via del Sasso
Sulle scale negli usci la sera
sfiorano quasi le mani crepate
così stanno fino all’aurora
vecchie le gonne e stracciate
E gli amanti di questa mia città
viaggiano solo sui tranvai
e gli amanti di questa mia città
temono sbirri e portinai
sono gli amanti di Via del Sasso
A un tratto un dì
le torce con sé
decisi vanno
così turpi è ver
Vogliamo Romeo
a tutti gridiamo
in Via del Sasso
mai più ritorniamo
Giulietta vogliamo
urlavan così
a noi Giulietta
siete porci sì
Vanno stormendo
a piena gola
amore straccione
la via sorvola
Poi il buio tornò
finì il chiasso
poi in Via torneranno
del Sasso.
Vedi piccola…
Avevi allora diciotto anni quando in città giunse lui
aveva con sé più toppe che soldi
diceva di aver visto il mondo intero
sì non era delle tue parti
ciò che gli hai dato ha bevuto e mangiato
poi ti prese per moglie
Vedi piccola com’è
tanto cuore tale gesto
vedi piccola com’è
tanto cuore tale gesto
Era sempre elegante
tre camicie al giorno
tu stiri e lui dorme
o fino all’alba se la spassa
quando al mattino tornava
benché ubriaco o arrabbiato
tu gioivi che era sano a salvo
e perché gli eri vicino
Vedi piccola com’è
tanto cuore tale gesto
vedi piccola com’è
tanto cuore tale gesto
In prigione poi egli finì
benchè non avesse ucciso
tu piangevi per la condanna
che ti separava da lui
andavi al cancello della prigione
ogni giorno un pacco o una lettera
qualcuno ti voleva anche sposare
ma tu non rispondevi nulla
Vedi piccola com’è
tanto cuore tale gesto
vedi piccola com’è
tanto cuore tale gesto
Passarono sette duri anni
poi egli uscì di prigione
di nuovo volevi dargli il cuore
ma lui ormai aveva un’altra
piangesti tutti i tuoi occhi
pensa a quanti anni hai
e lui ancora se la spassa
e lui è ancora giovane
Vedi piccola com’è
tanto cuore tale gesto
vedi piccola com’è
tanto cuore tale gesto.
Leon Pasternak (1909 – 1969)
Il prezzo dell’esistenza
Caduti sui campi di battaglia,
i combattenti della libertà
– non si alzeranno per accusare.
Presi dagli sbirri sulla strada,
messi al muro e fucilati
– non si alzeranno per vendicarsi.
Torturati e uccisi nei lager,
calpestati nelle prigioni
– non si alzeranno per giudicarci.
La terra guarirà le sue ferite,
città più belle risorgeranno,
sulle ceneri dei bruciati.
Chi comprenderà la debolezza
e la forza del condannato,
del suo grido davanti agli spari?
Seweryn Pollak (1907-1987)
Simplicio, peripatetico e inquisitore dell’eretico
chiamato Galileo Galilei
Se non parlerai come io ti comando,
non parlerai affatto. Puoi davanti allo specchio
spegnere tutte le luci e restare al buio,
puoi dire tutte le tue verità inventate
per la tua presunzione e per i balordi,
che volevano trarne una scienza inventata.
Circondati di specchi e parla a te stesso,
parla a cento giusti, ti prego non a dieci,
ma a cento – tu, tu uno in cento persone,
parlerai con te stesso a vuoto e al buio,
e nessuno udrà la tua voce, soffocata
dal tuo proprio respiro, dalla tua incertezza
e dal timore, che io ti chiuda la bocca.
Puoi non assicurarmi, che tu stesso hai visto.
Punire i blasfemi che spengono la luce
del cielo e vilmente ci strappano via la terra,
su cui brucano i popoli. Non pestare i piedi!
Sta’ fermo, ti prego, sii umile e dignitoso,
e forse un giorno ti sarà perdonato,
se ciò che dici darai al vento e affiderai
in silenzio alla quiete del firmamento.
Da Bełżec
Scricchiola sotto il piede un osso
per caso pestato –
se fin qui mi hai seguito,
che Tu sia lodato.
Dal fondo dell’umiliazione,
dal fondo del pentimento esclamo –
alla Tua grande famiglia appartengo,
alla Tua bruciata famiglia appartengo,
e questo è un osso del mio cranio.
Non la grazia della comprensione,
non l’oblio Ti chiedo,
ma che la mia ombra
io più non veda.
Che la memoria mi si svuoti,
lasciandomi soltanto:
quest’aria oggi così lieta,
quest’aria rosata,
in cui divampano quei fuochi.
Julian Przyboś (1901-1970)
Dalle ceneri
Vi estraggo – come dall’orecchio dell’abisso,
sento le rovine:
la forma di tutti gli scoppi compressi in un istante,
non case – ma delle bombe le esplosioni fermate.
Il brusio e il rombo dei secoli
concentrato in un istante: la città quando crollava sui vivi:
l’avete raccolta nella vostra morte.
Nel portone bruciato
la faccia emersa di un sepolto in cantina:
l’oscurità.
Tra le colonne abbattute
l’acero fascia il braccio ferito
con la prima foglia di primavera;
dalle ceneri sopra di me
si erge l’albero: insegna della forza
vostra, di nessuno.
Sopra ad essa il tramonto: si è freddato dei bagliori degli
incendi il bagliore.
1945
Feliks Przysiecki (1883-1935)
L’inizio di primavera
La tristezza s’annida nel cappotto liso,
Che sei solo lo dice il bottone mancante,
E nel buco della tua scarpa storta è inciso
Del tuo abbandono il romanzo stravagante.
La vita allude già dall’abito a brandelli
Alla sua vittoria sul cuore credulone,
E quando cammini, come benigni uccelli
Ti inseguon gli occhi delle misere persone.
Perché del tuo cappello la falda sdrucita,
Della cravatta vecchia la bravura altera,
Mostra un veterano sconfitto nella vita,
Che vaga come un esule in terra straniera.
Ma per togliere alla vita il tuo triste fasto,
Che come perla nera brilla misterioso,
Ti lancia soprannomi beffardi e con astio
L’istinto dei meschini, sempre doloroso.
Allora il tuo orgoglio giovanile e restio
Impone al tuo vestito bellezze regali,
Degne d’un poeta condannato all’oblio,
Ed offeso da tante sentenze brutali.
Allora la luna sulle vetrate e sui tetti
Il fasto dei regali festini ti porge…
Oh, sì! Fiero all’indietro il cappello metti,
Ecco, la folla ti saluta con le torce.
E il vento impetuoso delle notti d’aprile,
Che ristora come tersa e fredda corrente,
In omaggio alla tua speranza giovanile
Già il parco riempie d’un inno travolgente.
Ed ecco di nuovo i tuoi pensieri sprecati,
E il profumo di vecchie ridenti stagioni,
Scritti ingialliti, in soffitta fogli bucati,
Che l’oblio ha strappato dalle tue azioni.
Nei solai malandati ritorni esitante,
Dove la luna tra le tendine tarlate
Ti apre dei ricordi il teatro sgargiante,
Dove il sussurro udivi delle donne amate.
1921
Jan Rostworowski (1919-1975)
Un bouquet per Emily
Su un filo d’erba non costruirai una città
non andrai con la nave nelle vene.
Com’è difficile essere uno stretto
tra mare e mare.
Emily Dickinson lo era.
*
Disse Geova: Condanno la nuvola.
La mia ira si abbatterà sulla nuvola!
Disse Emily: Signore,
lascia che io parli un po’ con la nuvola.
E caddero centomila gocce
dopo il loro segreto colloquio.
E ogni goccia sembrava buona
Allo stupito Geova.
*
Coprivano gli occhi gli angeli
quando un calabrone entrava in un giglio.
Non sapevano perché
uscì silenzioso come il ragazzo
quando si chiuse la finestra di Emily.
Oh stammi vicino
ma non entrare in me.
Ho paura della tua forma.
Se tu sarai il vero tu
se aprirai la vera porta
prima che la candela notturna finisca di ardere
porteranno via in una bara
tutti i miei versi.
*
Quante stelle sono necessarie
e quanti fiori
perché la bocca cessi di essere propria
Emily?
Basta una sola stella
e un solo fiore
sottobraccio alla notte
Emily.
*
Le mie braccia sono sottili
come corde d’un violino.
Suonalo Signore!
Suonalo Signore!
E se ne avrai abbastanza
prendimi saldamente per i capelli
e portami in cantina.
Poi allontanati lungo la via lattea
e dimenticami
per l’eternità.
Jarosław Marek Rymkiewicz (1935)
Erotico fuori moda
E’ tempo ch’io chieda di nuovo
Il sospiro d’un ramo senza verde
Sulla mia povera testa ardente, sulla mia testa sobria.
Torcersi le mani e a lungo vagar nella nebbia serale.
Quella mossa con cui si accomoda i capelli,
Quella con cui si toglie il bracciale a ferro di cavallo,
Le labbra che potei solo guardare
E il fruscìo di foglie impaurite sotto i miei piedi.
Eccomi qui, ventenne,
Di fronte a cose non del tutto chiare,
Scrutando i vetri illuminati dell’amore,
Cercando asilo sotto il cielo bruno,
Qui, dove il viluppo del fumo avvolge il mio cuore,
Che ormai per sempre è come in una squallida vignetta:
Trafitto da una freccia e cinto di roselline.
1957
Władysław Schlengel (1912-1943)
Ascolta o Dio tedesco
come pregano gli Ebrei nelle case stravolte
stringendo in mano una sbarra o una mazza:
– Dacci, o Dio, una lotta cruenta,
concedici una morte violenta –
che i nostri occhi prima della fine
non vedano la scia dei binari,
ma dà la giusta mira alle mani,
perché s’arrossi la plumbea divisa.
Prima che le nostre gole si serrino
con un sordo lamento… facci vedere
in quelle mani spavalde e sferzanti
il nostro stesso umano SPAVENTO!
Marek Skwarnicki (1930)
Rifiuto
No, non avrete l’arte.
Nessuno eternerà i vostri volti
Nessuno esporrà le vostre emozioni
Nessuno le vostre pene avvertirà
e non canterà di voi nessuno.
Resterà solo un mucchio di carta
migliaia di telefoni muti
un diploma e una medaglia o le sanzioni
ricoperte di calce quattro pareti
le copie dei vostri atti di morte
e in fondo al cuore il defunto pudore.
No, non avrete l’arte.
Avrete soltanto la forza
che non sarà la vostra forza.
Potrete ordinare
sempreché un ordine vi daranno.
Avrete privilegi
più di tutti gli altri
ma essi affogheranno senza fine
nell’estranea burocratica noia.
E non avrete l’arte.
Essa è della vita la figlia povera
Essa è la difesa dal potere.
Stanisław Ryszard Stande (1897-1937)
Il provocatore
Z. U.
Nelle sedute spara parole come alle pernici
I fatti setaccia con fredda argomentazione
con le dita scava in aria la fossa ai nemici
compagno Callisto è il suo soprannome
fonda circoli e gruppetti in tutto il vicinato
trabocca d’energia e ovunque si fa vedere
con le mazze del lavoro pesta il tempo sbiancato
finché i cuori s’inchineranno e otterrà il potere
una giunta allora organizzerà segretamente
darà bombe in un giorno di festa nazionale
e stenderà un piano d’attentato al presidente
a conoscenza di più d’un capo ministeriale!
sui duri marciapiedi getterà folle avvilite
su aguzze siepi di calci e baionette innestate
sparerà lui stesso sul muro delle divise
formerà coi corpi umani aiole colorate
spiattellerà l’alloggio di quelli un tempo amati
busserà la polizia di notte a mille porte
furtivamente li condurranno ammanettati
avranno i volti pallidi e un’ombra sulla fronte
e quella stessa notte al Chat Noir lui berrà
metterà banconote nel corsetto alle puttane
e in omaggio alla repubblica si sgolerà
urlando l’inno nazionale!
la mattina tornando a casa udrà un secco schianto
vibrerà mostruosamente la vettura fermata
per l’ultima volta vedrà gli ex compagni e intanto
la canna del revolver lo guarderà stralunata
1925
Elżbieta Szemplińska
Il corpo
Arduo è il giorno per gli amanti dopo la lite.
Arduo ed aspro come tendaggi per caso strappati.
Né parola né sguardo chiudon le ferite,
e piangon soli fino al mattino, dall’odio spossati.
Ardua è la vita di quelli che il caso congiunge.
Ardua è la morte in due, ardua è la vita e il conforto:
l’ombra lotta con l’ombra, un cuore l’altro punge,
e se voglion del pane, il coltello lo taglia storto.
Nella notte gelida, in un angusto letto,
ognuno con sé sotto la coltre-lamiera, lontani,
separati, con lo stesso brivido nel petto,
sotto la propria ascella ognuno scalda le sue mani.
E quando il freddo è più intenso, furtiva si scuote l’amante,
e strisciando pian piano, scaltra, tremante,
timida, raggiunge sul lenzuolo ghiacciato
il limite tra caldo e freddo, il bordo del corpo amato.
Ha paura d’avergli sottratto il calore,
lo guarda mentre dorme senza più vigore,
come luna assopita, lontana e silente,
tra nuvole e coltri di latte effervescente:
avvia congiure col corpo. Prende a toccarlo
sulle mani e sulle gote, senza svegliarlo,
supplica e sussurra con le labbra frementi:
dormi…fa freddo…non tradirai? Non menti?…
Non credendo alla sua gioia trema in segreto,
e tremando piange e in sé il caldo dell’uomo attira…
E il corpo come una bestia è mansueto.
Il corpo non si adira.
Irena Tuwim (1899-1987)
Dialogo con la fantesca
Nessuno notò. Solo la fantesca,
Quando tornai in albergo a tarda ora.
Lavava le scale. Sbirciò. Sapeva.
Si torse le dita: “Signora!”
Sul grembiule asciugò le mani,
Mi sistemò le coltri all’istante,
Stremata, nera Madonna italiana,
Poi sul letto mi adagiò ansimante.
Aprì gli occhi – come due mari –
Con voce rotta disse all’improvviso:
«C’era qui una. Pure giovane. Gli occhi aveva chiari
E a lei, signora, somigliava nel sorriso».
Portò le mani al florido seno:
«Ah, era un sorriso senza amore!
…Poi dovemmo abbattere la porta…Fa pena pensare…
…Al filo del ventilatore…
Dovemmo sotterrare il grazioso corpo,
I capelli di seta, il caro volto…»
«Certo non amava il mondo, se ha potuto…»
«Forse il mondo non l’amava molto?»
1930
Rafał Wojaczek (1945-1971)
Ti parlo piano
Ti parlo così piano come un luccichio
E fioriscon le stelle sul prato del mio sangue
Nei miei occhi è la stella del tuo sangue
Parlo così piano che la mia ombra svanisce
Sono un’isola fresca per il tuo corpo
che cade di notte come goccia ardente
Ti parlo così piano come nel sonno
il tuo sudore sulla mia pelle brucia
Ti parlo così piano come un uccello
all’alba il sole cala nei tuoi occhi
Ti parlo così piano
come lacrima che scolpisce una ruga
Ti parlo così piano
come tu fai con me
1967
Patria
Madre saggia come torre di chiesa
Madre più grande di Romana Chiesa
Madre lunga come transiberiana
E vasta come il deserto del Sahara
Madre pia come il foglio del partito
E bella come i vigili del fuoco
E paziente come un inquisitore
E dolorante come nel parto
E autentica come uno sfollagente
Madre buona come un gotto di birra
Seni di madre due vodke devote
E premurosa come un barista
Madre sacra come Regina di Polonia
Madre estranea come Regina di Polonia
Versetto per Miron Białoszewski
Ascoltare fino alla sordità
Affissarsi fino alla cecità
Affannarsi fino all’ultimo fiato
Assorbirsi fino alla distruzione
Ah, assanguarsi – fino al sole!
Amare fino alla repulsione
1970
Wiktor Woroszylski (1927-1996)
Franz Kafka
Quando Franz Kafka scriveva le sue storie non erano esse
lo specchio della realtà Nacque e visse
nella più mite delle tirannie e quando essa cessò nella più
decorosa delle democrazie borghesi dell’Europa In un mondo
così inadatto all’Apocalisse che inghiottito
da essa non smise di stupirsi Nella città ove tuttora
si può trovare traccia di tutti quelli che ci vissero
prima dell’Apocalisse Anche
di Franz Kafka Ecco
la casa dove nacque Di qui la fantesca
lo accompagnava a scuola spaventandolo Qui
lavorava nella società di assicurazioni e non osò mai
prendersi due giorni di permesso per recarsi
dalla sua amata Questa
è la tomba di famiglia dei Kafka Ecco lì tutte
le case soltanto da alcune
cade l’intonaco Gli abitanti
mostrano anche il vecchio pozzo che descrisse
in uno dei primi racconti e l’interno della chiesa
del romanzo Ma
se in ciò che scrisse si volesse trovare l’immagine
del mondo in cui passò la vita sarebbe
ingiusto e questo rispettabile mondo avrebbe il diritto
di sentirsi offeso giacché non fu
tale Fu
più sereno e più semplice Per fortuna
si cominciò a leggere Kafka assai più tardi quando il corpo del mondo
s’intrufolò in ogni sua parola inventata recuperando
il ritardo e gemendo di dolore
1969
Jerzy Zagórski (1907-1984)
Abiterai una casa di legno…
Abiterai una casa di legno e ci starai bene.
Una scatola di travi di pino. Di nodi tramata.
La foresta lambirà la veranda, alla tua portata.
Abiterai una casa di legno e ci starai bene.
Come fumo fluisce all’alba la nebbia dal prato.
Il mondo è una piana negli occhi di vetro offuscato.
Di giorno l’iride sul bosco. Non ti verrà vicino,
se ne andrà oltre il sipario degli alberi di pino.
Da tutto ciò ch’è più prossimo e che si può abbracciare,
è nata l’idea di patria, e poiché ci son cose
più distanti, sono nate altre idee più tristi e preziose,
che quanto è più buio tra noi, tanto più sembran brillare.
Nebbia. Fumi. Nuvole. O notte, quando serena appari,
forse allor ci sorvola la densità delle galassie,
affinché guardando, e credendo a quelle limpide masse,
della tua profondità si resti sempre ignari?
Quel che di giorno è un prato, di notte un nero abisso diventa,
sul quale non sai cosa splenda: deserto, sogno o tormenta.
Dagli alberi cresce il fruscìo dei pipistrelli, e tra la gente
c’è l’amore oscuro – e dal timore proprio lui difende.
Amore rapace e tenero. Invano per nome lo chiami,
invano in forma di bulbi e d’animali lo scolpirai,
perché lui ci lega a sé, ma lo spirito non s’unirà mai,
benché spirito e amore sian sparsi nel fumo e negli astri lontani.
1937
Salmo
(frammento)
Città diletta, città scarnita,
Strade dalla lotta divelte…
Sempre una nuova ferita
L’occhio sulle vostre pietre legge.
Presso piazza Krasiński rabbiosi
I cannoni colpivano il ghetto.
Guizzavano le creste dei fuochi
Da ogni muro, da ogni tetto.
Uomini induriti e spietati
Gelidamente guardano intorno –
I cuori da tempo gelati
E immersi in un buio profondo.
Fluisce degli spari il chiasso
Assieme al fumo da Muranów:
Come grigiastra nebbia in basso,
Come gialla nube lontano.
O sole dei bambini sgozzati
E gettati nel fuoco orrendo,
Sei una macchia di sangue rappreso
Nel fumo bruno dello spavento.
La Madonnina masoviana
Pallida in volto e disperata
Come trepida popolana
Guarda dall’angolo della strada.
Sta lì dietro il vetro della nicchia
Di fronte al bagliore crescente:
Mostra le mani inerme e afflitta –
Non ha più fulmini…non ha più niente.
1943
Adam Ziemianin (1948)
Dall’orto
io newton di un piccolo villaggio
insegno alle mie mele a cadere
non lontano dal melo
ed ecco l’aurea renetta solennemente
siede nelle pieghe
del manto regale
e i meli silvestri rullano
nella stanza della servitù
ma più di tutto mi preoccupa
la grigia renetta
atterrita dal buffone
del re con il racconto
della sorella che peccò in paradiso
non riesco a persuaderla
che il paradiso non sarà più
Antifona dell’angelo custode
angelo di dio mio custode
col cinturino sotto il mento
tu mi sei sempre accanto
pur se le ali nella giberna celi
estate autunno e inverno
stammi alle calcagna
fa che sempre il mio corpo zoppo
senta il tuo sguardo sereno
non lasciare che sosti sul predellino
non farmi sporgere troppo
se offendessi un derelitto
agisci su di me con dolce persuasione
del tuo sorriso d’altri mondi
non posso fare a meno
perché grazie ad esso non tremo
quando attraverso la strada
mattina giorno e notte reggi
governa me proteggi
e difendi il mio corpo stremato
e accompagnami
semmai al commissariato
(C) by Paolo Statuti
Great post.