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Marina Cvetaeva (1892-1941)

25 Ott

 

 

Marina Cvetaeva

*  *  *

Con gli occhi rivolti a terra

Vai, a me somigliante.

Anch’io li ho abbassati!

Fermati, o viandante!

 

Leggi – un mazzetto di viole

E papaveri spiccato –

Che mi chiamavo Marina

E quanti anni m’han donato.

 

Non pensare – qui c’è una tomba,

E ch’io possa apparirti, adesso…

Io stessa troppo amavo

Ridere se non è permesso!

 

E il sangue scorreva in me,

I miei ricci eran ghirlande…

Viandante, anch’io ero!

Oh, fermati un istante!

 

Cogli un selvatico rametto

Di rosse bacche per te, –

Della fragola di cimitero

Una più dolce non c’è.

 

 

Non tenere la testa china,

Lascia il tuo cupo pensiero.

A cuor leggero pensami,

Dimenticami a cuor leggero.

 

Sei tutto inondato di luce!

Sei in una polvere d’oro…

– Oh, che non turbi il tuo cuore

La mia voce dal sottosuolo.

 

Koktebel’, 3 maggio 1913

 

 

*  *  *

Più capiente d’un organo e più sonoro d’un tamburo

Di’ – una volta per sempre:

“Oh” – quando va a stento, “ah” – quando va a meraviglia,

“Eh” – quando non si riesce!

Ah dall’empireo e oh dal campo arato

E ammetti, o poeta,

Che oltre a questi ah, oh,

Nella musa altro non trovi.

La più satura rima

Dell’intimo, il tono più basso.

Così – davanti a Sulamite che arrossiva

Ah! Esclamò Salomone.

Ah – il cuore che si spezza,

La sillaba nella quale si muore.

Ah – il sipario d’un tratto calato,

Oh – un collare da tiro.

Cercatore di parole, drudo verbale,

Scoperto rubinetto di parole!

Eh, sentissi una volta almeno –

Che ah di notte da un bivacco polovesiano!

E s’è piegato, è balzato come belva,

Nei muschi, in una pelliccia sonora…

Ah – è un intero campo gitano!

E con la luna in alto!

Ecco un puledro che mostra i denti a modo suo,

Nitrisce, pregustando la corsa.

Ecco, s’imbatte in un teschio di cavallo,

E ordina Olèg un canto

A Puškin! E – ardendo nel volo –

Nelle eroiche tenebre –

Inarrestabili esclamazioni della carne:

Oh! Eh! Ah!

23 dicembre 1924

*  *  *

Tu ed io da nessuna parte siamo andati –

Son divenuti penuria tutti i mari!

Chi possiede un pugnetto di denari –

Un oceano non potrà mai comprare!

 

L’eterno cibo asciutto della povertà!

L’estate, come crosta, stringere si dovrà!

Il mare in secca s’è mutato:

La nostra estate – altri hanno ingoiato!

 

Per chi scoppia di grasso: il grasso è “l’orpello”,

E non solo il burro mangia, ma anche il cervello

Nostro – nei poemi, sonate, nei cieli grigi:

Cannibali nelle mode di Parigi!

 

Voi che ci gustate: un franco per l’ingresso.

Oh, mostro, come con acqua da toilette adesso

La bocca sciacqui – con un canto eterno!

Siate maledetti – per tutto il mio disonore:

 

Stringervi la mano, quando il pugno prude, –

Con le cinque dita e i cinque sensi pure –

A ricordo del buon sentimento –

Sulla vostra faccia un autografo metto!

 

Parigi 1932 – 1935

Indizi

Come se avessi portato una montagna–

Dolore in tutto il corpo!

Io l’amore lo riconosco dal dolore

Lungo tutto il corpo.

 

Come se in me un campo avessero sezionato

Per qualunque temporale.

Io l’amore lo riconosco dalla lontananza

Di tutti e di tutto qui vicino.

 

Come se una tana in me avessero scavato

Fino al fondo, dov’è la pece.

Io l’amore lo riconosco dalla vena

Che geme lungo tutto il corpo.

 

Da una corrente d’aria come da una criniera

Sono stata avvolta, o Unno:

Io l’amore lo riconosco dalla rottura

Delle corde più fedeli

 

Della gola, – dei meandri della gola

La ruggine, il sale vivo.

L’amore lo riconosco dalla glottide,

No! – dal trillo

Lungo tutto il corpo!

 

29 novembre 1924

*  *  *

Io ricordo il primo giorno, l’infantile bestialità,

La divina confusione del languore e di un sorso,

Tutta la spensieratezza delle mani, tutta la durezza del cuore,

Che come pietra cadeva – e come falco – sul petto.

 

Ed ecco – adesso – tremando di compassione e di ardore,

Una cosa sola: ululare come un lupo, una cosa sola: cadere ai piedi,

Abbassare gli occhi – capire – che per la voluttà il castigo –

E’ l’amore brutale e la passione del forzato.

 

1917

 

Indizi terrestri

 

Così, nella parca alacrità dei giorni,

Così, nella difficile eccitazione per lei,

Dimenticherai l’amichevole trocheo

Della tua virile amica.

 

L’amaro dono della sua severità,

E con lieve timidezza l’ardore celato,

E quell’impatto senza fili,

Che ha nome – lontananza.

 

Tutte le antichità, tranne: da’ e mio,

Tutte le gelosie, tranne quella, terrena,

Tutte le fedeltà, – ma come Tommaso

Che non crede nella lotta mortale.

 

O mio femmineo! Con la canizie dei padri:

Quella fuggitiva non prendere sotto il tetto!

Evviva il levogrudyj kov

Dei saccenti estremi!

 

Ma forse nei cinguettii e nei conti

Stanco delle eterne femminilità –

Ricorderai la mia mano  senza diritti

E la virile manica.

 

La bocca che non esige preventivi,

I diritti che non seguono,

Gli occhi che non dirigono le palpebre,

Che indagano: la luce.

 

1922

 

*  *  *

 

Le foglie dell’albero si dileguano,

Delle rose e del tè?

No, dall’umile biondezza

Dell’abito di lei, della sua seta…

 

I rami nell’acqua si chinano,

Verso le alghe e le macchie ruggine?

No, – senz’anima, senza intenzione

Le braccia di lei abbandonate.

 

La resine si sono versate nell’erba, –

In quelle o nei campi del cuculo?

No, – sulle guance e sulle stuoie

Le lacrime di lei, – che tristezza!

 

Maestro, se tu non fossi così occupato,

E guardassi il chiarore!

Allora nel vuoto di memoria –

Le albe di lei: gli occhi di lui!

 

1922

 Inclinazione

L’orecchio materno attraverso il sonno.

Io ho per te l’inclinazione dell’udito,

Dello spirito – per te sofferente: brucia? Sì?

Ho per te l’inclinazione della fronte,

 

Del corso montano di un fiume.

Io ho per te l’inclinazione del sangue

Al cuore, del cielo – alle isole dei piaceri.

Ho per te l’inclinazione dei fiumi,

 

Delle palpebre…La chiara inclinazione dell’estasi

Al liuto, della scala ai giardini, di un ramo

Di salice a una fila di paletti…

Io ho per te l’inclinazione di tutte

 

Le stelle alla terra (attrazione familiare

Delle stelle verso una stella!) – L’attrazione di un vessillo

Verso i lauri delle tombe sofferte.

Io ho per te l’inclinazione delle ali,

 

Delle vene…L’attrazione del gufo verso una cavità,

L’attrazione dell’oscurità verso il capezzale

Di una bara, – gli anni sai mi sforzo di addormentare!

Ho per te l’inclinazione delle labbra

 

Alla sorgente…

 

28 luglio 1923

 Scrivevo sulla lavagna

Scrivevo su una lavagna di ardesia.

E sulle stecche scolorite del ventaglio,

E sulla sabbia del fiume, del mare,

Coi pattini sul ghiaccio, con l’anello sui vetri, –

 

E sui tronchi che hanno centinaia d’inverni,

E, infine, – perché a tutti fosse noto! –

Che tu sei il prediletto! Il prediletto! Il prediletto! –

Ho firmato – con l’arcobaleno del cielo.

 

Come io volevo, perché ognuno fiorisse

Nei secoli con me! sotto le mie dita!

E dopo, chinata la fronte sul tavolo,

Con una croce ho cancellato – il nome…

 

Ma tu, nella mano di un copista corrotto

Stretto! tu, che il cuore mi pungi!

Da me non tradito! interno dell’anello!

Tu – ti salverai su un libro d’oro.

 

18 maggio 1920

*  *  *

Tu cammini verso il Sole al Tramonto,

Tu vedrai la luce serale,

Tu cammini verso il Sole al Tramonto,

E la tormenta spazza via le impronte.

 

Sotto le mie finestre – impassibile –

Tu passerai nel silenzio della neve,

Devoto di Dio o mio prodigio,

Silenziosa luce dell’anima mia.

 

Io nella tua anima – non annegherò!

Salda è la tua strada.

Nella mano, pallida di baci,

Non conficcherò il mio chiodo.

 

E per nome non chiamerò,

E non tenderò le mani.

Il santo volto di cera

Adorerò soltanto da lontano.

 

E, sotto la lenta neve restando

M’inginocchierò nella neve,

E nel tuo nome santo

Bacerò la neve della sera –

 

Là, dove con passo maestoso

Tu sei passato in un silenzio tombale,

Luce sommessa – immagine gloriosa –

Onnipotente signore dell’anima mia.

 

2 maggio 1916

 Versi

 

I versi crescono, come le stelle e le rose,

Come la bellezza – vana in una famiglia.

E alle corone e alle apoteosi –

Una risposta sola: «Come ho tutto questo?»

 

Noi dormiamo – e, da lastre di pietra,

In quattro petali un ospite del cielo.

O mondo, afferra! Ai cantori – in sogno – si svelano

La formula del fiore e la legge della stella.

 

14 agosto 1918

Angelica

D’una buia cappella, dove l’organo geme,

Della vicinanza d’una immagine soave!…

Della gioia terrena m’è estraneo l’uragano:

Io sono Angelica.

 

Un quieto canto all’unisono risuona,

La linea delle finestre è confusa,

La mia vita dominano, come sogno,

Le volte armoniose.

 

Il mio sguardo nell’infanzia è fuggito là,

Esso dalle città è tormentato.

Mi annoiano le parole e un salone sfarzoso,

Il mondo – che noia!

 

Qualcuno alla Vergine un cero ha acceso,

(Aspetta di guarire una donna inferma?)

Ecco perché tra di voi io taccio:

In tutta me stessa sono diversa.

 

Dolce è la stanchezza delle braccia abbandonate,

Ogni sofferenza qui mi è lieve.

L’edera scura abbraccia come un amico

Le vecchie pietre;

 

Bianco e rosa, qui è fiorito già

come un mandorlo il vilucchio…

La gioia non serve. Del mondo non ho pietà:

Io sono Angelica.

 

 1910

 

 D’inverno

Di nuovo cantano dietro i muri

I gemiti delle campane…

Alcune strade tra di noi,

Alcune parole lontane!

Nella nebbia già dorme la città,

Già è sorta la falce d’argento,

Il tuo bavero la neve

Di stelle ha ricoperto.

Feriscono i richiami d’un tempo?

Le ferite dolgono lungamente?

Eccita nuovo e lusinghiero,

Uno sguardo splendente.

 

Per il cuore egli (castano o azzurro?)

Conta più delle sagge pagine!

La brina imbianca

Le frecce delle ciglia…

Tacciono esausti dietro i muri

I gemiti delle campane.

Alcune strade tra di noi,

Alcune parole lontane!

 

La luna scende chiara nelle anime

Dei libri e dei poeti,

Si sparge la neve

Sul tuo soffice colletto.

 

1910

 

 Preghiera

Cristo e Dio! Io voglio un prodigio

Adesso, quando il giorno spunterà!

La vita per me è come un libro,

Oh, fammi morire, abbi pietà!

 

Tu saggio non dirai severo:

– “Sopporta, l’ora non è arrivata”.

Tu stesso mi hai donato troppo!

Lo voglio subito – va bene ogni strada!

 

Voglio tutto: con l’anima d’un gitano

Andare cantando a rapinare,

Per tutti soffrire al suono d’un organo

E come un’amazzone lottare;

 

Condurre i bambini attraverso l’ombra,

Leggere le stelle in una torre nera…

Perché sia folle – ogni giornata,

Perché sia leggenda il giorno di ieri!

 

Amo la croce, la seta e gli elmetti,

L’anima mia non è un’orma perenne…

Tu m’hai dato l’infanzia – meglio d’una fiaba,

Fa’ ch’io muoia ora – diciassettenne.

 

Tarusa, 26 settembre 1909

 

 Dalle quattro alle sette

 

Nel cuore, come in uno specchio, c’è un’ombra,

E’ noioso stare sola – e con la gente…

Lentamente il giorno si allunga

Dalle quattro alle sette!

Dalla gente non andare – mentiranno,

Al crepuscolo ognuno è crudele.

Ho voglia di piangere. Le dita

Hanno annodato il fazzoletto.

Se offenderai – perdonerò.

Ma non farmi soffrire!

– Io mi affliggo immensamente

Dalle quattro alle sette.

 

1910

 

Saluto dal vagone

 

Più forte è il rombo, alto come una casa,

Per l’ultima volta ondeggia il vagone,

Per l’ultima volta…Andiamo…Arrivederci,

O mia invernale visione!

 

Mio sogno invernale, mio sogno buono,

Io portata via da te dal destino.

Così hanno deciso! Non mi serve il sogno

Né un fardello nel mio cammino.

 

Nel chiasso del treno credere a un miracolo

E verso vaghi giorni lontani andare.

Il mondo è così vasto! In esso

Ti potrò forse dimenticare?

 

Il buio del vagone come un peso sulle spalle,

Nel treno la nebbia irrompe come torrente…

Amico mio lontano – tutte queste parole

Ci illudono solamente!

 

Perché un nuovo paese? Ovunque noia,

Stesso riso e luccichio del firmamento,

E là, come qui, il tuo quieto gesto

Sarà per me un dolce tormento.

 

9 giugno 1910

 

A Byron

 

Io penso all’alba della Vostra gloria,

All’alba dei Vostri giorni,

Destato dal sonno come demone

E come dio per gli uomini.

 

Penso a quando i Vostri sopraccigli

Si unirono sulle faci degli occhi,

A come la lava dell’antico sangue

Si sparse nelle Vostre vene.

 

E penso alle dita – così lunghe –

Nei capelli ondulati,

E agli occhi nei viali e nei salotti

Che Vi hanno sospirato.

E ai cuori, che – troppo giovane –

Voi non aveste il tempo di leggere,

Ai tempi, quando sorgevano le lune

E a onore Vostro crescevano.

 

Io penso a una sala semioscura,

Al velluto, incline alle trine,

A tutti i versi che ci saremmo detti

Voi – a me, io – a Voi.

 

Io penso ancora al pugno di polvere

Rimasto delle Vostre labbra e degli occhi…

A tutti gli occhi che sono nelle tombe.

Ad essi e a noi.

 

Jalta, 24 settembre 1913

 

A Majakovskij

 

Più alto delle croci e dei tubi,

Battezzato nel fuoco e nel fumo,

Arcangelo dal passo pesante –

Salve nei secoli, Vladimir!

 

Egli cocchiere e cavallo,

Egli capriccio e ragione.

Sospirò, sputò sul palmo:

– Resisti, gloria da tiro!

 

Cantore di prodigi di piazza –

Salve, superbo e sporco,

Che la pesante pietra hai scelto

Sdegnando il diamante.

 

Salve, rombo di selci!

Ha sbadigliato, si è vantato – e di nuovo

Rema con le stanghe – l’ala

D’un arcangelo da tiro.

 

18 settembre 1921

 

Dialogo di Amleto con la coscienza

 

– Ella è sul fondo, dove sono fango

E alghe…A dormire in esse

E’ andata, – ma non c’è il sonno là!

– Ma io l’ho amata,

Come quarantamila fratelli

Amare non possono!

        – Amleto!

 

Ella è sul fondo, dov’è il fango:

Il fango!…E l’ultima corolla

E’ emersa sui ceppi lungo il fiume…

– Ma io l’ho amata

Come quarantamila…

         – Meno,

Tuttavia, di un solo amante.

 

Ella è sul fondo, dov’è il fango.

– Ma io…

          (perplesso)

         l’ho amata??

 

5 giugno 1923

 

*  *  *

O mia fedele scrivania!

Grazie che il tronco, come magia,

In tavolo per me trasformato,

Un tronco vivo sia restato!

 

Con la corteccia viva e sulle ciglia

Il gioco delle giovani foglie,

Con le lacrime di resina viva

E le radici fin dove il suolo arriva!

 

17 luglio 1933

 

 

 Prova di gelosia

Come si vive con un’altra, –

E’ più facile, sì? Un colpo di remo! –

Lungo la linea costiera

Più presto è passato il ricordo

 

Di me, isola fluttuante

(Nel cielo, non sull’acqua)?

Anime, anime! – ti siano sorelle,

Non amanti!

 

Come si vive con una donna

Semplice? Senza divinità?

La sovrana dal trono

Deposta (e da quello sei sceso),

 

Come vivi – molto occupato?

Hai freddo? Ti alzi bene?

Con il dazio dell’eterna banalità

Come te la cavi, poveraccio?

 

“Frenesie e agitazioni –

Basta! Prenderò una casa in affitto”.

Come si vive con una qualunque –

O mio diletto!

 

Più naturale e gustoso

E’ il cibo? Ti rimpinzi – non ti lamenti…

Come vivi con una simile –

Tu che hai calpestato il Sinai?

Come si vive con una estranea,

E’ di qui? Sincero – ti è cara?

La vergogna con le briglie di Giove

Non ti frusta la fronte?

 

Come vivi – la salute –

Può andare? Ti va di cantare?

Con la piaga dell’eterna coscienza

Come te la cavi, poveraccio?

 

Come va con la merce

Del mercato? L’affitto è caro?

Dopo i marmi di Carrara

Come vivi con la polvere

 

Del gesso? (Da un blocco scolpito

Dio – e del tutto frantumato!)

Come vivi con la millesima –

Tu che hai conosciuto Lilith?

 

Delle novità del mercato

Sei sazio? Ora cieco alle magie,

Come vivi con una donna

Terrena, senza il sesto

 

Senso?..

Su, senza finzioni: sei felice?

No? In un baratro senza profondità –

Come si vive, mio caro? E’ più dura?

Come lo è per me con un altro?

19 febbraio 1924

 

 

 Il poeta

3

Che devo fare, cieca e figliastra,

In un mondo dove ognuno è paterno e vedente,

Dove le scomuniche sono come terrapieni

Della passione! Dove il pianto

E’ chiamato raffreddore!

 

Che devo fare, per costola e mestiere

Corista! – come linea! abbronzatura! Siberia!

Tra le mie chimere – come lungo un ponte!

Con la loro imponderabilità

In un mondo di pesi.

 

Che devo fare, cantante e primogenita,

In un mondo, dove il più nero è grigio!

Dove l’estro si conserva come in un termos!

Con questa smisuratezza

In un mondo di misure?!

 

22 aprile 1923

 

 

La mia poesia già così lontana…

La mia poesia già così lontana,

Che non sapevo ancora quanto vale,

Sgorgata come un getto di fontana,

Come scintille di un fuoco artificiale.

In un santuario entrata irruente,

Tra sogno e incenso, come diavoletti,

Poesia così giovane e sofferente,

– Versi mai ancora letti! –

Di polvere coperta e disseminata

Là dove nessuno mai la prenderà,

La mia poesia, come un vino pregiata,

Una sorte migliore riceverà.

1913

 

Sotto la carezza di un plaid di felpa

Sotto la carezza di un plaid di felpa

Rievoco ciò che ieri ho sognato.

Ma cos’era? – Di chi la vittoria? –

Chi la sconfitta ha riportato?

Su tutto ho riflettuto ancora

E ripensando provo dolore.

In ciò per cui non ho parole

Era nascosto l’amore?

Chi cacciava e chi era la preda?

Tutto maledettamente non chiaro!

Cos’ha capito facendo le fusa

Il mio gatto siberiano?

In questo duello di riluttanze

In quale mano era la palla soltanto?

Il cuore di chi, il Vostro o il mio

Correva così tanto?

Eppure – che c’era in questo?

Perché tanta voglia e dispiacere?

Non lo so: ho vinto forse?

Ho perso? Lo potrò sapere?

1914

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti