Nacque il 14 ottobre 1923 in Inghilterra, a Illford (Essex). Il padre era un ebreo bielorusso convertito al cristianesimo e diventato pastore anglicano. La madre era un’insegnante gallese che amava recitare ad alta voce ai famigliari brani di Joseph Conrad, Charles Dickens e Lev Tolstoj. Non frequentò mai la scuola e si formò in casa. Fin dai primi anni dimostrò entusiasmo per la scrittura, studiò balletto, arte, pianoforte e Francese, oltre alle materie fondamentali. “Prima di avere cinque anni, ero già un’artista e avevo un destino” – ricordò in seguito. A cinque anni infatti dichiarò che sarebbe diventata scrittrice. A dodici anni mandò alcune sue poesie a T.S. Eliot, che le rispose con una lunga lettera di incoraggiamento.
Il suo debutto poetico ebbe luogo nel 1940 sulla rivista “Poetry”, mentre la sua prima raccolta La doppia immagine uscì nel 1946. In una sua nota, scritta per una antologia, la Levertov si descriveva come “ex volontaria per lavorare la terra nel periodo bellico, domestica a ore, bambinaia, che ha sposato recentemente un militare americano e spera di trasferirsi negli Stati Uniti.” Il militare era Mitchell Goodman, un ex ufficiale artigliere e aspirante scrittore, che sposò nel 1947 e dal quale divorziò nel 1975. La poetessa confessò ai genitori che non era “romanticamente innamorata” di lui, ma che egli almeno non sembrava una persona ordinaria e trascurata, e aveva un carattere realmente buono.
Nel 1948 lasciò col marito l’Inghilterra per stabilirsi negli USA, dove insegnò letteratura in varie università e fu naturalizzata cittadina americana nel 1956. I suoi inizi come poetessa americana furono accolti favorevolmente dalla critica. Le sue prime due raccolte pubblicate negli USA hanno ancora forma e linguaggio tradizionali, ma in seguito fu sempre più affascinata dall’idioma americano e subì l’influenza dei poeti della Montagna Nera, specialmente il mistico Charles Olson e William Carlos William. Il suo primo libro americano di poesie Qui e adesso mostra gli inizi di questa trasformazione. Negli anni ’60 e ’70 divenne più attiva politicamente nella vita e nel lavoro. Si fece conoscere come poetessa femminista e rivoluzionaria, come voce poetica della rivolta sociale contro l’ingiustizia, la guerra nucleare e più tardi contro la guerra del Vietnam. In risposta a quest’ultima, aderì alla “War Resisters League”, e nel 1968 firmò la “Writers and Editors War Tax Protest”, promettendo di non pagare le tasse per protesta contro la guerra. Parla come donna, e il suo impegno politico, le sue vicissitudini amorose, la solitudine in una grande città, la compagnia delle persone care, costituiscono il tessuto delle sue poesie. Lentamente la natura attira sempre più la sua lirica.
Verso la fine della vita ha pubblicato due raccolte di poesie scelte, una intitolata La vita intorno a noi (1997) ha per oggetto l’attenzione che dovremmo rivolgere agli alberi, a un campo di grano, agli animali, agli uccelli, ovvero a tutta la natura, che l’uomo ha sconsideratamente sfruttato, tanto da anticiparne la distruzione. Per Denise Levertov la contemplazione dei paesaggi, degli alberi, delle acque, del canto degli uccelli, delle stagioni, ha un’enorme importanza come liberazione dagli affanni umani, come apertura a una diversa dimensione, al “colore dell’eternità”. La poetessa rivoluzionaria, diventando poetessa “ecologica”, ha raggiunto le più personali percezioni di forma e colore, e riflessioni sull’esistenza. In molti suoi versi una montagna vista da lontano, in diverse ore del giorno e in differenti formazioni di nebbie e di nuvole, diventa la metafora di una Presenza che sfugge alle denominazioni della nostra lingua. L’altra raccolta, pubblicata anch’essa nel 1997, ha come titolo La corrente e lo zaffiro, e come sottotitolo Poesie scelte su temi religiosi. In essa Denise Levertov ha riunito 38 poesie tratte da sette precedenti raccolte, con l’intento di “tracciare il mio cammino – come lei stessa scrisse nella prefazione – dall’agnosticismo alla fede cristiana, un cammino che include molti dubbi e domande, ma anche molte affermazioni.” Ricordiamo che la poetessa si era convertita al Cristianesimo nel 1984, e alla fede cattolica nel 1989.
Il poeta polacco premio Nobel Czesław Miłosz fu legato da profonda amicizia con Denise Levertov e tradusse molti suoi versi. Ecco cosa scrive della sua poesia: “Forse per questo amo tradurre le sue poesie, perché in esse c’è tanto g u a r d a r e . Il più delle volte sono brevi annotazioni di un particolare della natura, di un paesaggio, e ogni volta si sente che le cose di questa Terra sono per lei in certo qual modo simboliche. Come se tendessero a diventare un segno.
Scrisse e pubblicò più di venti libri di poesie, nonché raccolte di saggi e di traduzioni. Morì il 20 dicembre 1997 a 74 anni e fu sepolta nel Lake View Cemetery a Seattle.
Poesie di Denise Levertov tradotte da Paolo Statuti
I muti
I gemiti degli uomini
quando incrociano una donna sulla strada
o sulle scale della metro
per dirle che è una femmina
e che il loro corpo lo sa,
sono una specie di motivo,
una canzone alquanto brutta, cantata
da un uccello con la lingua tagliata
ma intesa come musica?
O sono il muggito soffocato
di sordomuti intrappolati in un edificio che
si riempie lentamente di fumo?
Forse entrambi.
Sembra che questi gemiti
siano tutto ciò che possono fare,
ma una donna, suo malgrado,
sa che è una forma di omaggio:
se fosse priva di grazia
la incrocerebbero in silenzio:
perciò non è solo per dire,
che lei è un caldo buco. E’ una parola
in una lingua-rammarico, niente a che vedere
con la primitiva lingua delle caverne;
una lingua angustiata, malata, depressa
in disfacimento. Lei vorrebbe
respingere questo omaggio
disgustoso, e non può,
esso gira e ronza nel suo orecchio,
cambia il ritmo dei suoi passi,
i manifesti strappati nei corridoi rombanti
lo ripetono,
vibra e ringhia come un treno in arrivo.
A un tratto il suo polso
accelera,
ma i vagoni rallentano e stridono
alla fermata mentre il suo comprendonio
traduce quel suono nelle parole:
“Vita dopo vita dopo vita passa
senza poesia,
senza decoro,
senza amore.”
Una sera di febbraio a New York
Quando i negozi chiudono, una luce invernale
apre l’aria al blu violaceo,
luccicano di brina attraverso il fumo
i grani di mica, il sale del marciapiede.
Quando gli uffici chiudono, liberati autonomi
i piedi modellano le strade
in fretta e furia; i palloncini delle teste
scorrono e s’immergono su di essi; i corpi
non sono realmente là.
Quando le luci si accendono e il cielo si oscura,
una donna con i tacchi storti dice ad un’altra
mentre vanno insieme di buon passo:
“Sai che ti dico, io più di tutto
amo la vita. Io amo la vita! Anche se un giorno
sarò vecchia e avrò l’affanno o zoppicherò! Sai?
Se mi trascinerò…- anche allora…” Il resto si perde.
I molteplici confusi toni
del cambio delle marce, una danza
in tutte le direzioni, un fiume a quattro rami.
La prospettiva del cielo
incuneata tra i viali, lasciata allo sbocco delle strade,
il cielo ad ovest, il cielo ad est: più vita stasera!
Un po’ di tempo libero nei sobborghi dell’inverno.
Cosa si ottiene vivendo vicino a un lago
Che è largo
e calmo e delicatamente
animato, largo e
piano, rispecchiante l’intangibile
distesa del cielo
sulla sua fresca, fredda, serena
superficie che noi possiamo
toccare, penetrare, gustare.
Che è largo e ininterrotto salvo che
qui una vela, là
una costellazione di uccelli acquatici –
un prato di acqua
diresti,
una radura in un bosco
di forme e voci ingarbugliate,
di ansiose intenzioni, di urgenti
ricordi: un profondo, puro
respiro per colmare
l’anima, un gesto
interiore, le braccia
allargate per echeggiare
quella muta
generosa estensione
che chiamiamo lago.
Un cigno sotto la neve
Sul ghiaccio che si oscurava, sottile, spaccato
sembrava esserci una palla di neve a forma di cuore,
Fortemente gelata, il suo bianco
identico al bianco non calpestato
sulla riva del lago. Da vicino, la sua triste faccia –
la maschera e il becco – diventavano più chiari, il lungo
cilindro del collo, e i piedi piatti, bilanciati,
stanchi, immobili. Una traccia di acqua nera dietro,
un gesto di abbandono. Soffici nell’aria calma, i fiocchi
cadevano di continuo. Silenzio
profondo, profondo. Il breve giorno
si è fermato, interminabile.
Il segreto
Due ragazze scoprono
il segreto della vita
nella inattesa riga
di una poesia.
Io che non conosco
il segreto ho scritto
la riga. Loro
mi hanno detto
(tramite terzi)
che l’hanno trovato,
ma senza dire qual era
e nemmeno
in quale riga si trovava. Di sicuro
adesso, passata una settimana,
hanno dimenticato
il segreto,
la riga e il titolo
della poesia. Le amo
per aver trovato ciò
che io non posso trovare,
e perché mi amano
per la riga che ho scritto,
e per averla dimenticata,
cosicché
un migliaio di volte, finché la morte
non le visiterà, possono
scoprirlo di nuovo, in altre
righe,
in altri
fatti. E perché
vogliono conoscerlo,
perché
credono che esista
una tale segreto, sì,
per questo le amo
più di tutto.
Vivendo
Il fuoco nella foglia e l’erba
così verde sembra
che ogni estate sia l’ultima estate.
Il vento soffia, le foglie
tremando al sole,
ogni giorno l’ultimo giorno.
Una salamandra rossa
così fredda e così
facile da prendere, come in sogno
muove i suoi piedi delicati
e la lunga coda. Tengo
la mia mano aperta perché vada via.
Ogni minuto l’ultimo minuto.
Una donna incontra un vecchio amante
Lui col quale correvo, mano nella mano,
tirando calci alla foglie coriacee lungo l’Oak Hill Path
trenta anni fa,
mi è apparso davanti con la faccia turbata, pallido,
quasi irriconoscibile, esitante,
zoppicante.
Lui che non ricordo di averlo sentito ridere sonoramente,
ma vedo che sorride nell’occhio della mente, contento di sé,
piangeva sulla mia spalla.
Lui che sembrava sempre
prendere e mai dare, che così a lungo
non potevo dimenticare,
ricordava tutto ciò che io da tempo ho dimenticato.
Lo scrittore e il lettore
Quando una poesia mi giunge
quasi pronta come facendosi strada
verso la luce attraverso il braccio, la mano e la penna,
su un foglio; o quando
abbozzo dopo abbozzo, lentamente
cresce, mutandosi in se stessa,
ed esige di completare ciò che manca,
di togliere ciò che è inutile –
finché in grado di respirare da sola
può lasciarmi –
allora provo timore
per essere stata scelta di nuovo per questo compito,
e anche gioia e lo strano e noto
segno del destino.
Ma quando leggo o ascolto
una poesia perfetta, creata
da qualcun altro, qualcuno forse di cui
non ho mai sentito parlare prima – una poesia
che mi arreca irresistibili visioni, la musica
che non mi aspettavo di sentire,
un brivido, la sensazione
di una nuova ansia e speranza, una poesia
vibrante di propria
forza vitale –
allora dimentico
l’isolato timore, la limitata gioia,
provando ciò che provano i cantori in un coro,
partecipando con umiltà e fervore
all’armonia che loro stessi creano,
nelle onde e nel fruscio dell’oceano di musica,
e tacciono, per ascoltare, quando la melodia
rotea su di loro in un placido silenzio.
Per esempio
Spesso non è niente di speciale: può essere
un treno che sferraglia né veloce né lento
da Melbourne a Sydney, e la luce che cala.
Abbiamo attraversato un largo fiume ricordato
da un racconto sulla fanciullezza e un amore fatale,
scritto in una prosa come vodka, limpida e bruciante –
cala la luce e allora
accanto ai binari
una macchia di eucalipti, un irrilevante
frammento di bosco, guarda dalla tua parte,
non te, attraverso te, attraverso il treno,
al di là di esso – fissa coi rami e coi cenci di corteccia,
qualcosa al di là del tuo passaggio. Non è,
questo brandello di veduta più bello
di un milione di altri, né meno bello di tanti altri;
qui tu non hai nessun passato, nessun ricordo,
e non metterai mai piede tra queste indistinte
provvisorie presenze. Forse lascerai questo continente
e non tornerai mai più; ma esso rimarrà con te:
anni dopo, ogni volta
che la sua confusa immagine guizzerà nella tua testa,
ti strapperà il vecchio grido:
O Terra, amata Terra!
– come molte altre pallide
costellazioni di paesaggi fanno, o un frammento
di pietra muscosa, o una vecchia tettoia
dove una volta ti sei riparata da una pioggia scrosciante
nell’Essex, appoggiata a una ruota o alle stanghe
di un carro polveroso, e ti sei mossa quando hai sentito
un merlo cantare di nuovo, benché la pioggia
non fosse del tutto cessata; e, come pensasti che ci fosse,
nella buia parte dove minacciose nubi
erano ancora ammassate, c’era un’esile traccia
di arcobaleno; e di fronte l’attesa luce
del mezzogiorno dell’Inghilterra dell’Est, e le foglie
goccianti e lucenti. Le pozzanghere, le erbacce
lungo il cammino nettate dalla loro polvere. O terra,
di nuovo in me quel grido –
Erde, du liebe…
La serva di Emmaus (Un dipinto di Diego Velázquez)
Lei ascolta, ascolta, trattenendo il respiro.
Quella voce di sicuro
è la sua – l’unico
che l’ha guardata, una volta,
confusa tra la folla, come nessuno mai
l’ha guardata?
L’ha vista?
Le ha parlato?
Di sicuro le sue mani
hanno preso il piatto col pane dalle sue proprio ora?
Le mani che posava sui moribondi e li guariva?
Di sicuro quel volto – ?
L’uomo crocifisso per sedizione e bestemmie.
L’uomo il cui corpo è scomparso dal sepolcro.
L’uomo che alcune donne hanno visto
questa mattina vivo?
Coloro che hanno portato questo straniero a casa
alla loro tavola
non riconoscono ancora con chi essi siedono.
Ma lei nella cucina,
prendendo distrattamente la brocca del vino
da portare,
una giovane serva Nera, che ascolta avidamente,
si gira e vede
una luce intorno a lui
ed è certa.
Contrabbando
L’albero della conoscenza era l’albero della ragione.
Ecco perché il suo gusto
ci ha cacciati dall’Eden. Quel frutto
c’era per essere seccato e ridotto in polvere
e usato un pizzico ogni tanto, come condimento.
Dio forse aveva in mente di parlarci in seguito
di questo nuovo piacere.
Noi ci siamo riempiti la bocca di esso,
ci siamo rimpinzati di ma di se di come e di nuovo
di ma, senza conoscere meglio.
E’ tossico in grandi quantità; le esalazioni
turbinavano nelle nostre teste e intorno a noi
formando una densa nuvola induritasi come acciaio,
un muro tra noi e Dio. Lui Che era il Paradiso.
Non che Dio sia irragionevole – ma la ragione
in tali dosi è diventata una tirannia
e ci ha rinchiusi entro i suoi limiti, una cella lucida
che riflette i nostri volti. Dio vive
nell’altra parte di questo specchio,
ma attraverso una fessura, là dove la barriera
non tocca perfettamente il suolo, riesce ancora
a penetrare – come luce filtrata,
scaglie di fuoco, una melodia udita
e poi perduta, e udita di nuovo.
(C) Paolo Statuti