Tag Archives: Konstantin Bal’mont

Konstantin Dmitrievich Bal’mont

1 Set

Konstantin Bal’mont

 

Konstantin Dmitrievič Bal’mont, poeta, critico e traduttore, fu uno dei primi poeti simbolisti dell’Epoca d’Argento della letteratura russa. Nacque il 15 giugno 1867 nel villaggio di Gumnišci, nei pressi di Vladimir, da una nobile famiglia. Della sua infanzia e adolescenza egli scrisse nella sua autobiografia: «I miei migliori maestri di poesia furono la nostra tenuta, il frutteto, i ruscelli, le paludi, il fruscio delle foglie, le farfalle, gli uccelli e le aurore».

Nel 1884 fu espulso dal ginnasio per essere entrato a far parte di un gruppo rivoluzionario. Quando frequentava la facoltà di Legge all’Università di Mosca, partecipò a una rivolta studentesca e fu espulso anche da lì. Poco dopo fu riammesso agli studi, ma non li terminò. Nel 1889 lasciò l’università per la letteratura. Su ciò che influì maggiormente sul corso della sua vita, Bal’mont scrisse: «E’ difficile elencare le esperienze che hanno lasciato un’impronta nella mia vita, ma ci proverò: la lettura di “Delitto e Castigo” quando avevo 16 anni e poi “I fratelli Karamazov” a 17. Quest’ultimo libro mi ha dato più di ogni altro libro al mondo. Il mio primo matrimonio (quando avevo 21 anni, e che finì col divorzio cinque anni dopo), il mio secondo matrimonio quando ne avevo 28. I suicidi di molti miei amici quando ero giovane. Il mio stesso tentativo di suicidio (a 22 anni), quando mi gettai dalla finestra al terzo piano, riportando fratture multiple, ma che portò a un risveglio senza precedenti della mia mente e della volontà di vivere. La scrittura di poesie (la prima a 9 anni, poi a 17 e 21) e i viaggi in Europa (restai particolarmente impressionato da Inghilterra, Spagna e Italia).

Dopo vari tentativi falliti finalmente riuscì a pubblicare la sua prima raccolta di poesie nel 1890. Ma fu un fiasco e Bal’mont distrusse quasi l’intera edizione. Poi, anziché scrivere, si dedicò alla traduzione, sfruttando anche le sue straordinarie capacità linguistiche e la conoscenza di una dozzina di lingue. Tradusse così in russo, tra gli altri, Poe, Ibsen, Calderon, Verlaine, Baudelaire, Whitman, nonché opere di poeti armeni e georgiani. Nel 1893 pubblicò l’intera opera di Percy B. Shelley in russo. Ma tradusse anche da altre lingue slave, dall’indiano e dal sanscrito. Il successo conseguito come traduttore lo spronò a pubblicare altri suoi lavori, e così nel 1894 vide la luce la raccolta “Sotto i cieli del nord”, in cui cantava l’astratta bellezza di favolosi paesaggi boreali, seguita da “Il silenzio” nel 1898. Queste opere gli procurarono il riconoscimento e il successo tanto attesi.

La poesia simbolista di Bal’mont si esprimeva attraverso allusioni e ritmi melodiosi. Divenne l’impressionista della poesia, del suo mondo fatto di delicate osservazioni e fragili sentimenti. Nel 1903 uscirono le sue raccolta più belle: “Saremo come il sole” e “Soltanto l’amore”. La sua popolarità era ora all’apice. La sua poesia diventò la nuova filosofia che segnò l’inizio dell’Epoca d’Argento. Nella creazione successiva Bal’mont mutò l’intonazione lirica in un tono più aggressivo e alquanto sorprendente. Egli protestava contro l’ingiustizia in generale, ma il suo spirito ribelle esplose nella controversa poesia “Il piccolo sultano”, nella quale egli criticava lo zar, e questo gli procurò l’esilio da San Pietroburgo e il divieto di abitare nelle città sedi di atenei. Allora il poeta lasciò la Russia, divenne un esiliato politico e viaggiò molto nei vari continenti. Nel 1913, in occasione del trecentesimo anniversario della dinastia dei Romanov, a tutti gli emigrati politici fu concessa l’amnistia e Bal’mont poté tornare in Russia. Nel 1917 egli accolse con entusiasmo la Rivoluzione di Febbraio, ma non mostrò lo stesso gradimento per quella di Ottobre. Soprattutto non poteva accettare la nuova politica volta alla soppressione dell’individualità. Egli ricevette un visto temporaneo e nel 1920 lasciò la Russia per sempre. Si stabilì a Parigi con la famiglia. Nell’esilio scrisse 22 libri dei circa 50 che costituiscono il suo patrimonio letterario. La sua poesia però era in declino. Inoltre non riusciva a inserirsi nella comunità degli immigrati russi e si isolò da essi. La nostalgia per la sua terra lo tormentava. Dopo il 1930 i segni dei suoi disturbi mentali si fecero sempre più evidenti, e le sue condizioni furono peggiorate dalla povertà, e soprattutto dal digiuno di scrittura. In realtà finì vittima della pazzia.

Morì il 23 dicembre 1942 nella Francia occupata dai nazisti, all’età di 79 anni e fu sepolto nella piccola città di Noisy-le-Grand. Sulla lapide fu semplicemente scritto: KONSTANTIN BAL’MONT, POETA RUSSO.

Bal’mont ebbe una grande influenza sulla letteratura e poesia russa, liberandole dai vincoli della vecchia scuola e creando nuovi mezzi espressivi. Egli aveva, tra l’altro, una straordinaria abilità di trattare i suoni, combinando le parole in modo da esprimere le impressioni poetiche in modo musicale. A questo proposito, Renato Poggioli, critico specializzato in letteratura russa e illustre studioso di critica comparata, ha scritto: «Egli riduce la poesia soprattutto a suono, ad “amore sensuale della parola”, o, per usare le sue parole, a una “illusione canora”». Il poeta Andrej Belyj lo definì un uomo solitario e vulnerabile, completamente fuori dalla realtà: «Non riusciva ad amalgamare e armonizzare i tesori ricevuti dalla natura, spendendo la sua ricchezza spirituale senza uno scopo preciso». Marina Cvetaeva disse di lui che “avrebbe dato a un bisognoso il suo ultimo pezzo di pane, il suo ultimo ciocco di legna”. Mark Talov, un traduttore russo che nel 1920 si trovò senza un soldo a Parigi, ricordava quante volte, dopo aver lasciato la casa di Bal’mont, egli si trovava del denaro in tasca; il poeta (egli stesso molto povero) preferiva aiutare in modo anonimo, per non mettere in imbarazzo un visitatore. Il poeta Valerij Brjusov scrisse di lui: «Regnava sulla poesia russa all’inizio del Novecento…Genio spontaneo, viaggiatore instancabile, idolo di tutta la sua generazione, distintosi per le sue avventure amorose e azioni stravaganti».

Poesie di Konstantin Bal’mont tradotte da Paolo Statuti

*  *  *

Io libero vento, io soffio senza sosta,

Agito le onde, accarezzo il querceto,

Cullo i campi, cullo l’erba verde,

Tra i rami sospiro, e poi mi acquieto.

A primavera, come messo maggese,

Bacio i mughetti, del sogno infatuato,

L’azzurro muto ascolta il vento,

Io soffio, languisco, lieve, assonnato.

In amore infedele, mi muto in ciclone,

Spazzo le nubi, increspo il mare,

Sfreccio nelle piane con lungo lamento –

E nello spazio muto inizia a tuonare.

Come fata che altra fata accarezza,

Di nuovo lieve e felice sono io,

Mi stringo agli alberi, sul campo respiro

E, sempre libero, io soffio l’oblio.

Parole-stiletti

Sono stanco di tenere parole,

Di questi armoniosi conviti,

Di queste melodiche cantilene

E di questi elogi infiniti.

Io voglio strappare l’azzurro

Dei sogni tranquillizzati.

Io voglio edifici in fiamme,

Io voglio uragani infuriati.

L’ebbrezza della pace –

La ragione si assopirà.

Si accenda un mare di ardore,

E nel cuore tremi l’oscurità.

Io voglio suoni diversi

Per i miei diversi banchetti,

Esclamazioni prima di morire,

Io voglio parole – stiletti!

*  *  *

Voglio essere spavaldo, voglio essere audace,

Intrecciare grappoli di succo pieni.

Voglio ubriacarmi di uno splendido corpo,

Voglio il calore dei tuoi seni!

Voglio strapparti gli abiti di dosso,

Noi, due brame in una fonderemo.

O dei andate! O gente andate!

Mi è dolce che insieme staremo!

Domani sia pure buio e freddo,

Oggi il cuore a un raggio darò.

Sarò felice! Sarò giovane!

Io lo voglio! Io spavaldo sarò!

Rivali

Possiamo andare per vaste pianure,

Sempre per strade separate.

E resterà ciascuno signore assoluto,

Finché non spunterà la stella fatale.

Noi possiamo gettare ombre inquiete,

La luna le ingrandirà in lunghezza.

Nella stessa ascesa saremo i gradini,

E pari – finché non ameremo la stessa.

Allora noi mentiremo, senza aiutarci mai,

Allora il nostro dio scorderemo.

Noi possiamo, possiamo, molto,

O mio pari, ma solo se due resteremo.

A lei che fa giochi d’amore

 

Ci sono baci liberi come sogni,

Beati e lucenti, deliranti.

Ci sono baci freddi come neve.

Ci sono baci anche oltraggianti.

Oh, baci dati con violenza,

Oh, baci dati per rivalsa!

Quanto ardenti, quanto strani,

Con vampa di gioia e ripugnanza!

Fuggi con timore dalla frenesia,

I miei sogni immensi non hanno nome.

Io sono forte della volontà di amare.

Forte dell’arroganza – indignazione!

Fiore italiano

L’amore è la luce che viene a noi di là,

Dal regno stellare, dall’azzurra sommità,

Esso risveglia in noi la brama di prodigio,

E di bellezza.

E la bellezza è un raggio che annega,

Lungi dal sole, in un buio di ombre,

Quando esso lo versa

Nelle menti umane.

E, se lo spirito umano è saturo di luce,

Che una stella celeste gli manderà,

Esso avido si affretta in risposta,

Là, là.

 

Dare se stessi

Dare se stessi come preda,

Dimenticare le parole – tuo, mio,

Provare della tortura il tormento,

E amarlo come la luce.

Non provare né paura né rimorso,

Benedire la propria tristezza,

Benedire la propria disperazione,

Dire – nulla mi dispiace.

Essere pari ai miseri, ai differenti,

Prima del grido – essere come un sospiro:

Così si governano le forze possenti,

Così tra la gente tu sarai Dio.

La nascita della musica

Risonava il mare entro i limiti delle rive,

Quando giovani erano le forze del mondo,

Si formavano turbini di cori melodiosi,

Con mùgghio di corni e di corde un rombo.

Era musica il bosco e ogni fossato.

Enorme come luna ogni fiore sbocciava,

Quando la mente le corde sentiva.

Ma nei sogni un’altra campana sonava.

Soffiò il vento sulle canne come peana,

Attraverso i fori rinacquero i prati,

E il primo zufolo fu la sovrana

Dei venti e della libertà, che i lidi han spianati.

Perché vendetta e spada cantassero con ira,

Con le ossa del nemico io i flauti ho foggiati.

Alla gente

Oh, gente, a voi mi rivolgo, a voi tutti,

Sappiate che ero infelice e muto,

Ma, vista dei monti la maestà,

Io tutto ho amato e conosciuto.

Ho conosciuto col cuore, non con la mente,

So che il tuono zarista è beato,

Che il fulmine rovina uomini e animali,

Ma il nostro mondo da esso è accecato.

Amo tutto ciò che la terra mi diede,

Tutte le trame del bene e del male,

Tutto ho toccato, tutto io imploro,

Di un rivo ridevo, ma mi unisco al mare.

E di nuovo preda di raggi infocati,

Dall’alto scende il sonoro torrente.

C’è la saggezza, ma la vita è irrisolta,

Ai saggi e ai morti dico: «Ciò è niente!»

C’è qualcosa più alto di ogni scienza,

E io respingo ogni saggio sagace,

Io conosco e sento una cosa soltanto,

Che esso è ubriaco, il vino della pace.

Quando con questo vino mi ubriacherò,

Morirò e rinascerò e batterà il mio cuore,

Coi giovani sarò di nuovo mattino…

Oh, gente, io sento soltanto l’amore!

Cigno bianco

Cigno bianco, cigno immacolato,

I tuoi sogni sempre celando,

Tranquillamente argenteo,

Tu scivoli, l’acqua increspando.

Sotto di te – il baratro silenzioso,

Senza risposta, senza saluto,

Ma tu scivoli, immergendoti

Nel fondo di aria e luce intessuto.

Sopra di te – l’etere senza fine

Con la fulgida volta stellata.

Tu scivoli via, trasformato

Dalla bellezza rispecchiata.

Simbolo di affetto imperturbato,

Non del tutto espresso, timoroso,

Simulacro femmineo-armonioso,

Cigno bianco, cigno immacolato!

Il nostro zar

Il nostro zar è Mukden** e Tsushima,***

E’ una chiazza insanguinata,

Polvere da sparo e fumo che puzza,

Zar con la mente ottenebrata.

IL nostro zar è un cieco squallore,

Prigione, sferza, uccisione, processo,

Zar-galeotto, anche di più,

Non osò dare ciò che aveva promesso.

E’ un vile, il suo cuore è sordo,

Ma il tempo del saldo lo aspetta.

Se l’inizio del regno è Chodynka,****

La forca per lui è già eretta.

1907

* Bal’mont scrisse questa poesia nel 1907. La profezia si avverò nel 1918, circa 22 anni dopo l’incoronazione di Nicola II (anche se non in senso prettamente letterale).

**Località in cui, durante la guerra russo-giapponese, le truppe russe furono sconfitte per l’incapacità del comando.

***Battaglia navale vicino alle isole Tsushima nello stretto di Corea, tra la squadra russa e la flotta giapponese. La distruzione di quasi l’intera squadra russa, fu vissuta come una tragedia nazionale.

****Nel campo di Chodynka a Mosca il 18 maggio 1896 si tenne una festa popolare per l’incoronazione dello zar. La sera circolò tra la folla una voce che il giorno seguente lo zar avrebbe fatto distribuire ricchi doni (i quali in realtà consistevano in una pagnotta, un po’ di salame, pan di zenzero e una tazza di birra). A quella notizia un gran numero di persone cominciò a riunirsi in quel luogo. Ma intorno alle 6 di mattina del giorno dopo, improvvisamente circolò tra la gente una voce, secondo cui non c’erano abbastanza regali per tutti, creando in tal modo le premesse per la tragedia. Nella corsa precipitosa verso il punto di distribuzione, a causa dell’inettitudine delle autorità che non seppero  mantenere l’ordine,  morirono calpestate dalla folla circa 1400 persone, e all’incirca 1300 restarono ferite.

Addio all’albero

Amavo l’albero cresciuto dalle fiabe,
Sul quale l’usignolo sempre squillava,
E sotto il quale si stendeva il grano,
Frusciavano le spighe e il ruscello cantava.
Amavo i richiami, da un ramo all’altro,
Degli uccelli variopinti e spensierati,
C’erano monti antichi della sua età,
Coetanei della steppa e lampi filati.
Amavo dell’albero la voce della chioma,
Che annuncia un temporale con un canto,
E il fruscio delle foglie rotolanti,
E delle grevi nubi il primo pianto.
Amavo in quest’albero con le ciglia di Vij*,
Tra i muschi, di un vecchio fauno l’occhiata.
Per secoli l’albero hanno chiamato Russia,
E sul tronco с’è un’ascia affilata.
*Divinità mitologica controversa. Un mostro spaventoso diversamente interpretato. Le sue enormi palpebre incorniciate da ciglia toccavano il suolo. Con gli occhi chiusi era relativamente innocuo, ma quando i suoi servi gli sollevavano le palpebre coi forconi, il suo sguardo uccideva. Eppure nella mitologia slava non troviamo una sola menzione del fatto che il Vij abbia ucciso persone. In Gogol’ ad esempio Khoma Brut muore di paura, non a causa dello sguardo del Vij, sguardo che a volte può essere come una fiamma purificatrice. Insomma non è solo uno spirito maligno, ma anche una divinità oscura dotata di poteri straordinari, chiamata anche “custode delle anime”. In questa poesia Bal’mont identificando l’albero con la Russia e dicendo che ha le ciglia del Vij, credo voglia evidenziare la potenza e la grandezza “mostruosa” della Russia, con la scure pronta ad abbatterla.

(C) by Paolo Statuti

Konstantin Bal’mont (1867-1942): Cigno bianco

24 Ago

 

Ho tradotto oggi questa bella poesia del poeta simbolista russo Konstantin Bal’mont, che propongo con grande piacere ai miei lettori.

 

 

 

 

 

Cigno bianco

 

Cigno bianco, cigno immacolato,

I tuoi sogni sempre celando,

Tranquillamente argenteo,

Tu scivoli, l’acqua increspando.

 

Sotto di te – il baratro silenzioso,

Senza risposta, senza saluto,

Ma tu scivoli, immergendoti

Nel fondo di aria e luce intessuto.

 

Sopra di te – l’etere senza fine

Con la fulgida volta stellata.

Tu scivoli via, trasformato

Dalla bellezza rispecchiata.

 

Simbolo di affetto imperturbato,

Non del tutto espresso, timoroso,

Simulacro femmineo-armonioso,

Cigno bianco, cigno immacolato!

 

1897

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Mirra (Maria) Lochvizkaja – la “Saffo russa”

13 Gen
Mirra Lochvizkaja

Mirra Lochvizkaja

 

 

  

Nacque il 19 novembre 1869 a San Pietroburgo e morì nella stessa città il 27 agosto 1905. Sorella della poetessa Teffi (1872-1952). Verso la fine degli anni ’90 raggiunse l’apice della popolarità, ma dopo la morte fu presto dimenticata. Soltanto nel decennio 1980-1990, si è risvegliato l’interesse per questa poetessa. Alcuni studiosi vedono in lei la creatrice della “poesia femminile” russa del XX secolo, colei che aprì la strada ad Anna Achmatova e a Marina Cvetaeva. Cominciò a scrivere versi all’età di 15 anni, mettendosi subito in luce per il suo talento. Debuttò nel 1888 con alcune poesie pubblicate sulla rivista Settentrione. La prima vera notorietà la raggiunse con la stampa del poema Al mare nel 1891. Nello stesso anno sposò Evghenij Žiber, ingegnere-costruttore, col quale ebbe 5 figli. Nel 1896 uscì la prima raccolta di poesie di Mirra Lochvizkaja, dedicata al marito, dove ella cantava l’amore come puro sentimento romantico che arreca la felicità familiare e le gioie della maternità. La seconda raccolta vide la luce due anni dopo. Nella terza raccolta, uscita nel 1900, figurava il poema Verso levante, nel quale si è intravisto un motivo autobiografico: la storia della sua relazione con il poeta simbolista Konstantin Bal’mont, che si individua nella figura dell’adolescente greco Giacinto. Con tutta probabilità si erano conosciuti in Crimea nel 1895, e per tutta la sua vita Bal’mont tenne sulla sua scrivania il ritrastto della poetessa. Nella quarta raccolta (1902) era inserito il dramma in 5 atti L’amore immortale, considerato la sua opera più matura e più sofferta. La quinta raccolta Prima del tramonto uscì postuma nel 1905 e ottenne il Premio Pushkin.

   Verso la fine degli anni ’90 la sua salute andò peggiorando. Era afflitta da dolori al cuore, depressione e incubi notturni. Nel dicembre 1904 la malattia si aggravò. La poetessa a volte si meravigliava che fosse ancora viva, malgrado i terribili dolori. Si spegneva nei tormenti. Per alleviare le sue sofferenze doveva ricorrere alla morfina. Trascorse gli ultimi due giorni di vita sotto l’azione del narcotico, e morì nel sonno. La causa principale del decesso fu una stenocardia cronica. Aveva soltanto 35 anni.

   Come notò M. O. Gheršenzon, «i versi della Lochvizkaja non furono giudicati secondo il loro merito e non giunsero al grande pubblico, ma chi amava il delicato aroma della poesia e la musica del verso, era in grado di apprezzare il suo meraviglioso talento». Nella sua recensione alla raccolta Prima del tramonto, lo stesso Gheršenzon scrisse: «…A quanto pare nessuno dei poeti russi si è avvicinato a tal punto a Pushkin nel senso della purezza e della chiarezza del verso, come questa donna-poeta; le sue strofe si ricordano agevolmente quasi come quelle di Pushkin». V. Nemirovič-Dančenko ha notato la naturale musicalità del verso della Lochvizkaja: «Ogni sua strofa arde di una bella passione puramente giovanile e mostra una penetrazione nella natura, quale non si trova neanche nei grandi poeti del Parnaso russo…Ella più di chiunque altro si distingue per il suo orecchio musicale: percorrendo le strofe con la sguardo, ascoltava i versi».

   La sua poesia elegante e colorita è rivolta quasi esclusivamente ai sentimenti romantici. Le parole: «La felicità è bramosia» sono diventate una specie di motto della poetessa, che alcuni critici hanno definito la “Saffo russa”. Al tema dell’amore femminile è legata tutta la sua creazione. Negli ultimi anni si avvertono in essa squarci di tristezza e malinconia, come ad esempio nella poesia: «Io voglio morire giovane, spegnermi come stella dorata, volare come fiore non appassito./Io voglio morire giovane…». Lo slavista americano V.F. Markov ha chiamato Mirra Lochvizkaja un «pozzo di profetiche anticipazioni», e Vjačeslav Ivanov afferma: «La sua profondità era una profondità solare, ricolma di luce, e per questo non poteva sembrare una profondità a uno sguardo non avvezzo».

   

Poesie di Mirra Lochvizkaja tradotte da Paolo Statuti

Le ultime foglie

Sono andata in giardino. In autunno

Era triste vedere le fronde spoglie,

E in terra – così freddo e umido –

Un giallo tappeto di foglie.

 

Si staccava il fogliame dai rami,

Roteava e cadeva silente, –

Come la morte…Ma la mia anima

Voleva vivere follemente!

 

Dove sei, o afa delle notti penose?

Dove siete, o uccelli, o fiori odorosi

E dove sono del sole vivificante

I baci ardenti e silenziosi?..

 

Perché i sogni turbano il mio petto? –

La primavera è passata, l’estate è morta…

Perché il cuore vuol farle tornare,

Anela ad esse, e vuole una risposta?..

 

*  *  *

Ti amo, come il mare ama il sole che sorge,

Come il narciso ama l’onda lucente su cui si sporge.

Io ti amo, come le stelle amano la luna dorata,

Come il poeta – la sua creazione sognata.

Io ti amo, come la fiamma – le effimere,

Gemendo d’amore, languendo di bramosia.

Io ti amo, come il vento sonoro ama le canne,

Io ti amo con tutte le corde dell’anima mia.

Io ti amo, come si amano i sogni non risolti,

Più che il sole, la vita, la primavera e i suoi volti.

 

Notturno

 

Che notte!.. Così mirabilmente bella!

Quieto soffia l’etere dall’altezza.

Respirando l’aroma e il fresco dei prati,

Egli bacia i fiori e li accarezza.

Un inno di vittoria corre alla finestra, –

La sua felicità canta l’usignolo.

Ma perché se non batte più in fretta

Il cuore così altero e così solo?

E perché seducente la luna brilla

Nell’aureola di diafane faville?

E chiama…invita…ed io nel tormento

Non distolgo da essa le pupille.

Ah, se io con te questa notte potessi,

Come un tempo, l’usignolo ascoltare, –

Per una tua carezza soltanto

Io la vita e l’anima potrei dare!

Confesserei che da tanto ormai

Ti vorrei in questo argenteo chiarore,

Che il cuore è stanco della sterile lotta,

Che i miei sogni splendono d’amore!

Bisbiglierei col cantore notturno

Parole di passione veemente,

Su di un’estasi eterna e sconfinata,

Sui desideri dell’anima ardente!

Direi…Ma è tardi…l’usignolo tace…

Soltanto, immutabilmente chiara,

Da dietro le foglie dei rami assopiti

La luna brilla incantevole e solitaria…

 

 

Prima del tramonto

 

Amo i pallidi colori

Delle viole tardive e della rosa,

Le allusioni, le penombre

Della bellezza nebbiosa.

Avvolta nella dolce oscurità

L’anima inquieta è malata,

Dell’incanto del tramonto,

Del sogno futuro inebriata.

Cosa accenderà la speranza?

Farà rivivere le gioie deluse?

Farà vibrare il moto stanco

Delle mie palpebre socchiuse?

Nulla. Non desidero più nulla.

Sono morte le implorazioni,

Guardo con un sorriso stanco

La vanità delle illusioni.

La nebbia copre la via montana.

Ammutoliscono le ferite.

Oh beata quiete del nirvana,

Dormire… sparire… morire…

 

«Non scordare mai»

 

Ricordi la panchina lungo il vecchio sentiero?

Dove il tetto dei tigli era così elevato,

Dove sull’erba la mia scarpina cadde

Come per caso dal piede inciampato?

Ricordi il fremito d’amore e il turbamento,

E la dolce gioia nell’oblio del momento,

E il reciproco impeto di amare?

Incantevoli sogni, li potrai scordare?

Oh, credimi, tu di nuovo follemente,

Almeno per un attimo nella tua mente

L’ombra del passato rivivere vorrai, –

Non scordare mai, non scordare mai!

Tu ricordi come l’incanto di primavera

Ci univa col suo magico potere,

Ci eccitava con la segreta libertà,

Nel luccichio delle notti serene?

Ricordi i nostri incontri all’imbrunire,

Le carezze, ciò che amavamo dire?

Di primavera i giorni così graditi,

Come i canti d’amore, sono ormai finiti!

Credimi, l’oblio della nostra felicità, –

Non troveremo mai, sempre ci apparirà,

Dovunque andremo, dovunque andrai…

Non scordare mai, non scordare mai!

Ricordi il languore che nel pensiero

Portava la carezza del vento fragrante,

Come a lungo cercavamo un po’ d’ombra

Nel giorno di giugno così estenuante?

E il sole coi raggi ardenti ci bruciava,

Ci opprimeva, e di noi si burlava,

Cercando di scorgere attraverso i rami

Il candido seno e i capelli castani.

Oh, invano alla speranza sottomesso,

Inebriarti della vita vorrai, adesso, –

I giorni trascorsi mai più riavrai…

Non torneranno, non torneranno mai!

Ricordi come nel parco immerso nel buio

A mezzanotte noi spesso andavamo,

E le stelle così belle e splendenti,

Brillavano d’amore e guardavamo?

E i vecchi pini, silenziosi e mesti,

Dondolavano le cime tristemente,

E da un rametto di pado l’usignolo

Ci dedicava il suo canto fervente…

Credimi, ogni simile istante sarà eterno,

In essi son racchiusi paradiso e inferno,

Nel cuore con nostalgia li conserverai…

Non scordare mai, non scordare mai!

Ricordi come ti amavo con passione,

Con sempre più forte e forte calore?

Sembrava che né il tempo, né la tomba

Avrebbero mutato il mio amore.

Con te ero pronta ad ogni evento,

All’esilio, alla morte e al tormento, –

Ma dell’inverno ai primi gelidi afflati

Tranquilli e alteri ci siamo lasciati.

Oh credimi, il distacco non sarà illimitato,

Poiché il mio amore per te è sconfinato!

Anche se la stella della gioia ci lasciò, –

Io non ti scorderò, io mai ti scorderò!

 

(C) by Paolo Statuti