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2 novembre – Giorno dei Morti

28 Ott

 

 

 

Rapian gli amici una favilla al Sole

A illuminar la sotterranea notte,images (30)

Perché gli occhi dell’uom cercan morendo

Il Sole; e tutti l’ultimo sospiro

Mandano i petti alla fuggente luce.

 

Ugo Foscolo (1778-1827)

Dei Sepolcri:  vv. 119-123

 

 

   Con questa reminiscenza liceale desidero iniziare il mio omaggio poetico a tutti i defunti che il 2 novembre di ogni anno rivivono nel nostro ricordo. E’ il giorno in cui tanti amici, parenti, conoscenti tornano col pensiero a qualcuno che li ha preceduti nel “grande silenzio”. Il 2 novembre i cimiteri si accendono di luci e di fiori e le tombe vengono indorate dalle foglie autunnali. Il culto dei Morti è antichissimo e vive tuttora, perché è legato al rispetto e alla gratitudine verso quelli che ci hanno amato. Ho scelto per loro e per tutti quelli che amano i propri defunti, alcune poesie nella mia versione. Vorrei che contribuissero a creare nel cuore di ciascuno di noi quel calore e quella serenità, che soprattutto in questo giorno doniamo ai nostri cari scomparsi e riceviamo da loro.

 

 

 

 

 

Jan Twardowski (1915-2006)

 

Sempre presenti

 

Diceva che davvero bisogna amare i defunti

perché proprio loro sono ostinatamente presenti

non si addormentano

hanno il tempo tondo quindi non hanno fretta

tranquilli perché non hanno esaurito niente

neanche in caso d’incendio salterebbero in piedi

non mandano giù come noi il senso intimorito

non si fingono né migliori né peggiori

non pronunciamo su di loro migliaia di sentenze

sempre gli stessi come l’ontano verde fino all’ultimo

conoscono perfino l’indirizzo privato di Dio

non declamano sull’amore

ma aiutano a trovare gli oggetti smarriti

non invecchiano ringiovaniti dalla morte

non spaventano con un vuoto pieno di erudizione

non uniscono santità e appetito

più vicini di quando se ne andavano per un attimo

passando accanto con il corpo non visto

hanno salvato assai più di un’anima

 

 

 

 

 

 

 

 

Halina Poświatowska (1935-1967)

 

   Essi ci amano, i cimiteri solitari, essi che sono tanto con noi, che sono quasi dentro di noi. Paradosso reversibile, perché forse siamo noi dentro di loro. Delineando con un dito il contorno del proprio corpo, consideriamo il geranio piantato in basso e la clessidra posta a capo del letto. Il sussurro della betulla inclinata, l’intreccio delle sue avide radici, il succulento verde delle foglie. E baciando per la buona notte la tua fronte sul sopracciglio sinistro, penso alla piccola cappella con la croce di legno messa di traverso. Odore di terra…

 

 

Paolo Statuti

 

Morte di un amico polacco

 

Caro Zbyszek,

qui dove frusciano i ricordi

e il sasso geme

sotto il piede amico,

improvviso sei giunto

e subito cortese, esitante,

hai chiesto d’unirti

al coro dei silenzi,

ma immaginarti silenzio

io non posso:

troppo umana e schietta

era la tua voce.

 

 

 

Kazimiera Iłłakowiczówna (1888-1983)

 

Morti…conosciuti…amati

 

Vengono da me soltanto sui viburni,

sui pruni, sui violacei mirtilli,

i morti, i conosciuti, gli amati.

Vengono da me soltanto sui fruscii

impigliati tra vortici ansanti:

“Tu qui?…Ah, che tempo…”

Per le brine – le sopracciglia grigie,

le giovani ciglia stranamente pesanti…

E li accarezzo benché sappia che – non vivono…

I conosciuti…quelli che amavo:

Jaś, bruciato col suo aereo

e Kazio, che morì più tardi,

Pawełek coperto dall’oceano,

Tadzio, fucilato dai banditi…

Giovani, pensosi, sprecati,

vengono da me, vengono sui viburni

i conosciuti, i morti, gli amati.

 

Jan Brzechwa (1900-1966)

 

Il Giorno dei Morti

 

Quando con la ruggine ramata

Delle gialle foglie d’autunno appassiscono le nubi

Indoviniamo cosa le nubi vogliono da noi,

Rattristate nella loro alta distesa.

Sulle ciocche grigie si stende l’estate di san Martino,

Sulle tombe i lumini guizzano alle anime defunte,

Presto, presto toccherà a noi,

Anche le nostre anime verso quei lumini andranno.

Se la vita è un filo – esso si può troncare,

E andare sopra una nube come su una zattera d’argento…

Ah, come facile, ah, come facile sarebbe vivere,

Se non vivere fosse ancora più facile!

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Alcune immagini del cimitero monumentale “Powązki” a Varsavia, che nel Giorno dei Morti si riempie di noti attori e attrici che fanno la questua per il restauro della storica necropoli, dove sono sepolti nomi illustri della storia e della cultura polacca.

 

 

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Halina Poswiatowska

27 Mar

Halina Poświatowska

Olga Celuch

Olga Celuch

  Dedico questo mio post alla memoria della indimenticabile amica e poetessa bilingue (italiano e polacco) Olga Celuch, sopraffatta da un male incurabile il 5 giugno 2010. Aveva appena 30 anni.

   “Amo la vita, amico mio, e anche quando essa mi ha ferita al punto che per un breve istante ho desiderato morire, neppure allora l’ho tradita”. (Halina Poswiatowska)

 

   Halina Poświatowska era nata a Częstochowa il 9 maggio 1935. Nel 1945 si ammalò di artrite ed endocardite e di conseguenza di una malattia di cuore a quei tempi incurabile. Ciò le impedì di frequentare regolarmente la scuola, perché si stancava presto e doveva restare in letto.    Tuttavia studiò e superò gli esami come privatista, dapprima al ginnasio “Studio e Lavoro” e poi al liceo femminile “J. Słowacki” a Częstochowa. Nello studio e nella scelta delle letture l’aiutava la madre. Trascorse tutta la sua breve vita tra ospedali e case di cura. Nel 1953 conobbe nel sanatorio di Kudowa il futuro marito, Adolfo Poświatowski, pittore e studente della Scuola Superiore di Cinematografia a Łódź, anch’egli gravemente malato di cuore, e lo sposò il 26 giugno 1954. La morte del marito, avvenuta improvvisamente meno di due anni dopo, fu per Halina un grave colpo e cominciò a vivere nella convinzione di dover subire presto la stessa sorte. I medici, infatti, le davano al massimo sei mesi di vita.

   Nel 1956 debuttò con le due poesie “Felicità” e “L’uomo dell’Annapurna”. Conoscendo lo stato di salute e il talento della giovane poetessa, il prof. Julian Aleksandrowicz, suo amico e medico, si interessò, perché fosse operata al cuore negli Stati Uniti. La cosa andò in porto e per giunta gratuitamente. Nel frattempo la prestigiosa casa editrice di Cracovia “Wydawnictwo Literackie” pubblicava la sua prima raccolta di poesie “Inno idolatrico”.

   Dopo la riuscita operazione, avvenuta il 12 novembre 1958, Halina iniziò gli studi allo “Smith College” di Northampton. Nel 1960 seguì i corsi estivi alla Columbia University di New York, al termine dei quali, nel 1961, tornò a Cracovia. “Non aveva bisogno di tornare in Polonia – dice la sorella – lì stava bene. La borsa di studio di quattro università, viaggi, amici. Ma amava troppo Cracovia, la considerava la città più bella del mondo”.

   Iniziò gli studi alla facoltà di storia e filosofia presso la celebre Università Jaghellonica. Un anno dopo uscì la sua seconda raccolta “La giornata odierna”, seguita dalla terza “Ode alle mani” nel 1966. Infine nel 1967, sempre la stessa casa editrice Wydawnictwo Literackie pubblicò la sua autobiografia in prosa “Racconto per un amico”.

   Nell’autunno dello stesso anno fu nuovamente operata al cuore a Varsavia. Morì pochi giorni dopo, l ’11 ottobre. Forse senza questa operazione sarebbe vissuta ancora qualche anno, ma voleva sentirsi bene e poter lavorare.

   La sua città natale Częstochowa ogni anno organizza un concorso di poesia intitolato ad Halina Poświatowska.

Lascio ora la parola a due autorevoli poeti polacchi che erano amici della poetessa.

Tadeusz Nowak (1930-1991): …Ho conosciuto Halina dopo il suo ritorno dall’America. Era alta, esile, molto bella. Una figura in parte primaverile, in parte autunnale. Forse pensavo a queste due stagioni dell’anno, perché Halina, ricordando che il suo cuore era malato, camminava con cautela, quasi avesse sotto i piedi un sottile strato di ghiaccio, o una gran quantità di foglie appena cadute dagli alberi, di foglie che frusciano e fanno dimenticare la propria voce, la propria anima…Ho rivisto Halina pochi giorni prima della morte. Era con la sorella in una piccola stanzetta. L’ossigeno era a portata di mano. Ricordo che la segretaria del prof. Aleksandrowicz entrò e con un lieto  sorriso comunicò che l’operazione avrebbe avuto luogo qualche giorno dopo. E allora per la prima volta vidi Halina spaventata al pensiero della data così vicina dell’operazione. Una fugace ombra di morte le coprì il viso…le cadde il libro dalle mani…era la Bibbia. Quel giorno Halina stava leggendo “Il cantico dei cantici”…

   Aveva già scritto molte poesie e quasi tutte senza titolo. Cominciavano come i Salmi di Davide, o come lettere d’amore indirizzate a qualcuno. Eppure era una poesia autentica, insolita e bella. Una poesia molto femminile, ma non come in Pawlikowska-Jasnorzewska o in Szymborska. La poesia di Poświatowska era eccitata, rivestita di un qualcosa molto erotico, carnale, ma al tempo stesso straordinariamente eterea. Era una poesia luminosa, chiara…eravamo tutti stupiti dai suoi versi. Non potevamo credere che ci fosse qualcuno che nell’arco di qualche mese, forse di un anno, potesse rivivere – nelle parole, nelle metafore, nelle bellissime immagini – tutta la sua vita”.

Stanisław Grochowiak (1934-1976):

                           Non era bella – in compenso era molto Bella,

                           Non era sensibile – in compenso era troppo Sensibile…

   E’ sorprendente come questa giovane poetessa amasse e stimasse la vita… Era un amore essenzialmente religioso…Questa donna, che ad ogni emozione, ad ogni palpito del cuore rischiava la vita, cantava l’amore indomabile, sensuale…Tutta la sua poesia è una profonda, dolorosa e intensa meditazione sul prodigio del proprio corpo…

 

   Di Halina Poświatowska presento alcune poesie nella mia versione

  

*  *  *

mia principale cura è il trucco dei sopraccigli

li dipingo con raccoglimento

così fanno le donne ormai spaurite

pungendo gli specchi con lo sguardo attento

l’angolo di casa che oltrepasso ogni mattino

la svolta della strada che attraverso

tenui dita di muffa afferrano granelli di sabbia

crescono le crepe sui muri sono enormi le crepe sul pavimento

si frangono si disseminano le strade

il vento le porta in igni lato

il vento gioca con esse a rimpiattino

accostando i capelli alle guance

guardo le pietre che si coprono di erba

 

*  *  *

sempre quando voglio vivere grido

quando la vita mi abbandona

mi afferro ad essa

dico – vita

non andartene ancora

la sua calda mano nella mia mano

la mia bocca al suo orecchio

sussurro

vita

– come se la vita fosse un amante

che vuole andar via –

mi aggrappo al suo collo

grido

morirò se te ne andrai 

 

*  *  *

sulla mia casa

le cui pareti

di caldi sogni impensati 

scriverò la poesia più bella

sui capelli del bambino

che mai si arrufferanno

nelle mie mani di donna

sulle labbra che con cupa brama

non penderanno sopra l’ansia delle mie notti

sull’amore che fiorisce

in ogni parola sussurrata

nel colore delle rose

nel profumo dell’erba falciata

nel rapido cadere di stelle

nell’amaro

annientamento di ali di farfalla

spente nella fiamma della candela

sull’amore –

perfetto nel suo fosco non avverarsi

 

*  *  *

Quando morirò mio caro

quando dal sole mi separerò

e sarò un lungo oggetto piuttosto triste

 

mi stringerai a te

mi abbraccerai

e riparerai ciò che il crudele destino ha guastato?

 

spesso ti penso

spesso ti scrivo

stupide lettere – in esse c’è amore e sorriso 

 

poi nella stufa le metto

la fiamma salta sulle parole

prima che tranquilla finisca in cenere

 

guardando la fiamma mio caro

penso – che avverrà

del mio cuore avido d’amore 

 

ma tu non permettere

che io muoia in un mondo

che è buio freddo 

 

*  *  *

Sono Giulia

ho 23 anni

un giorno ho incontrato l’amore

aveva un gusto amaro

come una tazzina di caffè scuro

ha accelerato

il ritmo del cuore

ha irritato

il mio vivo organismo

ha cullato i sensi

 

se n’è andato

 

Sono Giulia

su un alto balcone

sospesa

grido torna

imploro torna

macchio

le labbra morse

di colore sanguigno

 

non è tornato

 

Sono Giulia

di anni mille

vivo –

 

*  *  *

Se vorrai lasciarmi

non dimenticare il sorriso

puoi dimenticare il cappello

i guanti il notes con gli indirizzi importanti

qualunque cosa infine – per cui dovresti tornare

tornando all’improvviso mi vedrai in lacrime

e non te ne andrai

se vorrai rimanere

non dimenticare il sorriso

puoi non ricordare il mio compleanno

o il luogo del nostro primo bacio

o il motivo della nostra prima lite

se tuttavia vuoi rimanere

non farlo con un sospiro

ma con un sorriso

rimani

*  *  *

Uccello del mio cuore

non affliggerti

ti sfamerò con un chicco di gioia

sfavillerai

uccello del mio cuore

non piangere

ti sfamerò con un chicco di tenerezza

volerai 

uccello del mio cuore

con le ali abbandonate

non dimenarti

ti sfamerò con un chicco di morte

ti addormenterai

 

*  *  *

Ti cerco nel morbido pelo del gatto

nelle gocce di pioggia

nello steccato

mi appoggio al buon recinto

e velata dal sole

– una mosca nella ragnatela –

aspetto…

 

*  *  *

Chiedi – cosa portano sul basto i cammelli da viaggio

essi portano il mio cuore

attraverso il deserto

quando mi lasciasti

restai sola

sotto il giallo sole

la terra è secca

e i cuori della gente vuoti

non per me sgorga

la fonte della tenerezza

a volte ti vedo

ma con le mani tese

tocco soltanto

il mio pensiero di te

chiedi – cosa portano sul basto i cammelli da viaggio

essi portano il mio cuore

attraverso il deserto

 

*  *  *

Il mondo morirà un poco

quando io morirò?

guardo guardo

indossando un collo di volpe

il mondo va

non ho mai pensato

di essere un pelo della sua pelliccia

io ero sempre qui

esso – là

eppure

fa piacere pensare

che il mondo morirà un poco

quando io morirò

 

Tutte le mie morti

quante volte si può morire d’amore

la prima volta fu un amaro sapore di terra

un amaro sapore

un aspro fiore

un rosso garofano ardente

 

la seconda volta – solo un sapore di spazio

un bianco sapore

un fresco vento

la risposta di ruote con sordo rimbombo

 

la terza volta la quarta volta la quinta volta

morivo per abitudine in modo meno elevato

le quattro pareti  supina

e su di me il tuo profilo affilato

 

La morte di Esenin

ricordo la morte di Esenin

in piena estate

in un albergo

la terra fiorita

presso la finestra

sul tavolo

su un pezzo di carta

la larva del cuore

scavata a pezzi

 

immaginare

avvicinarsi

osservare il silenzio della radice

la rabbiosa lotta della radice

il tremito

il desiderio

il peso

 

il fazzoletto era di seta

quindi morbido

sulla salda parete un gancio

da punto interrogativo

in esclamativo s’è rappreso

 

presso la finestra

il cinguettio dei passeri

nessuno sa

come muoiono gli uccelli

una percentuale investita da un’auto

relativamente esigua

gli uccelli si appendono ai rami

gli uccelli nella pioggia

con le piume incollate al fianco

 

lottava col peso dell’attrazione terrestre

portando la sedia presso la finestra

ricordo la morte di Esenin

in piena estate

nel festival delle foglie

sopra il festival dell’erba

dell’orchestra dei grillini

e al soggetto dell’esistenza

il verde aggiunto splende

 

il fazzoletto era di seta

fredda

una sedia

col ricordo giungeva fino al bosco

generazioni di pazienti faggi

s’indurivano nel tronco

crescevano

generazioni di foglie

silenziose

si posavano in terra

con un sottile filo di colore

la larva del cuore

nessuno sa come muoiono gli uccelli  

*  *  *

Saskia

perché sei morta

mancava alle tue dita la perfezione della forma

alla tua bocca – la perfezione della tinta

agli orecchini – la luce?

eri forma e colore

la luce

ti abbracciava come gli occhi di amante

Saskia

Perché sei morta?

 

ecco con grande stupore

guardo la tua scarpina

riscaldo con la mano il freddo della collana

getto le perle ai colombi

perché le mangino come  grano

 

stupidi uccelli

passano accanto

portando nelle gonfie gole

forma colore e luce

tutto ciò

che manca ai tuoi occhi

 

soltanto i gioieli brillano

allo stesso modo – morti

 

 *  *  *

come il fuoco consuma un albero lieve

ugualmente io avvolgo il tuo corpo

morbida e agile come fiamma

 

amandoti con delicatezza

attizzo i tuoi pensieri in fiamma

il mio ardore la loro fredda forma ruba

 

il mio tocco il chiaro cielo dei tuoi occhi

restringe in una scura fiamma

così ti amo amando me stessa

 

la fiamma ripeto la fiamma la fiamma

storpia la bocca ferisce le mani

e ogni forma sotto l’oro infossa

 

 *  *  *

l’addio – l’ala distesa di un uccello

un’ombra

una nuvola a ovest gironzola nel cielo

i pini bruciano

 

i pini spauracchi

ficcati nella scura terra

si mettono a vicenda nei capelli

pettini verdi

 

ma i tuoi capelli – il sonno

ma la tua bocca – la morte

gli occhi – l’ala distesa di un gabbiano

nerezza

 

 *  *  *

a volte

crudelmente nostalgica

appaio alla gente

con la mia faccia d’un tempo

vado sui miei piedi d’un tempo

e li tocco sorridendo

con le mani d’un tempo

 

ma mi tradisce

la trasparenza della pelle

che somiglia alla struttura della carta

e l’immobilità dell’ombra

e dopo il mio passaggio

l’assenza della più lieve traccia sulla neve

 

e a un tratto fulminati sanno

si scostano spauriti

offrendomi un grande spazio bianco

senza orizzonte

 

 

*  *  *

voglio scrivere di te

col tuo nome sorreggere il recinto piegato

il gelato ciliegio 

descrivere la tua bocca

comporre strofe incurvate

delle tue ciglia mentire che sono scure

voglio

impigliare le dita nei tuoi capelli

trovare una fossetta nel collo

dove con un sussurro represso

il cuore smentisce la bocca

voglio

il tuo nome mescolare con le stelle

con il sangue

essere in te

non essere con te

sparire

come goccia di pioggia assorbita dalla notte

 

 

 

 

*  *  *

nelle tue perfette dita

sono soltanto un fremito

un canto di foglie

al tocco delle tue calde labbra

 

l’odore irrita – dice: tu esisti

l’odore irrita – urta il naso

nelle tue perfette dita

sono la luce

 

di verdi lune brucio

sul morto cieco giorno

a un tratto sai – che ho le labbra rosse

 

– con sapore salmastro affluisce il sangue –

 

 

Incontrato

 

sono chiuso

con un’acida spilla

non ho la bocca

nel rigido lenzuolo

oggetto con una gamba urlante

cinque dita

presso l’ascensore

gettato in pasto

 

– non voglio –

prendo a calci

prendo a calci la porta ostinata

tendo le orecchie al paziente mugolio

aspetto

 

curvo su di me

ieri

mi bisbigliava una grande verità

su un cielo verde

sugli angeli danzanti

l’ostia della fede era così tonda

che mi si è piantata in gola

sono sceso in basso

 

prendo a calci

prendo a calci la porta defunta

voglio salire con l’ascensore

fino al piano più alto del cielo

 

* *  *

essa è con noi

ascolta il ronzio d’una vespa

gioca coi miei capelli

nelle tue dita è impigliata

 

il sole

mette mollemente sotto la testa

poi un po’ di erbe

poi un fiore di papavero

come esclamativo

rosso

 

essa contraddice i nostri gesti

ci piega a terra

col profumo

col calore

trattiene per sempre

sulla ruvida crosta terrestre

i tarpati dall’amore – la morte

 

 

Essi ci amano, i cimiteri solitari, essi che sono tanto con noi, che sono quasi dentro di noi. Paradosso reversibile, perché forse siamo noi dentro di loro. Delineando con un dito il contorno del proprio corpo, consideriamo il geranio piantato in basso e la clessidra posta a capo del letto. Il sussurro della betulla inclinata, l’intreccio delle sue avide radici, il succulento verde delle foglie. E baciando per la buona notte la tua fronte sul sopracciglio sinistro, penso alla piccola cappella con la croce di legno messa di traverso. Odore di terra…

 

 (C) by Paolo Statuti