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Hans van Meegeren

22 Set

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Jerzy Waldorff-Preyss (1910-1999), barone polacco, scrittore, pubblicista e critico musicale, è già presente nel mio blog con un suo articolo su Arturo Toscanini e con il testo La musica consolatrice, entrambi nella mia versione dal polacco. Oggi dello stesso autore ho scelto e tradotto questo interessante articolo tratto dal suo libro Le orecchie ribelli (1968), sul famoso pittore e ritrattista olandese Hans van Meegeren, considerato uno dei più abili falsari d’arte del XX secolo.

 

Il problema di van Meegeren

 

   In una delle prigioni olandesi morì agli inizi del 1947, all’età di 58 anni, il pittore Hans van Meegeren. Le cause della morte non sono del tutto chiare; alcuni affermano che morì di tubercolosi, altri d’infarto. Del resto ciò non è essenziale. Nelle condizioni in cui vivono i carcerati ogni malattia per un uomo anziano e logorato può risultare fatale. Più importante è chiedersi: bisogna considerare questa morte come un ulteriore decesso in prigione di un altro criminale, o non piuttosto come l’assassinio di un artista straordinario compiuto da un tribunale olandese?

L’affare Hans van Meegeren scoppiò subito dopo la fine delle operazioni belliche nella primavera del 1945, contemporaneamente in due punti dell’Europa.

Le truppe americane, inseguendo i resti dell’esercito tedesco, scoprirono nei pressi di Berchtesgaden una raccolta nascosta di opere d’arte appartenente a Goering. Il maresciallo del Grande Reich amava i quadri e, essendo facilitato nel suo modo di procurarseli tramite il saccheggio, aveva messo insieme circa 1200 tele. Se Hitler avesse vinto, Goering sarebbe diventato proprietario di una delle più grandi e prestigiose gallerie private al mondo. Tra i tanti capolavori gli Americani trovarono in questa raccolta il quadro di Jan Vermeer van Delft Cristo e l’adultera, non registrato in nessuno dei cataloghi conosciuti. La scoperta destò subito un enorme interesse. Al tempo stesso l’affare diventava non meno sensazionale per altri motivi ad Amsterdam. Nella città si trovava la casa d’arte di un certo Goudstikker che commerciava in quadri. Dopo la liberazione la casa era diventata proprietà statale ed era stato incaricato un fiduciario di verificare quali vendite erano state effettuate dalla casa d’arte durante l’occupazione. Questa persona scoprì che la ditta Goudstikker durante la guerra aveva venduto a Goering il quadro di van Vermeer Cristo e l’adultera, proveniente dalla raccolta del pittore Hans van Meeregen. Infatti nella “nordica” Olanda Goering preferiva pagare anziché rapinare.

Jan Vermeer van Delft (1632-1675) è uno dei più interessanti e originali pittori olandesi del XVII secolo. La sua gamma di colori è incomparabilmente delicata, il senso della materia, la luce e la composizione uniche nel loro genere. Vermeer, nel XVII secolo, fu come il precursore dell’impressionismo, nato più di duecento anni dopo. A lui dedicò l’opera della sua vita Swann, personaggio del capolavoro di Proust  Alla ricerca del tempo perduto. Per due secoli il pittore restò quasi sconosciuto. Molti suoi quadri andarono perduti e bisognò aspettare la seconda metà dell’Ottocento per accorgersi della loro straordinaria bellezza, del loro valore e per essere accuratamente catalogati dagli esperti.

Per questi motivi la vendita di un quadro di Vermeer a Goering, per giunta ad opera di un pittore olandese, aveva suscitato in Olanda un’indignazione inaudita. Van Meegeren fu considerato un traditore della patria, un collaborazionista e venne arrestato (1).  Ma la storia non finì così. Essa doveva provocare altre impensate sensazioni. La prima fu la confessione del pittore di non aver consegnato alla casa d’arte Goudstikker una quadro di Jan Vermeer, perché il Cristo e l’adultera…lo aveva dipinto lui! Cioè, in altre parole, aveva imitato il maestro di Delft e aveva venduto a Goering un falso Vermeer come autentico! Inoltre egli dichiarò di aver falsificato altre cinque tele dello stesso maestro.

A questo punto, per comprendere debitamente la questione, dobbiamo tornare indietro nella vita del falsario arrestato.

Fin da bambino Hans van Meegeren aveva rivelato una spiccata predisposizione per il disegno. I suoi genitori, volendo sfruttare questa sua

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(1) Van Meegeren rischiava l’ergastolo (N.d.T.)

capacità nel modo più conveniente, indirizzarono il figlio verso l’architettura. Meegeren tuttavia non trovò di suo gradimento questo studio e in breve passò alla pittura, concentrando il suo interesse soprattutto nella pittura del XVII secolo. Per molti anni si dedicò allo studio degli antichi maestri; volendo ricreare la tecnica della loro pittura, analizzò il segreto della composizione e l’arte del colore delle loro tele. Al tempo stesso dipingeva propri quadri ed era un apprezzato ritrattista con ordinazioni perfino in America.

Ma il suo carattere aveva un lato negativo, e cioè egli era molto sensibile ai giudizi sulle sue opere, nonché intransigente con ciò che faceva; non voleva facilitarsi la carriera coi metodi accolti e adottati in Occidente. Tra questi metodi c’era anche il pagamento ufficiale della critica. Se l’artista paga una specie di tributo ai relatori della stampa, può contare sempre su una critica positiva e lusinghiera. Se non accetta un giudizio prezzolato, non può contare su una valutazione imparziale gratis; comincia a essere ignorato, deriso, definito imbrattatele, fino al giorno in cui non si piega, oppure esce dal mercato in cui tutti vogliono guadagnare.

Meegeren non voleva pagare, ed ecco che sulla stampa cominciarono ad apparire sempre più spesso articoli che gli rimproveravano la mancanza di originalità e la dipendenza ora da Rembrandt, ora da Cuyp o Potter. Punto sul vivo, l’artista decise di vendicarsi dei critici disonesti. Chiuse il suo atelier in Olanda, si trasferì a Parigi e qui cominciò a lavorare al suo primo Vermeer falsificato, che aveva il titolo I pellegrini di Emmaus. Alla stregua degli antichi maestri, preparava personalmente i colori, usando i medesimi componenti fatti venire dagli stessi paesi dai quali essi li acquistavano. Successivamente comprò un quadro di un mediocre pittore del XVII secolo, grattò lo strato di colore e cominciò a dipingere nello stile di Vermeer sulla tela d’epoca così ottenuta. Voleva convincere i critici che si trattava di un’opera originale del maestro di Delft, e in tal modo dimostrare loro che non capivano niente, e che le loro lodi e i loro biasimi non si basavano sul valore dell’opera d’arte, ma sul nome di chi l’aveva firmata.

Dopo sette mesi di lavoro il quadro I pellegrini di Emmaus era terminato in ogni dettaglio. Perfino la rete di screpolature della vernice era stata realizzata dal pittore in modo da non suscitare alcun dubbio che essa coprisse un quadro vecchio di due secoli e mezzo. Mancava ancora qualcosa che rendesse verosimile il “ritrovamento” del quadro dopo tanto tempo. Ma anche in questo Meegeren seppe cavarsela, e i risultati della falsificazione superarono le sue più rosee aspettative. Il famoso esperto di pittura antica, il dr. Bredius (se la memoria non mi tradisce – colui che prima della guerra accertò l’autenticità della Dama con l’ermellino come opera di Leonardo, e valutò le raccolte del Wawel), giudicò il falso di Meegeren non solo come originale di Vermeer, ma come una delle sue opere migliori. Ciò provocò scalpore in tutto il mondo, si scrissero numerose monografie sul capolavoro “scoperto” e il quadro fu acquistato dalla Società “Rembrandt” per il Museo Boymans di Rotterdam.

A questo punto nella psiche di Meegeren si verificò un fatto interessante ma difficile da analizzare: decise di non ridicolizzare la critica, di non tradire la sua falsificazione, ma di continuare a dipingere tele nello stile di Vermeer. Era un motivo pecuniario? Considerando che Meegeren era un artista di grande talento, bisogna supporre che nella sua decisione avessero un ruolo considerazioni non solo finanziarie. Forse il disprezzo della critica per le sue opere e l’entusiasmo della stessa per le opere firmate con il nome di Vermeer, lo convinsero che non ci fosse modo di debellare la stupidità umana e i pregiudizi umani. Forse capì a un tratto che i suoi quadri sarebbero stati apprezzati solo passando per opere di Vermeer? Forse infine, a prezzo del suo anonimato fino alla morte, decise di conquistarsi un posto nei musei e l’ammirazione della gente, che non avrebbe potuto ottenere in altro modo, in un tempo in cui la prima condizione per giudicare il valore di un’opera d’arte era l’originalità, sia pure la più assurda, come nel caso di alcuni surrealisti della scuola di Salvador Dalì?…

Nei due anni che separano il suo primo successo dallo scoppio della guerra e il ritorno in Olanda, van Meegeren dipinse altre cinque tele nello stile di Vermeer e due nello stile di Pieter de Hooch: La compagnia dei beoni e La donna con le carte. Ognuna di queste “nuove scoperte” di Vermeer e de Hooch accresceva l’entusiasmo degli intenditori e al tempo stesso fruttava milioni al suo creatore. Convertendo il fiorino olandese di prima della guerra in dollari si ottiene la quota di circa 3 milioni di dollari guadagnati da van Meegeren con questa sua discutibile attività.

Quando venne arrestato e confessò di essere lui l’autore delle tele che aveva “scoperto”, il processo ebbe un’ulteriore svolta inattesa. Tutti i più illustri esperti, il dr. Bredius in testa, che precedentemente avevano giudicato autentici i Vermeer e i de Hooch di van Meegeren, non credevano alla dichiarazione del falsario e continuavano a sostenere la loro autenticità. Come meravigliarsi? Credere a van Meegeren significava anche ammettere la loro incompetenza, e riconoscere che, a dispetto della loro fama di imbattibili scopritori di falsi, erano stati messi nel sacco.

Furono nominate due speciali commissioni e sottoposti i falsi a ripetute accurate analisi. A cominciare dalla valutazione artistica, attraverso l’esame della vernice, degli ingredienti dei colori, della tela, della tarlatura dei telai e delle cornici, fino alla radiografia dei dipinti…ma non si trovarono motivi per affermare che si trattava di falsi! allora van Meegeren fu sottoposto a un’ulteriore prova e gli ordinarono di dipingere un altro Vermeer sotto l’occhio vigile della polizia e degli esperti. Grazie a questa unica saggia mossa in tutto questo squallido processo, nacque il settimo capolavoro Vermeer-Meegeren – Cristo nel tempio, di fronte al quale gli esperti ancora una volta restarono sbalorditi e dovettero ammettere di non essere in grado di distinguere quella tela dai quadri originali dell’artista di Delft.

Prima di parlare del verdetto e della sucessiva rapida morte del grande pittore, proviamo a riflettere se Meegeren fose un criminale e se meritasse davvero la pena.

I falsi nell’arte non mancano certo, come i famosi soldati della Prima Brigata delle Legioni di Piłsudski. Si diceva allora che se Piłsudski avesse avuto in quella Brigata tutti gli uomini che poi dissero di averne fatto parte, avrebbe potuto conquistare Varsavia da solo. Se Fałat, Wyczółkowski o Malczewski avessero dipinto tanti quadri, quanti oggi con le loro firme si trovano in diversi saloni privati, sarebbero stati milionari, a condizione che avessero avuto quattro mani ciascuno e avessero fatto in tempo a dipingere tutto prima della morte. Tra i quadri venduti in America di Rubens, van Dyck, Manet, Renoir non si sa se il 10 per cento è autentico. I milionari americani infatti si moltiplicano, mentre le opere dei grandi maestri non solo non si moltiplicano, ma diminuiscono di numero durante le varie guerre e per altre cause di distruzione delle cose materiali. Invece non mancano mai falsari di talento, per i quali è una tentazione troppo forte quella di fare soldi grazie allo snobismo umano.

La storia dei falsi nell’arte è tanto antica quanto la storia dell’arte stessa. Uno dei primi noti falsari fu lo scultore e orefice dell’antica Grecia Zenodorus, il quale falsificò talmente bene due coppe di Calamis, da non poterle distinguere da quelle autentiche. Calamis era invece l’artista più grande, il Benvenuto Cellini greco, solo che 2000 anni prima. Potrei ricordare anche un altro falsario, e cioè Michelangelo. Poiché ai suoi tempi c’era la moda delle sculture antiche originali, Michelangelo guadagnava facendo queste sculture e vendendole come autentiche. Per questo dovette scontare 6 mesi di prigione.

Una volta trovandomi a Londra, capitai nel British Museum a una mostra di falsi nell’arte e nella scienza. Cosa non c’era! Quali imponenti prove della creatività e del talento dell’uomo sprecato in cattivi scopi! Al posto d’onore ho visto i famosissimi Canti di Ossian, scritti dal poeta scozzese del XVIII secolo James Macpherson, affermando di averli soltanto tradotti da un manoscritto in gaelico antico ritrovato e poi – ovviamente! – andato perduto. Malgrado la comprovata falsità tuttavia, i Canti di Ossian sono rimasti nella letteratura britannica un prezioso documento storico della poesia preromantica nell’Isola. Accanto a Macpherson figurava un sonetto di John Keats contraffatto da Byron. Più avanti ho visto un grande intero sarcofago etrusco molto bello, anch’esso contraffatto, benché per lunghi anni fosse stato ammirato come una perla delle raccolte dei musei inglesi. Più di tutto però mi stupì forse il falso di un…teschio di uomo delle caverne, così perfetto che lo “scopritore” per un certo tempo ottenne per esso un’alta onorificenza e una carica scientifica.

Essendo tuttavia un appassionato di musica, fui attratto in particolare dalla partitura di un Concerto per violino in re maggiore, attribuito al giovane Mozart, fino al giorno in cui non fu scoperta la frode. Secondo il falsario, il grande musicista lo avrebbe composto nel 1766 a Parigi, dedicandolo alla figlia maggiore di Luigi XV, madame Adelaide. Per questo il titolo della composizione era Adelaide-konzert. Ma tutto si rivelò una mistificazione, ideata per assicurare al falsario un posto duraturo nella musica!

Ma van Meegeren si distingueva da Zenorodus, da Michelangelo e dagli altri contraffattori. Era un personaggio unico nel suo genere nella storia dell’arte, perché in realtà e malgrado le apparenze – non falsificava Vermeer. Presupposto di un falso è la creazione di un’opera quanto più possibile identica all’originale. Invece i Vermeer che dipingeva Meegeren erano del tutto nuovi, sia dal punto di vista tematico che compositivo. Era come se avesse preso il pennello dalla mano del suo maestro morto più di due secoli e mezzo prima, e avesse continuato il suo lavoro sviluppandolo e perfezionandolo. Infatti tutti gli esperti erano concordi nel considerare i quadri di van Meegeren come opere di altissimo livello nello stile di Vermeer, che superavano a volte quelli dipinti dal maestro di Delft.

Uno degli esperti nominati, dal punto di vista artistico fu forse il più onesto – mantenne fino all’ultimo la sua ostinazione, e anche quando vide coi propri occhi van Meegeren che dipingeva il Cristo nel tempio, non si decise ad affermare che si trattava di falsi di Vermeer. Dichiarò che a lui interessava soltanto la realtà dei fatti, e cioè – considerando obiettivamente la questione – era nata una nuova opera di Vermeer, e a lui come esperto di arte non interessava chi aveva dipinto l’opera, ma era felice che essa esistesse.

La legge deve attenersi ai paragrafi, uno dei quali parla di pretium afectionis. Questo termine stabilisce il valore affettivo che una persona attribuisce a una cosa, indipendentemente dal suo reale valore. Ad esempio un acquirente può attribuire questo valore affettivo alla firma “Jan Vermeer” e non comprerebbe un quadro senza di essa, neanche se fosse dipinto alla perfezione nello stile di Vermeer. Qui la legge trovò il reato di van Meegeren, il quale firmava i quadri non con il suo nome, ricavando in tal modo ingenti somme con la loro vendita. Ma il diritto conosce anche altri due termini: “Circostanze attenuanti” e “Stato di necessità”. Circostanza attenuante per van Meegerem era – come ho già detto – la sua convinzione di non poter ottenere il plauso della gente seguendo le vie normali. Doveva spacciarsi per Vermeer per vincere l’avversione dei contemporanei verso le forme tradizionali nell’arte e l’imitazione. Circostanza attenuante era anche il fatto che per i soldi ricevuti dava agli acquirenti dei capolavori, a prescindere dalla firma.

Lo “stato di necessità” esiste quando con un male minore si salva un bene maggiore. Nel caso di van Meegeren bisognava perdonare una piccola colpa per salvare per l’umanità un grande artista. Il tribunale olandese tuttavia non prese questo in considerazione e condannò il pittore gravemente malato a un anno di prigione, malgrado fosse chiaro in anticipo che l’artista non sarebbe sopravvissuto al carcere. Il tribunale fece di più: stabilì il valore dei “falsi” di van Meegeren in 5000 fiorini a quadro. La somma pagata in più doveva essere restituita agli acquirenti da parte del condannato. La vita nel frattempo prese un’altra piega e il prezzo di mercato dei quadri di van Meegeren, dal momento in cui era scoppiato lo scandalo aumentò di cinque volte. Di conseguenza gli acquirenti ottennero la restituzione del denaro, e con 5000 fiorini diventarono proprietari di capolavori, che potevano vendere per decine di migliaia di dollari.

Che Dio li assista! Del resto l’affare Meegeren non termina qui. Esso, malgrado la morte dell’artista, si troverà di nuovo davanti a un tribunale, questa volta il tribunale della storia.

Il verdetto definitivo sarà pieno di malinconia. Esso confermerà per l’ennesima volta, nel corso dei secoli, l’impotenza del genio di fronte ai mediocri e il loro immutato desiderio di distruggere gli individui geniali. Il diritto è stato creato per regolamentare la vita dei mediocri e nel suo ambito essi si trovano bene. Ma per i geni tutti gli ambiti sono troppo stretti e per questo il diritto ha già ucciso più di un genio.

Cos’è nell’arte originale e nuovo? Dov’è la linea che separa l’imitazione dalla creazione? Quali sono i criteri di un falso e cosa si può ormai considerare un attingere solo ispirazioni dal passato? Questi problemi turberanno la letteratura, le arti plastiche e pittoriche, la musica, per tutto il tempo in cui vivrà sulla terra l’umanità e la sua arte.

Gioacchino Rossini

17 Mar

 

 

Gioacchino Rossini

Gioacchino Rossini

 

 

 

   Di Jerzy Waldorff-Preyss (1910-1999), scrittore, pubblicista e critico musicale polacco, ho già tradotto e pubblicato nel mio blog due articoli: La musica consolatrice e Arturo Toscanini. Dal suo libro Zbuntowane uszy (Le orecchie ribelli) ho scelto e aggiungo oggi nella mia versione questo suo interessante, arguto e colorito ritratto del “cigno di Pesaro”, cigno inteso naturalmente come Maestro del Belcanto. Su questa definizione e dato che i cittadini di Lugo (città natale del padre, nella provincia di Ravenna) pretendevano che Rossini fosse lughese, il compositore ironizzava definendosi “Cigno di Pesaro e Cignale di Lugo”.

 

 

 

   Eduard Hanslick nel 1867 si trovò a Parigi ed ebbe l’onore non indifferente di essere ricevuto da Rossini, verso mezzogiorno, quando il musicista era ancora nel suo letto. Dunque non durante un ricevimento ufficiale, tra una moltitudine di persone, ma in modo strettamente privato, per parlare senza testimoni. Tale favore non era riservato a molti.

 

   Entrato nella camera Hanslick vide l’anziano compositore che faceva colazione in un letto principesco. Il cocuzzolo della testa di Rossini, calvo come un ginocchio, era coperto da una calda cuffia da notte. Accanto, lungo la parete, c’era un comò sopra il quale, su appositi appoggi, facevano bella mostra una quindicina di parrucche con capelli di diversa lunghezza. Tenendo molto all’aspetto, il compositore dopo qualche giorno cambiava parrucca, per far sembrare che i capelli crescessero in modo naturale. Poi dopo un po’ di tempo diceva agli amici: “Domattina devo chiamare il barbiere!” e indossava la parrucca dai boccoli più corti.

 

   Nella vita era simile ai personaggi da lui stesso creati, e che ancora oggi divertono tanta gente sulle scene operistiche di tutto il mondo, malgrado il trascorrere del tempo.

 

   Gioacchino Rossini nacque a Pesaro il 29 febbraio 1792, anno bisestile, per cui l’anniversario esatto della sua nascita si può festeggiare soltanto ogni quattro anni. Le fonti del talento di un grande figlio si è soliti trovarle nei genitori. Raramente tuttavia accade che l’ereditarietà sia tanto chiara e indubbia, come nel caso del piccolo Gioacchino. Suo padre svolgeva la funzione di trombettiere civico e di…ispettore del mattatoio (ricordiamo questo!). La madre vantava una breve ma luminosa carriera di cantante, nota come prima donna buffa. E così il figlio di questa coppia ereditò interamente da essa il suo talento.

 

   Terminati gli studi musicali, abbastanza irregolari e trascurati, Gioacchino Rossini cominciò a comporre nel 1806, cioè all’età di 14 anni e la sua prima opera fu Demetrio e Polibio. Nel 1812 compose cinque opere e il Tancredi, scritto l’anno seguente, riportò un successo strepitoso. In quegli anni facevano scalpore nel mondo non le bombe e nemmeno i razzi interplanetari. La gente si appassionava in modo particolare per l’arte, gli Italiani – per l’opera. Dopo la prima del Tancredi si diffuse perciò da Venezia in tutta la Penisola Appenninica la lieta novella: “Abbiamo un nuovo grande compositore. La nostra musica ha iniziato una nuova fioritura!”.

 

   Gli Italiani sono però persone dagli impulsi opposti e inaspettati. Quando il 20 febbraio 1816 il Teatro Argentina di Roma mise in scena il capolavoro di Gioacchino Rossini – il Barbiere di Siviglia, il pubblico fischiò l’opera. Perché?…

 

   Ho avuto sotto mano un breve lavoro su Rossini, in cui l’autore affermava che il Barbiere fece fiasco a causa delle persecuzioni della polizia, poiché “il libretto era stato scritto dal poeta rivoluzionario francese Beaumarchais”. Che sciocchezza madornale! Beaumarchais a quel tempo era già morto da 17 anni, e della sua celebre commedia politica era rimasta nel libretto dell’opera, uscito dalla penna di Cesare Sterbini, soltanto la pura trama amorosa.

 

   La causa dell’insuccesso della prima del Barbiere fu un’altra. Gli Italiani sono fedeli ai loro artisti prediletti, e un’opera dal titolo Il barbiere di Siviglia era stata scritta un quarto di secolo prima da Giovanni Paisiello, con la quale questo musicista si era assicurato un plauso imperituro. Per la verità il previdente Rossini aveva ottenuto il consenso di Paisiello a usare la stessa trama del libretto, e inoltre egli inizialmente aveva chiamato l’opera Almaviva, o sia l’inutile precauzione. Ma questo non bastò, i romani fischiarono il Barbiere di Rossini, parteggiando per il Barbiere di Paisiello. Ma dopo aver compiuto questo doveroso atto di giustizia, già il giorno dopo il pubblico accolse il nuovo Barbiere con un fragoroso entusiasmo. Rossini divenne l’idolo  del suo paese.

 

   E infatti è una musica davvero deliziosa!… Ma esaminiamo questo fenomeno  a mente fredda, senza eccessiva indulgenza per il suo creatore. Rossini quanto più invecchiava, tanto più rivelava la sua pigrizia. Nel caso del Barbiere, essa è visibile a cominciare dall’ouverture.

 

   Nel 1813 il compositore aveva scritto l’opera Aureliano in Palmira. Due anni dopo creò Elisabetta, regina d’Inghilterra, per la quale non volle comporre una nuova ouverture, ma usò quella vecchia dell’Aureliano. Quando poi un anno dopo il musicista iniziò a scrivere il Barbiere, per la terza volta l’ouverture cambiò la sua destinazione e fu data al Barbiere, dove restò per sempre. Ma le prove della pigrizia non terminano qui. Nella stessa partitura della celebre opera si possono trovare non solo brani presi da altre opere sceniche di Rossini, ma perfino citazioni melodiche…dall’oratorio Le stagioni di Haydn! A noi Polacchi fa piacere che per il finale dell’opera il maestro italiano abbia scelto una polonaise. E ai misteri del genio di Rossini dobbiamo aggiungere il fatto che lo strano “miscuglio” del Barbiere di Siviglia è diventato ed è ancora oggi la migliore opera buffa nella storia della musica.

 

   Che significa “opera buffa”? Essa conta 200 anni di esistenza e fu ideata come interludio tra gli atti ampollosi, lunghi e – diciamolo francamente – spesso noiosi delle opere serie del diciottesimo secolo. Affinché il pubblico non si addormentasse, le parti serie erano intervallate con allegre farse musicali, nelle quali le arie e i canti erano uniti a recitativi che acceleravano lo svolgimento dell’azione. Col passare del tempo questi interludi divennero autonomi, e presero il nome di opera buffa, cioè comica. Uno dei primi capolavori di questo genere fu La serva padrona di Pergolesi, ma il più grande in assoluto è il Barbiere di Siviglia di Rossini. Ancora oggi quest’opera incanta con la bellezza della melodia, trascina col suo ritmo vivace, brilla per l’arguzia musicale. E’ come un ottimo vino, le cui bottiglie vengono degustate da successive generazioni con sempre maggior piacere. Bisogna rendere infine a Cesare Sterbini ciò che gli spetta. Il suo libretto, benché contenga soltanto gli elementi più futili della geniale commedia di Beaumarchais, è una farsa perfetta, armoniosa e assai divertente.

 

   Un anno dopo il Barbiere Rossini creò un’altra brillante opera comica, la Cenerentola. Successivamente ebbe applausi o fischi dagli incostanti connazionali per la Gazza ladra, il Califfo di Bagdad, Semiramide e molte altre opere. Il Mosè, Guglielmo Tell e l’oratorio Stabat Mater furono scritti a Parigi. Un patrimonio musicale comprendente più di 30 opere, ma anche molte composizioni di musica sacra, orchestrali, da camera e strumentali.

 

   Lasciò l’Italia per la prima volta nel 1823, stizzito dai capricci del pubblico italiano. Da Parigi insieme con la moglie si recò a Londra, dove lo accolsero come un regnante. Si contendevano i suoi favori i sovrani e gli ambasciatori di tutte le potenze europee, dalla Francia alla Russia. Ebbe la meglio l’ambasciatore francese, proponendo a Rossini la direzione dell’Opera Italiana a Parigi. Prima di assumere questo incarico, il musicista aveva entusiasmato l’Inghilterra non solo come compositore e direttore d’orchestra, ma anche come cantante, esibendosi in duetti con la celebre Angelica Catalani. Quando sei mesi dopo salì sulla nave e lasciò la Gran Bretagna, aveva nel portafoglio l’enorme somma di settemila sterline.

 

   Abbastanza presto rinunciò alla direzione dell’Opera Italiana a Parigi, ma allora il re gli offrì una sinecura di ventimila franchi l’anno, con il titolo di primo compositore di Sua Maestà e di Ispettore Generale del Canto nel Regno. Purché non lasciasse la Francia.

 

   Ma nel 1830 scoppiò la rivoluzione di luglio, infausta per gli artisti, come tutte le scosse improvvise di questo tipo. Essa indusse Gioacchino Rossini a tornare in Italia. Dopo i Borboni sul trono di Francia era salito il re-mercante Luigi Filippo, indifferente all’arte. Inoltre aveva cominciato a diffondersi il Romanticismo e la fama di Rossini fu offuscata dalla nuova stella nel firmamento dell’opera – Jakob Meyerbeer. Amareggiato dal successo degli Ugonotti che, a suo parere, erano soltanto un chiassoso e volgare esibizionismo dei sentimenti nell’arte, Rossini lasciò Parigi e si stabilì a Bologna. Al tempo stesso decise di tacere come compositore, mantenendo il suo proposito fino alla morte. Da allora compose di rado cose di scarso rilievo, rifiutandosi di pubblicarle. Difficile oggi dire quanto in quella decisione pesassero le profonde trasformazioni nella musica e la dolorosa rassegnazione, quanto l’esaurimento della vena artistica e quanto la pigrizia.

 

   A Parigi tuttavia Rossini tornò 20 anni dopo, esattamente nel 1855. Era ormai innocuo per i concorrenti, perciò tutti accettarono di colmarlo di onori. Che reciti pure la parte di monumento vivente del passato!…

 

   La stupenda villa dei Rossini a Passy presso Parigi diventò una delle curiosità e dei vanti parigini. Vi si recavano in pellegrinaggio tutti i musicisti stranieri, come a Roma i fedeli si recano in Vaticano. Nel vecchio Rossini emerse (ricordate suo padre, ispettore del mattatoio?) una nuova passione – quella culinaria. Offrendo banchetti agli amici, egli stesso creava nuove pietanze, con particolare predilezione per quelle a base di carne. Ancora oggi nei menu dei migliori ristoranti si può trovare il manzo sotto il nome di Tournedos à la Rossini.

 

   Dovevano essere piacevoli questi ricevimenti, durante i quali l’anfitrione inteneriva gli invitati con la sua ospitalità, e la padrona di casa…li gelava con la sua tirchieria. Il malizioso Hanslick ci ha lasciato questa descrizione della signora Rossini: “Dicono che da giovane fosse bella. Quando l’ho conosciuta, dal suo viso sporgeva un enorme naso, come una torre scampata alle rovine di un castello. Il resto era coperto di brillanti”.

 

   Benevolo con tutti e cordiale, Rossini soltanto in fatto di musica conservò sempre la proverbiale severità di giudizio. A un ricevimento una celebre cantante eseguì un’aria del Barbiere, per la quale raccolse nel grembo del suo abito molte monete d’oro, e perfino anelli e braccialetti preziosi quale dono degli ascoltatori. Ma a Rossini non era piaciuta, perciò quando si avvicinò a lui e gli disse: “Vede Maestro, quanto ho ricevuto per una sola sua aria?”, il vecchio replicò: “Sono molto felice. Adesso lei ha abbastanza per pagarsi le lezioni di canto”.

 

   Il 13 novembre 1868 Gioacchino Rossini morì, dopo una dolorosa agonia. Fu seppellito con grande pompa. Presso il suo feretro chinò la testa tutta l’Europa della Cultura. Anche noi dobbiamo sospirare su quella morte dell’illustre artista, e poi prestare orecchio alla sua musica eternamente viva.

 

 

 

   Qui finisce il testo di Waldorff. A proposito di arte culinaria, la cui musa, lo confesso, è alquanto benigna anche con me, voglio terminare questo mio post con un simpatico aneddoto. Durante la visita di Richard Wagner nella villa di Rossini a Passy, è stato narrato che quest’ultimo si alzasse durante la conversazione quattro o cinque volte, per poi tornare a sedersi dopo pochi minuti. Alla richiesta di spiegazioni da parte di Wagner, Rossini rispose: “Mi perdoni, ma ho sul fuoco una lombata di capriolo. Deve essere annaffiata di continuo”.

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti