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Ekaterina Poljanskaja Vladimirovna

15 Lug

     Ekaterina PoljanskajaVladimirovna, poetessa e traduttrice dal polacco e dal serbo, è nata il 2 gennaio 1967 a Leningrado. La madre morì in giovane età e il padre, dopo la sua morte, smise di interessarsi della figlia; per questo, dopo alcuni periodi trascorsi in istituti statali per l’infanzia, della sua educazione si occupò la nonna Ljudmila Petrova, di professione medico, alla quale la futura poetessa deve la vita e la sua formazione.

      Da bambina già componeva poesiole che a volte mostrava solo alla nonna, la quale però non mostrava troppo interesse per ciò che scriveva la nipotina. Terminata la scuola, si iscrisse alla Facoltà di Matematica dell’Università Pedagogica Statale “A.I. Herzen”, che tuttavia lasciò dopo un anno, iniziando gli studi presso il Primo Istituto di Medicina. Scriveva sempre versi, considerando ciò come una peculiarità fisiologica e come una questione assolutamente personale. Laureatasi in medicina, si è sposata e ha iniziato a lavorare come medico-traumatologo presso il Centro Nazionale di Ricerca Medica di Traumatologia e Ortopedia “R.R. Vreden”. Vi restò fino al 2009. Attualmente lavora per la ditta “Technoprojekt”.

     Ekaterina mostrava di rado i suoi versi e solo a una ristretta cerchia di amici, sia perché non provava questa necessità, e sia perché alla maggior parte dei conoscenti e dei colleghi la letteratura non interessava e lei era demotivata dai loro giudizi (le persone serie e normali non scrivono poesie, ma leggono e scrivono tesi).

     Tutto cambiò quando suo marito, approfittando di un’assenza della moglie-poetessa, prese tutti i suoi manoscritti e li portò alla rivista “Neva”, sperando, come disse poi, che le facessero il “lavaggio del cervello” e la convincessero a non occuparsi più di fanfaluche. E invece un mese dopo, inaspettatamente ricevette una lettera del redattore della sezione poesia Boris Drujan, con cui le proponeva un incontro. Egli le disse che i versi erano di suo gusto e che li avrebbe pubblicati. E così la prima scelta di poesie uscì nel numero di gennaio della rivista nel 1997. Poco dopo la stessa redazione pubblicò la prima raccolta “Sonagli”. Qualche mese dopo nella stessa rivista apparvero gli articoli critici “Le tenebre delle basse verità”. Da quel momento sono uscite altre 6 raccolte, l’ultima delle quali “Il metronomo” nel 2019. La poetessa ha ricevuto numerosi prestigiosi premi e ha vinto diversi concorsi. Le sue poesie sono state tradotte in più lingue.

     Ekaterina Poljanskaja dice: «Non entro mai in “congreghe” letterarie. Lavoro e scrivo poesie solo quando non posso non farlo».

     La poetessa Jana-Marija Kurmangalina scrive: «La poesia di Ekaterina Poljanskaja si mantiene nelle migliori tradizioni del poetare classico. Non segue mai le tendenze attuali, ma segue la forte priorità della sua espressione personale, della sua voce, rispetto alla forma. Ciò è davvero importante capire leggendo le sue poesie, tragiche ed ottimistiche al tempo stesso: tragiche, perché il mondo è tale (ma era forse diverso?), ottimistiche, perché anche nei tempi più bui, c’è sempre posto per la forza dello spirito umano».

     Secondo la scrittrice e critico letterario Natal’ja Savuškina: «…Le poesie di Ekaterina Poljanskaja sono come permeate dei “disagi urbani” e al tempo stesso sono come spinte dai liberi venti della steppa. Due immagini, due ipostasi dell’esistenza terrena dell’eroina lirica – la città di pietra che costringe a condividere il peso di una vita vana, e lo spazio libero della steppa, trovano un punto d’incrocio, una nota comune, il loro unico compromesso nell’immagine del vento. Il vento è dappertutto, più precisamente l’eroina lirica lo cerca dappertutto, come punto di riferimento, come se accordasse in base ad esso il suo diapason interiore. Il vento “ciecamente” disperde le foglie, come i destini. E viceversa».

     Mi piace concludere questa breve presentazione della poetessa con un pensiero del poeta pietroburghese Dmitrij Legeza: «Per me leggere le poesie di Ekaterina Poljanskaja è come passeggiare nell’amato centro storico di San Pietroburgo, è come respirare aria tersa (così essa si può incontrare anche nella Pietroburgo velata dalla nebbia e piovosa)… Non è importante a quale città sono dedicati i suoi versi, e se riguardano farfalle o fiori: il suo stile è  sempre facilmente riconoscibile».

Poesie di Ekaterina Poljanskaja tradotte da Paolo Statuti

*  *  *

Inizio di maggio. Freddo, luce

E vento. Le ombre trasparenti,

E sull’asfalto frantumi di vetro

Gettano riflessi iridescenti.

Guarda, proprio in un mondezzaio

Un soffione d’oro è spuntato,

Così indifeso e resistente,

Di forza vitale dotato.

E il mondo che sta scoppiando,

In quest’unico fiore di campo

Trova il suo ultimo scudo

E una tenue speranza di scampo.

Maggio 2023-06-21

*  *  *

Lei pianta i fiori

in un piccolo giardinetto

tra cemento e asfalto.

Dice: «È la mia gioia!».

I vicini

alzano le spalle­:

«Ma ci tieni così tanto?

I cani rovinano tutto,

i bambini li calpestano,

il sole li brucia.

Ma soprattutto,

le tue finestre

danno su un’altra parte»

Lei sorride,

si sfrega la schiena stanca

tace con un senso di colpa.

Il vento di Pietroburgo,

soffiando tra gli androni,

coglie i riflessi del sole,

insegue le cornacchie,

sospira lievemente:

«… è la mia gioia…

                          … la mia gioia…»

*  *  *

                            … ma sì, possono dire che sono tra quelli che scrivono su rose e farfalle…

                                                                                           giudizio in rete.

Sì, io scriverò di certo su fiori e farfalle,

A dispetto di guerre e lutto,

Perché non potrò superare pena e paura,

Se non li porterò in me dappertutto.

Sì, io scriverò di loro, perché sono fragili,

Perché più grande del nostro è il loro coraggio…

Alucce leggere, petali sottili –

Un mondo che dell’uomo è più vecchio e più saggio.

Scriverò, perché di noi tutti la vita può fare a meno,

Ma senza di loro non resisterà.

Semplicemente  si frantumeranno come una noce

I piani, le ambizioni, le altre futilità.

Perché quando non saremo più dei “nostri” e dei “loro”,

E attraverso la vergogna amara e inquietante

Ci riconcilieremo, li vedremo di nuovo.

E scorgeremo l’eternità dentro l’istante.

*  *  *

Da una frase vuota su un fatto del giorno,

Da versetti servili, da una folle tiratura,

Angelo del Buon Tacere, proteggimi –

Metti alla mia bocca una serratura.

Meglio per me, sfinita nella mutezza,

Finire  nella terra come un ruscello,

Piuttosto che, andando avanti a spintoni,

Io debba dire: ciò che scrissi non è bello.

Meglio sparire, semplicemente – morire,

Dentro dai versi essere messa in croce.

Solo per ardere davanti alla Tua effige,

Per ascoltare soltanto la Tua voce!

Perché l’orecchio senta solo i Tuoi passi,

La Tua luce io veda anche da lontano…

L’eternità in me, Ti prego, custodisci,

In fondo sono solo un essere umano.

Nell’ora in cui la vanità il cuore inonda,

Esigendo di servirla e ad essa sottostare,

Angelo del Buon Tacere, chiudimi la bocca.

Davanti al Verbo non lasciarmi peccare.

*  *  *

Nella metro il solito viavai della giornata

Attenua il dolore dell’addio per sempre.

Io per abitudine abbasso gli occhi

Scendendo adagio fino alla fermata –

Sempre più giù, come a toccare il fondo

Con un sorriso di muto stordimento…

Candelabri e viaggiatori sui gradini

Scorrono in alto, verso il bel mondo.

Presentendo il tratto estremo,

La realtà del fatale distacco,

Io tra la folla tendo le mani

E so che si estinguerà in un baleno

L’unica parola. E allora resteranno:

«… Beh, stammi… scrivi… Certamente…»

Rotolano le rotaie nell’infinito,

E per sempre i treni se ne vanno.

*  *  *

Stancamente il tramonto

Le pareti avvelena,

E in barca lungo il Krjukov

Scivola la mia pena.

Attraverso la diafana levità del campanile,

Attraverso i ponti dove l’ombra si stende,

Attraverso il buio dei sogni

E trecento anni di dolore cocente.

Lungo le facciate ferite dal tempo

E i luoghi deserti,

Attraverso il riflesso oscillante del recinto

E il tremolio dei rametti.

Tra i gridi silenziosi dei portoni

E di qualcuno la paura,

Attraverso l’afa di luglio e l’avaro autunno

Che agli occhi di altri si raffigura.

Attraverso il ricordo di abitazioni spartite,

Lungo la sponda

Di acque non più del Krjukov

L’amore scivola come un’onda.

*  *  *

                                                Ti amo, o Vita…

                                                  K. Vanshenkin

Se fossi nata, diciamo, nella distinta Germania,

Dove tutto è preciso – le mucche, le case, l’acetosa,

Amerei la birra, farei scorta di denaro e di scienza,

Rispetterei le leggi e non credo che scriverei qualcosa.

Se fossi nata nella vezzosa e femminile Francia,

Dove primeggia l’amore, il vino e ogni profumeria,

Flirtando con grazia, resterei sempre frivola e giovanile,

Amoreggerei, senza scrivere una sola poesia.

Se fossi nata nell’aurea, melodiosa Italia,

Dove il cielo ride e il sole brucia i peccati,

Là dove maturano i limoni, cresce l’uva e altro ancora,

Canterei come un uccello, ma i versi non avrei creati.

Ma io vivo in Russia, il dono di Dio con la frittata non mischio,

Per non gelare di notte, brucio la legna che resta,

E amo, senza motivo, questa amara, crudele,

Scomoda vita. E la poesia nasce nella mia testa.

Ricordi, salivamo sul treno…

                                                        A L. Strel’čuk

Ricordi, salivamo sul treno

(Dio sa quanti anni addietro),

Sul freddo treno, spezzando i fiammiferi,

Fumavano, malgrado il divieto.

E poi camminavamo, le mani nelle tasche,

Sulla strada vuota, dalla stazione deserta.

Ricami di zampette d’uccelli e di gatti

Come lividi sulla neve. E con una certa

Apprensione sellavamo i cavalli

E tacendo lasciavamo il cortile, mentre

I marmocchi della stalla ci gridavano

Dietro qualcosa allegramente.

Mi sembra che in quel tempo ero

Innamorata cotta. Di chi non vale

Ora sapere. La staffa gelata bruciava

La gamba attraverso lo stivale…

Non volendo, la memoria  strani squarci

Coglieva: il freddo, una galoppata –

Fotogrammi di un film in bianco e nero:

Arbusti, una neve orrenda e sconfinata.

All’orizzonte – una catena di fiammelle,

E la prima stella di turno già presente.

L’inutile, desiderata sospensione

Di tutte le condanne. Corrono verso niente

In quei campi i cavalli ancora oggi –

Non sono stanchi, né li puoi frenare.

E il vento geme e li spinge avanti,

E lui stesso dietro saluta senza sperare.

*  *  *

Angeli di Pietroburgo… Ne restano così pochi,

Con dolore stringono le croci le rattrappite mani.

Gli angeli di Pietroburgo guardano splendenti e stanchi

Le isole, le case e i ponti che scorrono lontani.

Angeli di Pietroburgo… Ogni anno per loro è più arduo

Custodire le amate vie dalla nebbia oscurate.

Il vento è sempre più pungente, freddo e rude,

E le angeliche spalle sono sempre più chinate.

Solo di notte, con la città che nel sonno ascolta chi muore

E le sale del palazzo attendono l’imperatore,

Gli angeli di Pietroburgo dal cielo scendono in terra

E, piegate le ali, percorrono i cortili tra le dimore.

*  *  *

Non affliggerti, anima mia. Tra i celebrati campi russi,

Le paludi di Chukhon, lo squallore della città condannata,

Non temere nulla. Non dispiacerti della tua orfanezza,

Di niente. Non aspettarti pietà, né ricompensa meritata.

Nessuno è tenuto ad amarci. Nessuno con noi

In questo freddo mondo ha un conto aperto.

Non affliggerti, anima. Non deviare dal tuo cammino,

Turbando con un fuoco agitato il gelido deserto.

Riscaldando con te stessa lo spazio, malgrado tutto,

Preferendo alle leggi ciò che è libero e sconfinato,

Librandoti sullo specchio dell’ultimo fiume,

Bruciando d’amore in un volo cieco ed elevato.

(C) by Paolo Statuti