Nina Kossman

26 Feb

    

Ho incontrato Nina Kossman (in Russian Kosman) in Facebook, grazie a un “Mi piace” da lei messo a un mio testo. Incuriosito, ho voluto sapere chi fosse e ho scoperto un “mondo nuovo”, un talento multiforme con una straordinaria creatività. Scrive poesie romanzi, racconti, drammi, dipinge e scolpisce, traduce poesie russe in inglese. E’ nata a Mosca. Durante la guerra molti membri della famiglia del padre morirono nell’Olocausto a Riga (Lettonia), mentre molti famigliari della madre morirono nell’Olocausto in Ucraina, dove allora vivevano. Nel 1972 con la famiglia emigrò dall’Unione Sovietica. Dopo un anno trascorso tra Israele e Roma, si stabilì prima a Cleveland e poi a New York, dove tuttora vive.

     Ha pubblicato tre raccolte di poesie in russo e in inglese, due raccolte di racconti e un romanzo in inglese. I suoi quadri sono stati esposti in Canada e in America. La sua prima raccolta di poesie fu stampata dalla casa editrice “Belle Lettere” nel 1990. Racconti e poesie in inglese sono apparsi in riviste americane e canadesi. La sua prosa e i suoi versi sono stati tradotti dall’inglese in francese, spagnolo, giapponese, olandese, persiano, greco, ebraico, cinese, e adesso pubblicate per la prima volta le mie in italiano. Il suo romanzo di successo La regina degli ebrei (2019) è uscito prima in Inghilterra e successivamente anche in russo. Nel 1995 ha ricevuto il premio del Pen Club inglese e dell’Unesco per la prosa in inglese, e una donazione dalla National Endowment of Arts per la sua traduzione delle poesie di Marina Cvetaeva. Riguardo ad essa il noto poeta e scrittore V.S. Mervin (1927-2019) ha scritto: «Sono versioni chiare, forti, udibili, sento in esse la voce di Cvetaeva in misura maggiore e in un tono nuovo che svela nei suoi versi qualcosa che prima avevo appena intuito».

     Nina Kossman è dunque bilingue e a tale proposito dice: «L’ inglese è la lingua che dovevo usare nel mondo esterno – a scuola, in città, ecc., mentre la mia poesia scritta in russo è emersa dal mio mondo interiore, tutto mio».

     Il critico letterario Pjotr Tartakovskij (1926-2015) in un suo articolo sulla poesia di Nina Kossman scrive: «La parola di questa poetessa è duttile, pungente e soprattutto attuale ed eterna, non perché ambisca a una qualche immortalità, ma perché sceglie per la personificazione artistica non ciò che è temporaneo, ma ciò che è eterno, trasmessoci dalla Natura e dal Tempo».

     Il poeta, critico e giornalista Daniil Čkonja nella sua prefazione alle poesie di Nina Kossman, pubblicate nella più importante rivista di poesia russa La Lira dell’emigrazione afferma: «Le poesie di Nina Kossman abbinano i miti dell’antica Grecia alla sensualità contemporanea…Questa poetessa intreccia abilmente strati storico-culturali con gli avvenimenti del nostro tempo, creando un suo proprio quadro della vita nella sua continuità e unità».

     Ed ecco infine il commento del mio amico poeta e slavista Antonio Sagredo, al quale ho fatto leggere le poesie di Nina Kossman da me tradotte: « Ciò che più colpisce in questa poetessa è la forte personalità che possiede e che dimostra come ha ingerito al massimo grado la lezione e la vita della poetessa russa  Marina Cvetaeva, della quale è stata fine traduttrice di tanti suoi versi. Questa sua personalità mi richiama un’altra grandissima figura femminile: Anna Politkoskaja (uccisa sotto casa dagli uomini del Cremlino) che fu pure lei affascinata dalla Cvetaeva tanto da scriverne la sua tesi di laurea; questa grande giornalista soltanto lei poté affrontare con coraggio il potere, come ai suoi tempi spietati la poetessa.

   Donne dunque  di carattere inflessibile, e questi versi della Kossman – così attuali in questi nostri tempi odierni – ne testimoniano il piglio irremovibile di fronte ad eventi tragici che si ripetono crudelmente, tanto da marchiarli ancora di più:

Sono nata nel paese

Dei morti a milioni,

Nel silenzio soffocante

Di guardinghe passioni,

Dove il cielo di notte

Era detto assolato,

Coi teschi così a lungo

Sotto il suolo ghiacciato.

Non verranno sepolti,

I nomi scorderanno;

I nomi degli uccisi

La lapidi non sapranno,

Delle anime riconosciute

Per il sangue loro:

Io sono della stessa valle,

Ma non dello stesso coro.

     E’ certo che ci vuole grande talento a tradurre la Cvetaeva!, e la Kossman lo ha di certo perché le stato riconosciuto in primis dal celebre critico americano Harold Bloom e dal poeta W.S. Merwin, e da tanti altri notevoli critici e poeti di varia estrazione culturale.

   Dalla foto della Kossman noi miriamo il suo bel viso che tradisce un carattere determinato e pochissimo incline a giudizi lusinghieri e confortanti. Il suo verso è chiaro in forma e contenuto e di questo dobbiamo ringraziare la bravura del traduttore Paolo Statuti; questo verso non lascia al critico di dubitare affatto della sua missione, poiché è diretto e non ha tempo per fronzoli e ricami che possano rigenerare una speranza nuova e diversa:

Non più immune dagli eventi della sua anima,

egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.

   Nina Kossman ha scritto tanto e la sua bibliografia giustifica il suo impegno là dove la poesia, la sua anche, ha diritto di abbarbicarsi su qualsiasi cosa che richieda un supporto, un aiuto, un richiamo all’umanesimo. Poesia dunque combattiva per la verità che svela i crimini impuniti, come appunto quella della poetessa Cvetaeva, e come i reportages coraggiosi – io scrivo quello che vedo!  – della Politkovskaja.

     E allora di nuovo i miei ringraziamenti, che mai finiscono, a Paolo Statuti vera talpa che scova la poesia dei poeti di ogni latitudine… un lavoro di scavo prezioso con cui le generazioni che verranno dovranno confrontarsi.

Ma ecco la poesia della Nina:

Eccola, vedi, scorre,
l’acqua viva del torrente,
l’acqua viva delle fiabe,
per tutti e per niente».

Poesie di Nina Kossman tradotte da Paolo Statuti

Babi Yar

La madre diceva tua sorella mi fa impazzire,

Ma dov’è, oggi andiamo tutti a morire.

I fritzi* bussano alla porta, dobbiamo uscire.

Presto, svelto, perché quei libri, che te ne fai,

Là dove andremo a stare non li userai mai.

Sei sempre l’ultimo, figlio mio, continuava a dire.

Ecco, sono pronti, ma ora lui vuole dormire!

Dormirai là dove ci porta la nostra stella.

Lascia i libri e cerca piuttosto tua sorella.

Sei uno sciocco, davvero, ma quale stazione?

Ora c’è anche la sorella e vanno in processione.

Chi guidava la colonna loro al macello

Aveva nipoti e pronipoti e prendeva la pensione,

I nipoti hanno un animo gentile, non serve

Traumatizzarli parlando loro di un certo bosco,

Dicendo che nel mondo non c’è molto posto,

Che è una radura, e nessuno è risuscitato;

Ma che il nonno alla loro madre ha mirato,

Che il giovane era mezzo addormentato,

E cadendo sulla madre gli è sfuggito il sacchetto,

Tra i libri sparsi sul corpo c’era anche un gessetto…

Taci, al nipote non serve il tuo boschetto.

*Soprannome peggiorativo per i tedeschi (N.d.T.)

*  *  *

Vedi come il nero stormo

di uccelli caduti senza chiasso

guarda, ingoiando l’aria,

l’aria che fissa in basso;

e la loro mente, diventata ali

e il loro sogno sorpreso

della volta celeste, perfidamente segata

fino all’azzurro stesso –

dal nero stormo, senza un grido,

nelle mute lame dell’erba:

della ferrosa terra centocchi

e del vedente cielo sono una lega.

*  *  *

Vedi come il sole nasconde

abilmente con le mani d’oro

il ricordo degli avi bruni

in lunghi vasi pagani;

sottili mani del sole,

agili gialle dita –

perché non si sappia nulla

dei visi sereni degli Etruschi,

delle lievi etrusche ceneri,

e del secolare specchio tra noi e la morte.

*  *  *

Sono nata nel paese

Dei morti a milioni,

Nel silenzio soffocante

Di guardinghe passioni,

Dove il cielo di notte

Era detto assolato,

Coi teschi così a lungo

Sotto il suolo ghiacciato.

Non verranno sepolti,

I nomi scorderanno;

I nomi degli uccisi

La lapidi non sapranno,

Delle anime riconosciute

Per il sangue loro:

Io sono della stessa valle,

Ma non dello stesso coro.

Là dove mamma piangeva

Per l’uccisione del padre,

Dio di Abramo –

Ozem nell’ade.

Nuovi paesi e l’amore

Io non trovo,

Se sotto la neve i resti

Giacciono di nuovo.

*  *  *

Eccola, vedi, scorre,
l’acqua viva del torrente,
l’acqua viva delle fiabe,
per tutti e per niente.
Nessuno vestirà d’oro,
nessuno dall’insonnia salverà,
l’acqua viva delle fiabe,
limpida e lenta sarà.

Vedi come dolcemente scorre,
si aggrappa alle mie fredde mani,
l’acqua viva delle fiabe –
via da me!* Cura prima i tuoi mali.

*L’espressione russa “Czur menjà”, da me tradotta “Via da me”, è usata per scongiurare una minaccia, un pericolo da parte di uno spirito maligno derivato dalla mitologia slava.

*  *  *
Vedi come i gabbiani assonnati,
lentamente sonnolenti si aggirano,
muovono le ali
sulla rossa argilla presso il lago,
l’argilla con cui i greci
plasmavano stretti vasi
con un accenno alla vita degli dei
(custodi del segreto della morte,
rivelatisi soggetti ad essa) –
gli dei di argilla rossa
presso il lago degli uccelli assonnati.

*  *  *

Se la morte non c’è,

allora puoi campare,

con una parola puoi la terra evocare,

con ogni parola la vita prolungare,

con ogni lettera gli uccelli invitare

a un convito di briciole di pensiero,

di scorza di sogno; il loro chiasso mattiniero

è un segno che la  vita non è un inganno,

lascia che muovano la coda come fanno,

lascia che sia un indizio

che la morte non ha né fine né inizio.

*  *  *

Non più immune dagli eventi della sua anima,

egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.

Egli ora percepiva in esso non un ruggente nulla,

ma gli anelli e le crespe lasciate nell’aria

da un suono, un gesto, un commosso addio.

Pronto per l’età adulta, il mondo farà germogliare

viticci e petali in luogo di un sospiro

inudito dalle forze avvolte nelle nubi

o sotto il primevo suolo dove dormono gli amanti.

O scintillio di una vita faccia a faccia con un miracolo!

L’apparenza respinta per amore dei sentimenti!

Spruzzato di felicità come di dolce acqua,

egli si gettò a capofitto nel ridente grembo di lei

il cui viso egli poteva uguagliare al nulla,

la cui mano – ah, la più vera mano umana!

Pronto ad ammirare la purezza nella stagionale lite

di lei col vuoto, egli – come tutti i candidi amanti,

vedeva anziché il viso di lei, il suo proprio capriccio.

Quando il seme del miracolo generò lo stelo del dubbio,

egli udì una dolce melodia – la sua;

egli udì un ruggente vuoto – del mondo.

*  *  *

Irruppe a un tratto e come un cieco,

Inciampando, il vagone attraversò.

«Ehi, dove vai?! Fermati!» –

Dalla banchina qualcuno gridò.

Ma egli parla con se stesso,

Il bastone qua e là puntato,

Proprio come un cieco,

Alle tenebre abituato.

Ma chi è? Come si chiama?

Come può l’angoscia superare?

Si irrigidì al finestrino,

Cercava di ricordare.

Chi è? Da dove è venuto?

Alla luce come si strugge!

Eppure ognuno, sempre

Al nulla sfugge.

*  *  *

Ogni giorno più libere,

le parole che la morte ha preso:

cosa possono dire

che non è stato già chiarito,

più libere nella pioggia

ogni anno finito

parole che la morte ha preso,

cosa possono dire

che non è stato ancora detto

in ogni lingua, ogni libro;

se il silenzio è d’oro

allora le parole che la morte ha preso

sono oro in una rete da pesca,

io le aspetto in silenzio,

ogni giorno più libere.

(C) by Paolo Statuti

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