Ekaterina Poljanskaja Vladimirovna

15 Lug

     Ekaterina PoljanskajaVladimirovna, poetessa e traduttrice dal polacco e dal serbo, è nata il 2 gennaio 1967 a Leningrado. La madre morì in giovane età e il padre, dopo la sua morte, smise di interessarsi della figlia; per questo, dopo alcuni periodi trascorsi in istituti statali per l’infanzia, della sua educazione si occupò la nonna Ljudmila Petrova, di professione medico, alla quale la futura poetessa deve la vita e la sua formazione.

      Da bambina già componeva poesiole che a volte mostrava solo alla nonna, la quale però non mostrava troppo interesse per ciò che scriveva la nipotina. Terminata la scuola, si iscrisse alla Facoltà di Matematica dell’Università Pedagogica Statale “A.I. Herzen”, che tuttavia lasciò dopo un anno, iniziando gli studi presso il Primo Istituto di Medicina. Scriveva sempre versi, considerando ciò come una peculiarità fisiologica e come una questione assolutamente personale. Laureatasi in medicina, si è sposata e ha iniziato a lavorare come medico-traumatologo presso il Centro Nazionale di Ricerca Medica di Traumatologia e Ortopedia “R.R. Vreden”. Vi restò fino al 2009. Attualmente lavora per la ditta “Technoprojekt”.

     Ekaterina mostrava di rado i suoi versi e solo a una ristretta cerchia di amici, sia perché non provava questa necessità, e sia perché alla maggior parte dei conoscenti e dei colleghi la letteratura non interessava e lei era demotivata dai loro giudizi (le persone serie e normali non scrivono poesie, ma leggono e scrivono tesi).

     Tutto cambiò quando suo marito, approfittando di un’assenza della moglie-poetessa, prese tutti i suoi manoscritti e li portò alla rivista “Neva”, sperando, come disse poi, che le facessero il “lavaggio del cervello” e la convincessero a non occuparsi più di fanfaluche. E invece un mese dopo, inaspettatamente ricevette una lettera del redattore della sezione poesia Boris Drujan, con cui le proponeva un incontro. Egli le disse che i versi erano di suo gusto e che li avrebbe pubblicati. E così la prima scelta di poesie uscì nel numero di gennaio della rivista nel 1997. Poco dopo la stessa redazione pubblicò la prima raccolta “Sonagli”. Qualche mese dopo nella stessa rivista apparvero gli articoli critici “Le tenebre delle basse verità”. Da quel momento sono uscite altre 6 raccolte, l’ultima delle quali “Il metronomo” nel 2019. La poetessa ha ricevuto numerosi prestigiosi premi e ha vinto diversi concorsi. Le sue poesie sono state tradotte in più lingue.

     Ekaterina Poljanskaja dice: «Non entro mai in “congreghe” letterarie. Lavoro e scrivo poesie solo quando non posso non farlo».

     La poetessa Jana-Marija Kurmangalina scrive: «La poesia di Ekaterina Poljanskaja si mantiene nelle migliori tradizioni del poetare classico. Non segue mai le tendenze attuali, ma segue la forte priorità della sua espressione personale, della sua voce, rispetto alla forma. Ciò è davvero importante capire leggendo le sue poesie, tragiche ed ottimistiche al tempo stesso: tragiche, perché il mondo è tale (ma era forse diverso?), ottimistiche, perché anche nei tempi più bui, c’è sempre posto per la forza dello spirito umano».

     Secondo la scrittrice e critico letterario Natal’ja Savuškina: «…Le poesie di Ekaterina Poljanskaja sono come permeate dei “disagi urbani” e al tempo stesso sono come spinte dai liberi venti della steppa. Due immagini, due ipostasi dell’esistenza terrena dell’eroina lirica – la città di pietra che costringe a condividere il peso di una vita vana, e lo spazio libero della steppa, trovano un punto d’incrocio, una nota comune, il loro unico compromesso nell’immagine del vento. Il vento è dappertutto, più precisamente l’eroina lirica lo cerca dappertutto, come punto di riferimento, come se accordasse in base ad esso il suo diapason interiore. Il vento “ciecamente” disperde le foglie, come i destini. E viceversa».

     Mi piace concludere questa breve presentazione della poetessa con un pensiero del poeta pietroburghese Dmitrij Legeza: «Per me leggere le poesie di Ekaterina Poljanskaja è come passeggiare nell’amato centro storico di San Pietroburgo, è come respirare aria tersa (così essa si può incontrare anche nella Pietroburgo velata dalla nebbia e piovosa)… Non è importante a quale città sono dedicati i suoi versi, e se riguardano farfalle o fiori: il suo stile è  sempre facilmente riconoscibile».

Poesie di Ekaterina Poljanskaja tradotte da Paolo Statuti

*  *  *

Inizio di maggio. Freddo, luce

E vento. Le ombre trasparenti,

E sull’asfalto frantumi di vetro

Gettano riflessi iridescenti.

Guarda, proprio in un mondezzaio

Un soffione d’oro è spuntato,

Così indifeso e resistente,

Di forza vitale dotato.

E il mondo che sta scoppiando,

In quest’unico fiore di campo

Trova il suo ultimo scudo

E una tenue speranza di scampo.

Maggio 2023-06-21

*  *  *

Lei pianta i fiori

in un piccolo giardinetto

tra cemento e asfalto.

Dice: «È la mia gioia!».

I vicini

alzano le spalle­:

«Ma ci tieni così tanto?

I cani rovinano tutto,

i bambini li calpestano,

il sole li brucia.

Ma soprattutto,

le tue finestre

danno su un’altra parte»

Lei sorride,

si sfrega la schiena stanca

tace con un senso di colpa.

Il vento di Pietroburgo,

soffiando tra gli androni,

coglie i riflessi del sole,

insegue le cornacchie,

sospira lievemente:

«… è la mia gioia…

                          … la mia gioia…»

*  *  *

                            … ma sì, possono dire che sono tra quelli che scrivono su rose e farfalle…

                                                                                           giudizio in rete.

Sì, io scriverò di certo su fiori e farfalle,

A dispetto di guerre e lutto,

Perché non potrò superare pena e paura,

Se non li porterò in me dappertutto.

Sì, io scriverò di loro, perché sono fragili,

Perché più grande del nostro è il loro coraggio…

Alucce leggere, petali sottili –

Un mondo che dell’uomo è più vecchio e più saggio.

Scriverò, perché di noi tutti la vita può fare a meno,

Ma senza di loro non resisterà.

Semplicemente  si frantumeranno come una noce

I piani, le ambizioni, le altre futilità.

Perché quando non saremo più dei “nostri” e dei “loro”,

E attraverso la vergogna amara e inquietante

Ci riconcilieremo, li vedremo di nuovo.

E scorgeremo l’eternità dentro l’istante.

*  *  *

Da una frase vuota su un fatto del giorno,

Da versetti servili, da una folle tiratura,

Angelo del Buon Tacere, proteggimi –

Metti alla mia bocca una serratura.

Meglio per me, sfinita nella mutezza,

Finire  nella terra come un ruscello,

Piuttosto che, andando avanti a spintoni,

Io debba dire: ciò che scrissi non è bello.

Meglio sparire, semplicemente – morire,

Dentro dai versi essere messa in croce.

Solo per ardere davanti alla Tua effige,

Per ascoltare soltanto la Tua voce!

Perché l’orecchio senta solo i Tuoi passi,

La Tua luce io veda anche da lontano…

L’eternità in me, Ti prego, custodisci,

In fondo sono solo un essere umano.

Nell’ora in cui la vanità il cuore inonda,

Esigendo di servirla e ad essa sottostare,

Angelo del Buon Tacere, chiudimi la bocca.

Davanti al Verbo non lasciarmi peccare.

*  *  *

Nella metro il solito viavai della giornata

Attenua il dolore dell’addio per sempre.

Io per abitudine abbasso gli occhi

Scendendo adagio fino alla fermata –

Sempre più giù, come a toccare il fondo

Con un sorriso di muto stordimento…

Candelabri e viaggiatori sui gradini

Scorrono in alto, verso il bel mondo.

Presentendo il tratto estremo,

La realtà del fatale distacco,

Io tra la folla tendo le mani

E so che si estinguerà in un baleno

L’unica parola. E allora resteranno:

«… Beh, stammi… scrivi… Certamente…»

Rotolano le rotaie nell’infinito,

E per sempre i treni se ne vanno.

*  *  *

Stancamente il tramonto

Le pareti avvelena,

E in barca lungo il Krjukov

Scivola la mia pena.

Attraverso la diafana levità del campanile,

Attraverso i ponti dove l’ombra si stende,

Attraverso il buio dei sogni

E trecento anni di dolore cocente.

Lungo le facciate ferite dal tempo

E i luoghi deserti,

Attraverso il riflesso oscillante del recinto

E il tremolio dei rametti.

Tra i gridi silenziosi dei portoni

E di qualcuno la paura,

Attraverso l’afa di luglio e l’avaro autunno

Che agli occhi di altri si raffigura.

Attraverso il ricordo di abitazioni spartite,

Lungo la sponda

Di acque non più del Krjukov

L’amore scivola come un’onda.

*  *  *

                                                Ti amo, o Vita…

                                                  K. Vanshenkin

Se fossi nata, diciamo, nella distinta Germania,

Dove tutto è preciso – le mucche, le case, l’acetosa,

Amerei la birra, farei scorta di denaro e di scienza,

Rispetterei le leggi e non credo che scriverei qualcosa.

Se fossi nata nella vezzosa e femminile Francia,

Dove primeggia l’amore, il vino e ogni profumeria,

Flirtando con grazia, resterei sempre frivola e giovanile,

Amoreggerei, senza scrivere una sola poesia.

Se fossi nata nell’aurea, melodiosa Italia,

Dove il cielo ride e il sole brucia i peccati,

Là dove maturano i limoni, cresce l’uva e altro ancora,

Canterei come un uccello, ma i versi non avrei creati.

Ma io vivo in Russia, il dono di Dio con la frittata non mischio,

Per non gelare di notte, brucio la legna che resta,

E amo, senza motivo, questa amara, crudele,

Scomoda vita. E la poesia nasce nella mia testa.

Ricordi, salivamo sul treno…

                                                        A L. Strel’čuk

Ricordi, salivamo sul treno

(Dio sa quanti anni addietro),

Sul freddo treno, spezzando i fiammiferi,

Fumavano, malgrado il divieto.

E poi camminavamo, le mani nelle tasche,

Sulla strada vuota, dalla stazione deserta.

Ricami di zampette d’uccelli e di gatti

Come lividi sulla neve. E con una certa

Apprensione sellavamo i cavalli

E tacendo lasciavamo il cortile, mentre

I marmocchi della stalla ci gridavano

Dietro qualcosa allegramente.

Mi sembra che in quel tempo ero

Innamorata cotta. Di chi non vale

Ora sapere. La staffa gelata bruciava

La gamba attraverso lo stivale…

Non volendo, la memoria  strani squarci

Coglieva: il freddo, una galoppata –

Fotogrammi di un film in bianco e nero:

Arbusti, una neve orrenda e sconfinata.

All’orizzonte – una catena di fiammelle,

E la prima stella di turno già presente.

L’inutile, desiderata sospensione

Di tutte le condanne. Corrono verso niente

In quei campi i cavalli ancora oggi –

Non sono stanchi, né li puoi frenare.

E il vento geme e li spinge avanti,

E lui stesso dietro saluta senza sperare.

*  *  *

Angeli di Pietroburgo… Ne restano così pochi,

Con dolore stringono le croci le rattrappite mani.

Gli angeli di Pietroburgo guardano splendenti e stanchi

Le isole, le case e i ponti che scorrono lontani.

Angeli di Pietroburgo… Ogni anno per loro è più arduo

Custodire le amate vie dalla nebbia oscurate.

Il vento è sempre più pungente, freddo e rude,

E le angeliche spalle sono sempre più chinate.

Solo di notte, con la città che nel sonno ascolta chi muore

E le sale del palazzo attendono l’imperatore,

Gli angeli di Pietroburgo dal cielo scendono in terra

E, piegate le ali, percorrono i cortili tra le dimore.

*  *  *

Non affliggerti, anima mia. Tra i celebrati campi russi,

Le paludi di Chukhon, lo squallore della città condannata,

Non temere nulla. Non dispiacerti della tua orfanezza,

Di niente. Non aspettarti pietà, né ricompensa meritata.

Nessuno è tenuto ad amarci. Nessuno con noi

In questo freddo mondo ha un conto aperto.

Non affliggerti, anima. Non deviare dal tuo cammino,

Turbando con un fuoco agitato il gelido deserto.

Riscaldando con te stessa lo spazio, malgrado tutto,

Preferendo alle leggi ciò che è libero e sconfinato,

Librandoti sullo specchio dell’ultimo fiume,

Bruciando d’amore in un volo cieco ed elevato.

(C) by Paolo Statuti

Henryka Wanda Lazowertowna

7 Mar

Henryka Wanda Łazowertówna

   Nacque a Varsavia il 19 giugno 1909. All’Università della stessa città studiò filologia polacca e romanza. Dopo la laurea ottenne una borsa di studio del Ministero delle Confessioni Religiose e dell’Istruzione, grazie alla quale perfezionò la sua istruzione presso la facoltà di filologia francese all’Università “Stendhal” di Grenoble. Fu forse il suo unico viaggio all’estero, un periodo importante per lei, ricco di esperienze e ricordi indimenticabili. Tornata a Varsavia, cominciò a collaborare con le riviste letterarie La strada e Il raccolto.

     Nel 1930 uscì la sua prima raccolta di poesie La stanza chiusa, seguita nel 1934 dalla seconda e ultima raccolta I nomi del mondo. Nel 1938 pubblicò il racconto I nemici, in cui affrontava il tema dell’antisemitismo nella società polacca.

     Malgrado gli scarsi mezzi disponibili, la sua passione era collezionare i libri. Non voleva servirsi delle biblioteche, perché per le novità i tempi di attesa erano piuttosto lunghi, e soprattutto perché preferiva leggere un libro non letto ancora da nessuno, tagliare le pagine, gustare il particolare odore del libro fresco di stampa. Non vi viene in mente una bambina semplice e sensibile che riceve in dono una bambola?

     I conoscenti e gli amici la descrivevano come la personificazione della femminilità: graziosa e amabile, spontanea e gentile. Recandosi a un ricevimento si faceva prestare i gioielli dalla madre, perché diceva: “Non posso mica andare nuda!”

     Fino allo scoppio della guerra abitava con la madre in via Sienna a Varsavia, e quando fu creato il ghetto, la sua casa venne a trovarsi nel piccolo ghetto, dove era concentrata l’intellighenzia e dove le condizioni erano migliori, rispetto al grande ghetto. Nel quartiere chiuso collaborava attivamente con l’organizzazione CENTOS, che si prendeva cura dei bambini ebrei orfani, e con l’Archivio del ghetto, descrivendo i destini della popolazione ebraica destinata allo sterminio. Qui scrisse la sua poesia più famosa – Il piccolo contrabbandiere, tradotta in molte lingue: una struggente testimonianza della vita dei bambini nel ghetto, un documento di grande valore storico. Tre strofe di questa poesia sono incise su tre lapidi affiancate, in polacco, inglese ed ebraico nel cimitero dell’Olocausto a Varsavia.

     Gli amici le proposero di nasconderla nella “parte ariana”, ma rifiutò, spiegando di essere necessaria ai bambini. Nell’estate del 1942 si trovò inclusa nella grande deportazione. Il Mutuo Soccorso Ebraico cercò di escluderla dal trasporto, ma poiché ciò significava separarla dalla madre, rifiutò nuovamente l’aiuto. Si ritiene che siano morte insieme quello stesso anno a Treblinka.

     Henryka Łazowertówna era legata al gruppo di Skamander, il movimento poetico che mi è più caro nella letteratura polacca del XX secolo. Le sue liriche, oltre a rispecchiare il suo mondo interiore, toccano anche la tematica socio-patriottica. È una poesia spontanea, chiara, sincera e musicale che va dritta al cuore dei lettori. In questa sua strofa è racchiuso il suo triste e tragico destino, anche quello di non essere ricordata come merita:

Sono una stanza chiusa

Sono una mosca nell’ambra irrigidita

Tutto ciò che nei miei versi sono io

Svanirà quando cesserà la mia vita.

     La scrittrice Anna Majchrowska, in un articolo dedicato a questa poetessa ha affermato che le sue poesie erano “particolarmente commoventi”. A tale proposito ricordo le parole del grande poeta polacco Władysław Broniewski: “Non so cos’è la poesia, non so perché c’è e a che serve… So che a volte chi legge dei versi piange…”

     Per quanto mi riguarda, devo dire sinceramente che, leggendola e traducendola ho avuto l’impressione di sentirla vicino e di vederla sorridere, come mi sorrideva mia madre, nata nello stesso 1909. L’ho scoperta per caso e devo dire: un caso davvero fortunato!

                                                                                               Paolo Statuti

Poesie di Henryka Łazowertówna tradotte da Paolo Statuti

Ventiquattresima primavera

Torre di Babele di primavera! Garbuglio di lingue di maggio!

Non posso capirti quest’anno!

– Stordita dagli usignoli col loro chiasso

corro col vento sui dorsali dei prati arruffati

e gli sto dietro con affanno…

O acqua accarezzata dal sole – in che lingua sussurri?

Qual è il profumo dei narcisi e delle viole – sempre differente?…

Significa che qualcosa – che tutto – o significa soltanto: è maggio…

O forse non significa niente?!

Primavera, verde primavera, verità impenetrabili,

Chi mi spiegherà il tuo incanto?

Assorta in parole inesplicabili

vado, corro – storpia, muta –

e quando capirò – mi fermerò in pianto…

O parola che non ripeterò, che non sarà ricordata!…

O testa, come ramo secco piegata…

Andrò via – albero che poco verde dava,

voce che nel tuo coro non cantava…

Il piccolo contrabbandiere

Oltre i muri, i fori, tra le guardie,

Oltre i fili, il recinto, di soppiatto,

Affamato, spavaldo, testardo,

Ogni giorno corro come un gatto.

Non importa che tempo faccia,

Con l’afa, la pioggia, la tempesta,

Cento volte io metto a rischio

Questa mia giovane testa.

Sotto il braccio un rozzo sacco,

Sulle spalle l’abito strappato,

Le mie giovani agili gambe

E il cuore sempre spaventato.

Ma tutto bisogna patire,

Tutto bisogna sopportare,

Perché voi abbiate domani

Quanto pane vorrete mangiare.

Oltre i muri, i fori, i mattoni,

Di notte, all’alba, di nuovo

Spavaldo, affamato, scaltro,

Come un’ombra mi muovo.

Se il destino a un tratto

Mi fermerà in questo dramma,

E’ il solito agguato della vita,

Non aspettarmi più, o mamma.

Io non tornerò più da te,

La mia voce non sentirai vicino,

La polvere della strada seppellirà

La sorte spezzata di un bambino.

E soltanto una preghiera,

Una smorfia sul viso rimane:

Chi mamma mia, domani,

Ti porterà un po’ di pane?

Parlare con l’albero

Di gioventù. Di foglie. Che passa. Che appassiscono.

Di pioggia. Di uccelli che partono. Di pianto umano.

Colloqui sinceri, forse anche questo è amicizia –

Ma noi che ne ricaveremo, mio povero ontano?

La veglia

Le dieci. – Nella scatola di cartone della casa mi chiudo

per costruire una difficile notte, che separerà dal giorno finito.

In casa la povertà fruscia con le carte di chi pignora,

La malattia soffoca con l’odore dei farmaci e del letto sgualcito.

Di mattoncini delle ore la notte diventa fragile e diffidente,

per spargersi a un tratto in un viavai di passi alterno –

Intanto – silenzio. Di respiri si gonfia, s’ingrossa la stanza.

L’orologio batte. E stride il pennino sul quaderno.

Vegliamo insieme: l’orologio, io – e tu, che nominare non oso.

L’orologio conta le ore: le undici – le dodici – l’una…E tu emergi

dall’oscurità come i fiori di ciliegio

e col fruscio del vento sottovoce mi detti i versi.

Al tavolo macchiato, al viscido silenzio, al buio ostile

mi togli sulle tue mani di nebbia e di luce lunare…

La città dorme. – L’ombra di un lampione si è rotta in un angolo.

Anche la casa dorme. – E nessuno il nostro arcano può svelare.

A che mi servono il giorno e la notte, se si può in segreto partire

e lasciarti dietro il tuo mondo – la stanza buia e opprimente…

Oppure tornare – e scesa nella profondità più fonda

trovarti di nuovo, come perla in una conchiglia iridescente.

Un quadro nella finestra

Sugli occhi sporge bassa la fronte. Le mani

strettamente intrecciate sulla testa.

Un fiore secco in un vaso. – Ecco

il quadro messo nella finestra.

Si può chiamare: Solitudine,

o più brevemente: Uomo.

La casa

La casa… Sì, e allora? – la casa?… Era sempre così:

inerzia, angustia, semioscurità…

E il mondo era lì – (“mondo” – significava ampiezza e luce).

– C’era il portone e il mondo cominciava al di là.

Era intricato e grande – arduo fotomontaggio di gente, di fatti.

(Ogni passo portava nell’Ignoto – di ritrovare la strada non m’importava…)

E in casa… così come in casa: facce scolorite, vecchie foto,

La tristezza negli angoli come grigia ragnatela si posava.

Qui la vita come umidità trasudava sulla tappezzeria sbiadita,

e là – il mondo era enorme, era una casa piena di colore!

Aveva mille forme e cento nomi sconosciuti –

e il centunesimo – conosciuto – amore.

Amore: melodia, tinta, movimento – volo nella luce e nello spazio!

E poi – un palloncino bucato inerte a terra si poggia…

E poi – girovaghi solitari per le strade, per le piazze vuote,

sciocche lacrime miste a pioggia…

Torno stanca dal primo viaggio infantile

e a parte la tristezza per me – a nessuno porto qualcosa…

Il mondo si è ristretto… (Ma forse sembrava solo grande?)

E si vede soltanto la strada che conduce a casa.

Lo so – lo so: la siepe, al secondo piano una testa grigia sul balcone,

occhi stanchi sul giornale, una mano fa il solitario sulla tovaglia macchiata…

– Questa è la casa che adesso protegge dal mondo,

la casa, da cui sarei anche scappata…

Lo so: qui devo restare, dove ogni giorno piove la quotidianità,

qui devo tacere, qui la pesante fronte tra le mani poserò…

Qui devo aspettare che il mondo mi chiami con un’altra voce,

finché nuovamente – per uno nuovo –  io partirò.

Il sogno

Questo è il sogno: parto sola per un paese straniero –

per una terra ignota da nessuna mappa segnalata.

Sulla stazione il cielo pende come un grande coperchio nero,

la locomotiva urla con la voce di un uomo bastonato,

i ferrovieri hanno facce di carta logorata…

Ho solo una valigia e un rimpianto, che nessuno ha approfondito…

Sono molto calma, e anche molto triste – ciò che non si avverte.

La città nei raggi dietro di me è in frantumi, su di me gira il vapore –

guardo dal finestrino del vagone, come un fantoccio inerte.

Anche tu sei qui (- esclamazione dal rettangolo della banchina -)

coi fiori, i boeri, con gli occhi senza sogno, le mani senza carezza…

Il romantico paltò della solitudine gettato sulle magre spalle,

negli occhi hai una calma dura, sulle labbra una trionfale saggezza.

Non voglio la tua fredda saggezza, benché tu me ne possa dare tanta…

Non la prenderò con me nello scuro spazio dai binari tagliato.

So anche così: niente davanti a noi, tutto alle nostre spalle.

So anche così… Ma taccio, amico rifiutato.

E tu ritorni di notte (- punto impigliato nella geometria delle strade -),

in un uomo nero e argenteo diviso dalle ombre delle case,

torni nel vuoto della stanza come per stringerti all’amante,

per infilare lievi cerchietti di fumo nelle insonni occhiate.

I marciapiedi – coi passi, coi ricordi dell’estate misuri,

o accanito solitario, chiuso in una sfera di vetro e di ghiaccio!

Il mondo respingi da te con il bavero sulle orecchie alzato,

sotto i piedi l’ombra ostinata della giovinezza depressa schiacci.

Finché in una strada un’ombra si ergerà con un lieve sospiro

e lentamente la strada ti sbarrerà:

con un ricordo, con un nome, come una pietra

qualcosa ti colpirà nel petto… E male ti farà.

E tornerai sui tuoi passi solitari

e l’ombra ti condurrà alla tua dimora:

là inciamperai in una sola parola,

– quella che non mi ha detto ancora…

Ti vedo: corri alla stazione pallido e sconvolto,

(nelle strade assopite l’eco schernisce la tua impazienza -)

ma la stazione è chiusa per sempre

e non ci sono più treni in partenza.

Nella piazza vuota, al vento stai come un secco stelo.

Nessuno è con te e nessuno ti sta aiutando –

Ti vedo: sei molto pallido…

Vedo… E mi sveglio gridando,

Ho vagheggiato…

Ho vagheggiato una separazione,

una qualche partenza amara.

Di notte luoghi lontani

sottovoce mi lusingano ignara…

Ho vagheggiato diversità e frescura,

apatia e sonnolenza consolidate –

un qualche giardino deserto,

persiane che tacciono sbarrate…

Viottoli sperduti e intricati,

di steli ingialliti il sussurro,

una pozzanghera semiasciutta

che si sforza di riflettere l’azzurro –

un qualche albero solitario,

che si piega e cigola al vento.

Ho vagheggiato la prima neve

che cade, l’erba e i pensieri coprendo…

Sentieri familiari

E quando entrerò nella benevola oscurità

lungo i diritti e familiari sentieri,

la luna uscirà per salutarmi,

come con noi faceva sempre – anche ieri…

Di sicuro sarà molto sorpresa,

la mia solitudine vedendo,

e perché adesso sono sola,

mi chiederà turbata e con sgomento.

Rotolando sempre più in basso,

chinerà su di me la testa lucente

e io la guarderò negli occhi,

come amica e fedele confidente.

Ah, capirà cosa c’è stato tra noi,

(senza neanche una mia parola)

e verserà lacrime d’argento,

poi triste se ne andrà, anche lei sola…

Il nostro viaggio

Partiamo per un viaggio,

partiamo insieme – stanchi

dei nostri giorni prodighi di ansia,

dei sogni grevi come sacchi di sassi.

Con quattro occhi fissi nel buio,

testa a testa stiamo alla finestra;

il treno ci batte la notte insonne,

una notte e una solitudine doppia.

Arriviamo a una stessa casa:

(l’uno verso l’altro ci spingono i muri…)

Usciamo – due anime afflitte –

e vaghiamo in sentieri familiari.

Sotto la soffice lana rappresa,

sotto la stessa muta neve

cerchiamo – separatamente –

le tracce cancellate di ieri.

Racchiusi in una cerchia di monti,

coperti da un solo cielo come tetto,

non sappiamo chiamare noi stessi,

non sappiamo piangere insieme…

La sera i passi sulla neve ci confonde,

il freddo le dita gelide ci intreccia… –

Sempre insieme e sempre separati

partiamo e torniamo al mondo.

…Ai sogni grevi come sacchi di sassi,

alla nostalgia che non guarirà mai,

torniamo insieme – stanchi,

torniamo insieme – distanti.

Tu sei…

Sei dritto e fiero come canna sui bassi giunchi…

Sei aspro profumo di timo sparso nel prato…

Il tuo nome nei denti scroscia di gioventù e salute…

Sei un ragazzo da Jack London raccontato.

Dell’aria, dell’acqua e del sole sei il più caro alleato,

col tuo corpo bello e forte cielo e terra unisci come ponte…

Ti guardo e tremo: – Forse nella felicità dovrei credere?…

Forse la vita è davvero, come te, semplice, esuberante?…

Non conosci la magia delle parole contorte in trecce di versi…

Non conosci il sapore dei pensieri che mi rubano il sonno…

Il tuo mondo è più largo del mio di un sorriso,

ma più profondo di una lacrima quello di cui io tocco il fondo.

Sei la riva verde dove approdo nelle notti

e che di giorno lascio come scura e rapida onda.

– Non credere alle parvenze! – Non la stessa stella brilla per noi,

Non la stessa sera come argento cala e ci circonda…

Non sarò tra le tue braccia, come tra i rami di un albero fedele –

come selvaggio uccello migratore ti sorvolerò, scorrerò…

Non guardare… la lontananza come sabbia gli occhi mi offusca.

– Sei colui che mi manca – sei colui che io sfuggirò.

(C) by Paolo Statuti

Sylvia Plath (1932-1963) e Waclaw Iwaniuk (1912-2001)

26 Feb

Sylvia Plath (1932-1963) e Wacław Iwaniuk (1912-2001)

     60 anni fa, l’11 febbraio 1963, un altro bellissimo fiore lasciava per sempre il Giardino della Poesia, unendosi alla folta schiera di poeti uccisi dal proprio genio, o dalla crudeltà del mondo o dal Fato. Il fiore di turno è Sylvia Plath, uccisasi col gas a soli 30 anni.

     Spulciando l’antologia poetica polacca in due volumi Da Staff a Wojaczek (1939-1988) ho trovato per caso la poesia intitolata Sylvia Plath di Wacław Iwaniuk. Ho voluto tradurla e pubblicarla nel mio blog insieme con la mia traduzione di Ariel – una delle ultime e più note liriche dell’infelice poetessa americana. Ariel è il nome del cavallo di Sylvia. È una poesia profondamente metaforica, scritta per il suo trentesimo compleanno, pochi mesi prima della morte. Si può intendere come l’ultima precipitosa delirante cavalcata verso il suicidio.

Sylvia Plath

Ariel

Ristagno nel buio.

Poi un blu privo di sostanza

Fusione di colline e distanze.

Lionessa di Dio,

Come unità cresciamo,

Perno di talloni e ginocchi! – Il solco

Divide e passa, fratello

Del bruno collo

Arcuato che stringere non posso,

Bacche – occhi di un Nero

Lanciano scuri

Uncini –

Dolci bocconi di sangue nero,

Ombre.

Qualcos’altro

Mi trascina in aria –

Cosce, capelli;

Scaglie dai miei talloni.

Bianca

Godiva, io mi sbuccio –

Morte mani, morti rigori.

Ed ora sono

Spuma al grano, bagliore di mari.

Il pianto del bambino

Si scioglie nel muro

Ed io

Sono la freccia,

La rugiada che vola

Suicida, con unico impeto

Nel rosso

Occhio , la caldaia del mattino.

27 ottobre 1962

Wacław Iwaniuk

Sylvia Plath

La conoscevo – piccola come diamante –

la luce a corona delle sue parole.

Se la paragono a un bambino,

era ancora più piccola e più pura –

se a un angelo,

vedeva tutto in modo nitido.

Nella sua fantasia il mondo si contraeva,

s’illuminava. I suoi occhi chiari

si mutavano in due candele accese

e spente al tempo stesso –

due ditali di cenere.

È entrata nella gola della terra

come rosa infiammata.

Era la voce che annuncia una battaglia.

Col bocchino di corno dorato alle labbra,

recitava la Madonna nell’omicidio universale –

volando in cielo.

La vedevo a Chicago,

come si guarda a un mattino di giugno.

Un convento della città

insinuava sulla sua fronte giovani catene di timori.

Già allora aveva una saggia avarizia di parole –

la loro dolorosa bellezza,

ossuti marciapiedi,

case sudate nelle strade

e l’onda whitmaniana di una frase ardente.

La conoscevo –

Leggevo di lei.

È morta all’improvvviso –

Il tempo si è accasciato.

E soltanto la Poesia

con un dito sulle labbra

dice sottovoce – si è addormentata.

(C) by Paolo Statuti

Andrej Usachòv: La lumaca

26 Feb

    Care Amiche e Amici di FB, oggi ho trovato per caso una poesia del russo Andrej Usachóv, scrittore per l’infanzia, poeta e drammaturgo. I suoi libri sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, olandese, cinese, coreano, ebraico, vietnamita, tailandese, moldavo, polacco, serbo-croato e ucraino. Ho riletto tutte queste lingue, temendo che mi fosse sfuggito l’italiano. Purtroppo no, l’italiano ancora non c’è. Aspetto fiducioso che un degno traduttore letterario dal russo suggerisca con successo questo autore agli editori nostrani. Io da parte mia ho rinunciato da un pezzo a rovinarmi il fegato con loro. La poesia è intitolata “La lumaca” e mi sembra particolarmente adatta per riflettere sulle attuali vicissitudini e prendere esempio dalla simpatica e saggia lumaca.

Andrej Usachòv: La lumaca

pioveva a catinelle.

in una pozza adagiata

ho visto sorridente

una stupida Lumaca.

– sei tutta infracidita!

ho esclamato con scherno…

e lei a me da dentro:

– sì, questo è all’esterno!

ma dentro è primavera,

il giorno è una meraviglia, –

ha soggiunto ancora

dall’angusta conchiglia.

le dico: – intorno è tutto buio,

prenderai tre raffreddori…

e mi ha risposto: – sciocchezze,

è soltanto di fuori!

dentro è così accogliente:

fioriscono le rose,

le libellule brillano,

trillano gole graziose.

– allora resta pure lì,

se vuoi essere malata! –

e sorridendo ho lasciato

la stupida Lumaca…

da un pezzo non pioveva più,

di nuovo il sole splendeva…

ma dentro di me era scuro,

umido e il freddo pungeva.

(Trad. Paolo Statuti)

poesie polacche per bambini

26 Feb

UN’ANIMA E TRE ALI – IL BLOG DI PAOLO STATUTI

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Tag Archives: La locomotiva tradotta da Paolo Statuti

Poesie polacche per bambini

29FEB

Julian Tuwim (1894-1953)

LA LOCOMOTIVA

(Ho tradotto questo capolavoro della poesia polacca per bambini abbastanza liberamente e piuttosto come una “variazione sul tema” o, se preferite, come “trascrizione”. Come ogni traduzione poetica, essa è frutto di un compromesso tra la fedeltà e la libertà del traduttore, inevitabile specie quando si devono rispettare ritmo e rime del testo originale).

Nella stazione la locomotiva –

Enorme, pesante,

Di olio grondante.

Soffia, ansima e dalla pancia

Il fuoco avvampa:

Bum – che caldo!

Uh – che caldo!

Puff – che caldo!

Uff – che caldo!

Ansima e sbuffa, sbuffa a malapena,

E di carbone la pancia è strapiena.

I vagoni sono già agganciati,

Grandi, pesanti come carri armati

E ognuno è pieno di adulti e bambini,

In uno cavalli, in un altro bovini,

In un terzo siedono solo grassoni,

Siedono e mangiano grassi capponi.

Nel quarto dodici casseforti,

E nel quinto sette pianoforti,

Nel sesto una bombarda blindata!

Sotto ogni ruota una zeppa ferrata!

Nel settimo tavoli tondi e caraffe,

Nel seguente un orso e due giraffe,

Nel nono tanti maiali ingrassati,

Nel decimo casse e bauli borchiati,

I vagoni sono circa quaranta,

Anzi no, forse anche cinquanta.

E se venissero sia pur mille atleti

E mangiasse ognuno sei pasti completi,

E tutti avessero ogni muscolo teso,

Non reggerebbero tutto quel peso!

A un tratto – un fischio!

A un tratto – fiffiì!

Il vapore – bum!

Le ruote – tutum!

Dapprima

lentamente

come una tartaruga

pesantemente

Si è scossa

si è mossa

sulle rotaie

pigramente.

Uno strappo ai vagoni e tira,

E ruota dietro ruota gira,

Accelera e corre, corre più sicura,

Martella, batte ribatte e tambura.

Dove va? Dove va? Sempre diritto!

Sempre sui binari, a capofitto,

Per monti, per campi vola come un dardo,

Per evitare di giungere in ritardo,

A tempo rimbomba e batte to–to-to:

Tac to-to, tac to-to, tac to-to, tac to-to,

Fluida e lieve  vola lontano,

Come se fosse un aeroplano,

Non una macchina così trafelata,

Ma un’inezia, una baggianata.

E dove, e come, perché così incalza?

Perché to-to, to-to in avanti balza?

Corre, martella, avvampa, bum-bum?

Il vapore l’ha mossa con forza puff-puff,

Puff – il vapore dalla caldaia ai pistoni,

E i pistoni come duecento polmoni

Pompano, pompano e il treno avanza,

Tac to-to tac to-to con forza e baldanza,

E le ruote rombano e batton to-to-to:

Tac to-to, tac to-to, tac to-to, tac to-to!…

 (Versione di Paolo Statuti)

RADIO UCCELLI

Pronto, pronto! Qui radio uccelli dal querceto,

Trasmettiamo il programma consueto.

Prego ognuno di sintonizzarsi,

Discuteremo sul da farsi,

Chiariremo questioni nebulose:

Anzitutto – come stanno le cose?

Inoltre – dov’è nascosto

L’eco nel bosco?

Chi può lavarsi per primo

Nella rugiada al mattino?

Come capire all’istante

Chi è un uccello e chi un intrigante?

Nei loro interventi

Pigoleranno, cinguetteranno,

Fischieranno, strideranno

Gli uccelli seguenti:

Usignoli, passeri, cardellini,

Galli, picchi, cuculi, beccaccini,

Civette, corvi, cince, cappellacce,

Papere, upupe, storni, beccacce,

Gufi, tordi, picchi, beccofrusoni,

Capinere, cicogne, mestoloni,

Rigogoli, marzaiole, fringuelli

E tanti tanti altri uccelli.

Per primo l’usignolo

Così cominciò:

“Pronto, o, to to to to!

Tu tu tu tu tu tu tu

Radio, radijo, dijo, ijo, ijo,

Tijo, trijo, tru lu lu lu lu

Pio pio pijo lo lo lo lo lo

Plo plo plo plo pron-to!”

Al che il passero trillò:

“Ma che musica è mai questa?

Ah! Mi viene il mal di testa

Per capirla, oibò oibò!

Cip cip ciiip!

Cip cip ciiip!

Usignolo guastafeste,

Non siam mica al circo equestre!

Guardate! Ha rizzato le piume!

“Basta! – grida a tutto volume!

Cip cip ciiip,

Cip cip ciiip!”

E trilla, soffia, strilla,

Cippia, scrippia, zirla,

E alla fine infuriata

Risonò una chicchiriata:

“Cucurìcu! Cucurìcu!”

Urla il cuculo: “Che sento!

Un momento! Un momento!

Cucu-rìcu? Cucu-rìcu?

Malandrino! Non consento!

Prendi ricu e vola via,

Ma il cucu è cosa mia!”

Cucu! Cucu! – ripeteva,

Al che il picchio: toc toc toc!

Ed il gufo ora a gridare:

Ma chi sei? Hai bevuto? Puoi andare!

E la quaglia: vieni qui! vieni qui!

Hai qualcosa? butta qui! butta qui!

Ad un tratto, ma che strano!

Trilli, strilli – che baccano:

“Dallo a me! Butta qua! Un rametto?

Una piuma? Uno spago? Un insetto?

Vieni qui, dammi la metà!

Faccio il nido, mi servirà!

Ma guarda che tipo! Non te lo do!

Non me lo dai? Vergogna, oibò!

Ma che roba! Dovresti arrossire!”

E tutti gli uccelli ad inveire.

La polizia dei pennuti fece irruzione

E così finì la trasmissione.

(Versione di Paolo Statuti)

 Jan Brzechwa  (1900-1966)

Nelle isole Bermude…

Nelle isole Bermude

Non ci sono tartarughe,

Ma c’è un piccolo pulcino

Che trasporta un vitellino.

Ci son oche stravaganti

Che fan uova di diamanti.

Sulle querce e sugli ontani

Crescon mele e aranci strani.

E c’è anche una balena

Che somiglia a una murena.

E salmoni tanto buoni

Nel sughetto di lamponi.

Ed i topi vanno a scuola

Di chitarra e di mandola.

Le formiche hanno il chimono,

Ma quest’isole ci sono?

Non ci sono!

Non ci sono!

(Traduzione di Paolo Statuti)

Bugiardella

Un momento, un momento,

E’ avvenuto un cambiamento:

Mia cugina Serenella

S’è mutata in pavoncella

E ripete tutto il dì:

“Cipi, cipi, cipicì!”

–  Ma che dici, ma va’ via!

Questa è solo una bugia.

Un momento, un momento,

E’ successo un gran portento:

Da un enorme nuvolone

E’ caduto un acquazzone,

Ma di vino, oh oh oh,

E sapeva di bordeaux.

– Ma che dici, ma va’ via!

Questa è solo una bugia.

Non è tutto , un momento!

E’ successo un grande evento:

Dalla zia ieri mattina

Una stupida gallina

E’ saltata, ah ah ah,

Nella pentola sul gas.

– Ma che dici, ma va’ via!

Questa è pura fantasia.

Un momento, aspettate,

Una papera, pensate!

Che voleva fare il bagno

E’ affogata nello stagno,

Ed i pesci dal dolore

Hanno pianto per tre ore.

– Ma che dici, che bugia!

Questa è pura fantasia.

Lo diremo al tuo papà,

Alla mamma e ben ti sta!

(Traduzione di Paolo Statuti)

La tinca, la rana e il granchio

La tinca, la rana e il granchio rosa

Tanto per fare qualcosa,

Decisero di lasciare lo stagno,

Per cantare sotto il castagno.

Eh, sì, ma come?

La tinca

Cantava per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

La carpa gonfiò allora le branchie:

“Amici ho un’idea brillante,

Tutti insieme, di botto,

Costruiamo un viadotto!”

Eh, sì, ma come?

La tinca

Costruiva per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

Il granchio disse allora:

“Non mangia chi non lavora,

Ho un’idea proprio geniale –

Mettiamoci tutti a fare le scale!”

Eh, sì, ma come?

La tinca

Faceva finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

Ed ecco il rospo gridò da un fosso:

“La carestia ci è addosso,

Coraggio, amici cari,

Compriamo alimentari!

E per fare quattrini,

Produciamo calzini!”

Eh, sì, ma come?

La tinca

Produceva per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

La tinca alla fine sentenzia:

“C’è di mezzo la nostra esistenza,

Lasciammo lo stagno scioccamente,

Torniamo allo stagno immantinente.”

E andaron, ma – che peccato! –

Lo stagno era stato svuotato!

Allora tutti piansero tanto.

Ma bastava quel pianto

A empirlo tutto quanto?

Tanto più che

La tinca

Piangeva per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

L’anatra strampalata

Sul ruscello presso la fermata

Viveva un’anatra strampalata,

Che non nuotava con le compagne

Ma andava a piedi per le campagne.

Una volta andò dal barbiere:

“Per favore, un chilo di pere!”

Lì vicino c’era la farmacia:

“Un litro di latte per mia zia”.

Da lì poi andò dallo speziale

Per spedire un vaglia postale.

Le anatre dicevan disperate:

“Ma che roba, guardate, guardate!”

Faceva le uova sopra il tetto

E sul ciuffo aveva un fiocchetto,

E per indispettire i presenti,

Si pettinava con lo stuzzicadenti.

Sia che il tempo fosse brutto o bello,

Lei si portava sempre l’ombrello.

Mangiando una fettuccia lunga e fina,

Diceva: “che buona fettuccina!”

E quando inghiottì due monete,

Diceva: “ve le ridò, non temete!”

Le anatre si chiedevano in tante:

“Che ne sarà di questa stravagante?”

Ma alla fine arrivò un acquirente,

Che un bell’arrosto già aveva in mente.

E così fece con grande bravura,

In una teglia speciale, con cura,

Ma servendo il pranzo il cuoco esclamò:

“Ma questa è una lepre oibò oibò!”

E con un contorno d’insalata.

Eh sì era proprio strampalata!

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

Afanasij Fet

26 Feb

Afanasij Fet  (1820-1892)

Poesie tradotte da Paolo Statuti

* * *

Come moscerini all’alba,

Di suoni alati un turbinare;

Un dolce amabile sogno

Nel cuore vorrebbe restare.

Ma il fiore dell’ispirazione

È triste tra le spine abituali;

Aspirazioni passate e lontane

Sono come barlumi serali.

Ma il ricordo del passato,

Sgomento nel cuore ancora cova…

Oh, potessi con l’anima esprimermi

Senza dire una sola parola!

*  *  *

Un sussurro, un timido respiro,

I trilli dell’usignolo, l’argento

E il quieto ondeggiare

Di un ruscello sonnolento,

La luce notturna, le ombre notturne,

L’ombra incessante;

Una serie di magici mutamenti

Di un diletto sembiante.

Porpora di rosa in nuvole di fumo,

Barlume di ambra,

E baci, e lacrime

E l’alba, l’alba!..

*  *  *

Che frescura sotto il folto tiglio –

I raggi dell’afa qui non sono entrati,

E a migliaia pendono su di me

E oscillano ventagli profumati.

E là, lontano, brilla l’aria ardente,

Cullandosi, come se appisolata.

Stridente e secca, come narcotico

La voce dei grilli continua immutata.

Dietro i rami le volte azzurre del cielo,

Come leggermente di fumo velate,

E, come sogni della natura che riposa,

Le nubi passano e ripassano a ondate.

Impara da loro – dalla quercia, dalla betulla…

Impara da loro – dalla quercia, dalla betulla.

Inverno. Del maltempo c’è la feccia!

Il loro vano pianto s’è ghiacciato,

S’è incrinata e contratta la corteccia.

La bufera strappa le ultime foglie

E con rabbia infuria sempre più,

E il cuore è stretto dal freddo crudele;

Essi stanno lì in silenzio, taci anche tu!

Ma credi alla primavera. Il suo genio

Giungerà volando per dare vita e calore.

Per giorni di luce e nuove rivelazioni

L’anima dolente esaurirà il suo dolore.

Estate piovosa

Non una nuvoletta all’orizzonte,

Ma annuncia tempesta del gallo il canto,

E nel distante suono di campana

Sembra esserci del cielo il pianto.

Non ondeggiano le spighe nel campo,

Coperte di ammalata erba,

E la terra non crede al sole,

Di piogge ormai così ebbra.

Sotto il tetto umido e aperto

La vita tristemente sfaccendata.

D’una falce con frullana battuta,

In un angolo la lama s’è offuscata.

*  *  *

Di nuovo d’ingannevole fuoco

Trema l’autunnale Diana,

E si accordano gli uccelli

Per fuggire dove il caldo chiama.

E con dolce e severo dolore

Lieto il cuore si lagnerà un po’,

E nella notte s’arrossa la foglia d’acero,

Che amando la vita, vivere non può.  

Primavera nel cortile

Come il petto respira fresco e a dismisura –

Le parole non esprimeranno niente!

Come per burroni, a mezzogiorno,

Chiassoso nella schiuma si agita il torrente!

Nell’etere un canto vibra e si scioglie.

Nelle zolle la segala inverdisce –

E una dolce voce canticchierà:

«Ancora la primavera t’intenerisce!»

Pavel Vasil’ev (1910-1937)

26 Feb

Pavel Vasil’ev (1910-1937)*

L’austero Dante non disdegnava il sonetto…

L’austero Dante non disdegnava il sonetto,

E Petrarca il fuoco dell’amore metteva in esso…?

Anch’io coi sonetti nel mondo vago spesso,

E di notte ho un fortuito fienile come tetto.

Nel fienile c’è l’erbosa estate,

Il roseo ovale della luna mesta.

Le scarpe che ho calzato nel vagabondare

Fanno da cuscino sotto la mia testa.

Ti saluto, mio rifugio ospitale,

Dov’è delle mucche il quieto ruminare,

Dove sento del gallo l’inatteso canto…

Qui sono sistemato come un pascià!

Temo solo, quando l’alba spunterà,

Che il proprietario mi scaccerà imprecando.

1932

Una poesia di Michael Drayton tradotta da Paolo Statuti

26 Feb

Michael Drayton (1563-1631)

Since there’s no help, come let us kiss and part…

    Since there’s no help, come let us kiss and part. 

    Nay, I have done, you get no more of me; 

    And I am glad, yea glad with all my heart, 

    That thus so cleanly I myself can free. 

    Shake hands for ever, cancel all our vows, 

    And when we meet at any time again, 

    Be it not seen in either of our brows 

    That we one jot of former love retain. 

    Now at the last gasp of Love’s latest breath, 

    When, his pulse failing, Passion speechless lies; 

    When Faith is kneeling by his bed of death, 

    And Innocence is closing up his eyes— 

    Now, if thou wouldst, when all have given him over, 

    From death to life thou might’st him yet recover!

Se così dev’essere, baciamoci e lasciamoci…

Se così dev’essere, baciamoci e lasciamoci.

Di me che ti ho dato non avrai più niente;

E sono felice con tutto il mio cuore,

Perché torno libero onestamente.

Stringiamoci la mano, senza più voti,

E se ci incontreremo prima della tomba,

Dell’amore che un tempo tra noi c’è stato

Non rimanga più nulla, nemmeno l’ombra.

Ora che l’Amore esala l’ultimo fiato

E la Passione ormai giace tacendo,

Con la Fede inginocchiata al suo capezzale,

E l’Innocenza che gli occhi sta chiudendo –

Ora, se tu volessi, anche se è una storia finita,

Tu potresti farlo ritornare dalla morte alla vita!

(C) by Paolo Statuti

Nina Kossman

26 Feb

    

Ho incontrato Nina Kossman (in Russian Kosman) in Facebook, grazie a un “Mi piace” da lei messo a un mio testo. Incuriosito, ho voluto sapere chi fosse e ho scoperto un “mondo nuovo”, un talento multiforme con una straordinaria creatività. Scrive poesie romanzi, racconti, drammi, dipinge e scolpisce, traduce poesie russe in inglese. E’ nata a Mosca. Durante la guerra molti membri della famiglia del padre morirono nell’Olocausto a Riga (Lettonia), mentre molti famigliari della madre morirono nell’Olocausto in Ucraina, dove allora vivevano. Nel 1972 con la famiglia emigrò dall’Unione Sovietica. Dopo un anno trascorso tra Israele e Roma, si stabilì prima a Cleveland e poi a New York, dove tuttora vive.

     Ha pubblicato tre raccolte di poesie in russo e in inglese, due raccolte di racconti e un romanzo in inglese. I suoi quadri sono stati esposti in Canada e in America. La sua prima raccolta di poesie fu stampata dalla casa editrice “Belle Lettere” nel 1990. Racconti e poesie in inglese sono apparsi in riviste americane e canadesi. La sua prosa e i suoi versi sono stati tradotti dall’inglese in francese, spagnolo, giapponese, olandese, persiano, greco, ebraico, cinese, e adesso pubblicate per la prima volta le mie in italiano. Il suo romanzo di successo La regina degli ebrei (2019) è uscito prima in Inghilterra e successivamente anche in russo. Nel 1995 ha ricevuto il premio del Pen Club inglese e dell’Unesco per la prosa in inglese, e una donazione dalla National Endowment of Arts per la sua traduzione delle poesie di Marina Cvetaeva. Riguardo ad essa il noto poeta e scrittore V.S. Mervin (1927-2019) ha scritto: «Sono versioni chiare, forti, udibili, sento in esse la voce di Cvetaeva in misura maggiore e in un tono nuovo che svela nei suoi versi qualcosa che prima avevo appena intuito».

     Nina Kossman è dunque bilingue e a tale proposito dice: «L’ inglese è la lingua che dovevo usare nel mondo esterno – a scuola, in città, ecc., mentre la mia poesia scritta in russo è emersa dal mio mondo interiore, tutto mio».

     Il critico letterario Pjotr Tartakovskij (1926-2015) in un suo articolo sulla poesia di Nina Kossman scrive: «La parola di questa poetessa è duttile, pungente e soprattutto attuale ed eterna, non perché ambisca a una qualche immortalità, ma perché sceglie per la personificazione artistica non ciò che è temporaneo, ma ciò che è eterno, trasmessoci dalla Natura e dal Tempo».

     Il poeta, critico e giornalista Daniil Čkonja nella sua prefazione alle poesie di Nina Kossman, pubblicate nella più importante rivista di poesia russa La Lira dell’emigrazione afferma: «Le poesie di Nina Kossman abbinano i miti dell’antica Grecia alla sensualità contemporanea…Questa poetessa intreccia abilmente strati storico-culturali con gli avvenimenti del nostro tempo, creando un suo proprio quadro della vita nella sua continuità e unità».

     Ed ecco infine il commento del mio amico poeta e slavista Antonio Sagredo, al quale ho fatto leggere le poesie di Nina Kossman da me tradotte: « Ciò che più colpisce in questa poetessa è la forte personalità che possiede e che dimostra come ha ingerito al massimo grado la lezione e la vita della poetessa russa  Marina Cvetaeva, della quale è stata fine traduttrice di tanti suoi versi. Questa sua personalità mi richiama un’altra grandissima figura femminile: Anna Politkoskaja (uccisa sotto casa dagli uomini del Cremlino) che fu pure lei affascinata dalla Cvetaeva tanto da scriverne la sua tesi di laurea; questa grande giornalista soltanto lei poté affrontare con coraggio il potere, come ai suoi tempi spietati la poetessa.

   Donne dunque  di carattere inflessibile, e questi versi della Kossman – così attuali in questi nostri tempi odierni – ne testimoniano il piglio irremovibile di fronte ad eventi tragici che si ripetono crudelmente, tanto da marchiarli ancora di più:

Sono nata nel paese

Dei morti a milioni,

Nel silenzio soffocante

Di guardinghe passioni,

Dove il cielo di notte

Era detto assolato,

Coi teschi così a lungo

Sotto il suolo ghiacciato.

Non verranno sepolti,

I nomi scorderanno;

I nomi degli uccisi

La lapidi non sapranno,

Delle anime riconosciute

Per il sangue loro:

Io sono della stessa valle,

Ma non dello stesso coro.

     E’ certo che ci vuole grande talento a tradurre la Cvetaeva!, e la Kossman lo ha di certo perché le stato riconosciuto in primis dal celebre critico americano Harold Bloom e dal poeta W.S. Merwin, e da tanti altri notevoli critici e poeti di varia estrazione culturale.

   Dalla foto della Kossman noi miriamo il suo bel viso che tradisce un carattere determinato e pochissimo incline a giudizi lusinghieri e confortanti. Il suo verso è chiaro in forma e contenuto e di questo dobbiamo ringraziare la bravura del traduttore Paolo Statuti; questo verso non lascia al critico di dubitare affatto della sua missione, poiché è diretto e non ha tempo per fronzoli e ricami che possano rigenerare una speranza nuova e diversa:

Non più immune dagli eventi della sua anima,

egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.

   Nina Kossman ha scritto tanto e la sua bibliografia giustifica il suo impegno là dove la poesia, la sua anche, ha diritto di abbarbicarsi su qualsiasi cosa che richieda un supporto, un aiuto, un richiamo all’umanesimo. Poesia dunque combattiva per la verità che svela i crimini impuniti, come appunto quella della poetessa Cvetaeva, e come i reportages coraggiosi – io scrivo quello che vedo!  – della Politkovskaja.

     E allora di nuovo i miei ringraziamenti, che mai finiscono, a Paolo Statuti vera talpa che scova la poesia dei poeti di ogni latitudine… un lavoro di scavo prezioso con cui le generazioni che verranno dovranno confrontarsi.

Ma ecco la poesia della Nina:

Eccola, vedi, scorre,
l’acqua viva del torrente,
l’acqua viva delle fiabe,
per tutti e per niente».

Poesie di Nina Kossman tradotte da Paolo Statuti

Babi Yar

La madre diceva tua sorella mi fa impazzire,

Ma dov’è, oggi andiamo tutti a morire.

I fritzi* bussano alla porta, dobbiamo uscire.

Presto, svelto, perché quei libri, che te ne fai,

Là dove andremo a stare non li userai mai.

Sei sempre l’ultimo, figlio mio, continuava a dire.

Ecco, sono pronti, ma ora lui vuole dormire!

Dormirai là dove ci porta la nostra stella.

Lascia i libri e cerca piuttosto tua sorella.

Sei uno sciocco, davvero, ma quale stazione?

Ora c’è anche la sorella e vanno in processione.

Chi guidava la colonna loro al macello

Aveva nipoti e pronipoti e prendeva la pensione,

I nipoti hanno un animo gentile, non serve

Traumatizzarli parlando loro di un certo bosco,

Dicendo che nel mondo non c’è molto posto,

Che è una radura, e nessuno è risuscitato;

Ma che il nonno alla loro madre ha mirato,

Che il giovane era mezzo addormentato,

E cadendo sulla madre gli è sfuggito il sacchetto,

Tra i libri sparsi sul corpo c’era anche un gessetto…

Taci, al nipote non serve il tuo boschetto.

*Soprannome peggiorativo per i tedeschi (N.d.T.)

*  *  *

Vedi come il nero stormo

di uccelli caduti senza chiasso

guarda, ingoiando l’aria,

l’aria che fissa in basso;

e la loro mente, diventata ali

e il loro sogno sorpreso

della volta celeste, perfidamente segata

fino all’azzurro stesso –

dal nero stormo, senza un grido,

nelle mute lame dell’erba:

della ferrosa terra centocchi

e del vedente cielo sono una lega.

*  *  *

Vedi come il sole nasconde

abilmente con le mani d’oro

il ricordo degli avi bruni

in lunghi vasi pagani;

sottili mani del sole,

agili gialle dita –

perché non si sappia nulla

dei visi sereni degli Etruschi,

delle lievi etrusche ceneri,

e del secolare specchio tra noi e la morte.

*  *  *

Sono nata nel paese

Dei morti a milioni,

Nel silenzio soffocante

Di guardinghe passioni,

Dove il cielo di notte

Era detto assolato,

Coi teschi così a lungo

Sotto il suolo ghiacciato.

Non verranno sepolti,

I nomi scorderanno;

I nomi degli uccisi

La lapidi non sapranno,

Delle anime riconosciute

Per il sangue loro:

Io sono della stessa valle,

Ma non dello stesso coro.

Là dove mamma piangeva

Per l’uccisione del padre,

Dio di Abramo –

Ozem nell’ade.

Nuovi paesi e l’amore

Io non trovo,

Se sotto la neve i resti

Giacciono di nuovo.

*  *  *

Eccola, vedi, scorre,
l’acqua viva del torrente,
l’acqua viva delle fiabe,
per tutti e per niente.
Nessuno vestirà d’oro,
nessuno dall’insonnia salverà,
l’acqua viva delle fiabe,
limpida e lenta sarà.

Vedi come dolcemente scorre,
si aggrappa alle mie fredde mani,
l’acqua viva delle fiabe –
via da me!* Cura prima i tuoi mali.

*L’espressione russa “Czur menjà”, da me tradotta “Via da me”, è usata per scongiurare una minaccia, un pericolo da parte di uno spirito maligno derivato dalla mitologia slava.

*  *  *
Vedi come i gabbiani assonnati,
lentamente sonnolenti si aggirano,
muovono le ali
sulla rossa argilla presso il lago,
l’argilla con cui i greci
plasmavano stretti vasi
con un accenno alla vita degli dei
(custodi del segreto della morte,
rivelatisi soggetti ad essa) –
gli dei di argilla rossa
presso il lago degli uccelli assonnati.

*  *  *

Se la morte non c’è,

allora puoi campare,

con una parola puoi la terra evocare,

con ogni parola la vita prolungare,

con ogni lettera gli uccelli invitare

a un convito di briciole di pensiero,

di scorza di sogno; il loro chiasso mattiniero

è un segno che la  vita non è un inganno,

lascia che muovano la coda come fanno,

lascia che sia un indizio

che la morte non ha né fine né inizio.

*  *  *

Non più immune dagli eventi della sua anima,

egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.

Egli ora percepiva in esso non un ruggente nulla,

ma gli anelli e le crespe lasciate nell’aria

da un suono, un gesto, un commosso addio.

Pronto per l’età adulta, il mondo farà germogliare

viticci e petali in luogo di un sospiro

inudito dalle forze avvolte nelle nubi

o sotto il primevo suolo dove dormono gli amanti.

O scintillio di una vita faccia a faccia con un miracolo!

L’apparenza respinta per amore dei sentimenti!

Spruzzato di felicità come di dolce acqua,

egli si gettò a capofitto nel ridente grembo di lei

il cui viso egli poteva uguagliare al nulla,

la cui mano – ah, la più vera mano umana!

Pronto ad ammirare la purezza nella stagionale lite

di lei col vuoto, egli – come tutti i candidi amanti,

vedeva anziché il viso di lei, il suo proprio capriccio.

Quando il seme del miracolo generò lo stelo del dubbio,

egli udì una dolce melodia – la sua;

egli udì un ruggente vuoto – del mondo.

*  *  *

Irruppe a un tratto e come un cieco,

Inciampando, il vagone attraversò.

«Ehi, dove vai?! Fermati!» –

Dalla banchina qualcuno gridò.

Ma egli parla con se stesso,

Il bastone qua e là puntato,

Proprio come un cieco,

Alle tenebre abituato.

Ma chi è? Come si chiama?

Come può l’angoscia superare?

Si irrigidì al finestrino,

Cercava di ricordare.

Chi è? Da dove è venuto?

Alla luce come si strugge!

Eppure ognuno, sempre

Al nulla sfugge.

*  *  *

Ogni giorno più libere,

le parole che la morte ha preso:

cosa possono dire

che non è stato già chiarito,

più libere nella pioggia

ogni anno finito

parole che la morte ha preso,

cosa possono dire

che non è stato ancora detto

in ogni lingua, ogni libro;

se il silenzio è d’oro

allora le parole che la morte ha preso

sono oro in una rete da pesca,

io le aspetto in silenzio,

ogni giorno più libere.

(C) by Paolo Statuti

Jerzy Zagórski

23 Feb

     Poeta, saggista e traduttore polacco, nato a Kiev il 13 dicembre 1907. Terminò il ginnasio “Jan Zamojski” a Varsavia. Studiò Diritto all’Università di Vilno. Con Teodor Bujnicki e Czesław Miłosz fu uno dei principali membri del gruppo Żagary, creato a Vilnonel 1931, e la cui nota fondamentale fu il catastrofismo. L’arrivo del nemico, pubblicato nel 1934, è un poema che mozza il fiato. Il poeta descrive una cupa visione apocalittica di sterminio. Potenti eserciti giungono dal Caucaso, nelle smisurate steppe asiatiche turbinano masse umane, nasce l’uomo mostro, l’Anticristo, che si cimenta con Dio. Negli anni ’50 l’autore dirà: “Era un’opera con una trama abbastanza confusa, nella poetica del surrealismo. Cercavo nella poesia anche i modi di uscire dalla disperazione. I miei versi successivi, durante e dopo la guerra, delineano già l’uomo in lotta con le disgrazie, col destino.

     Dopo la guerra fu addetto culturale presso l’Ambasciata polacca a Parigi. Dal 1957 visse stabilmente a Varsavia. Il 31 gennaio 1976 firmò il cosiddetto Memorial 101, che fu la prima decisa presa di posizione degli intellettuali polacchi contro il governo comunista. I firmatari protestavano per le modifiche apportate alla costituzione, che sancivano il ruolo guida del partito e l’alleanza duratura e inviolabile con l’URSS.

     Nel 1979 sia lui che la moglie Marina, traduttrice, ricevettero la medaglia “Giusti tra le Nazioni”, data a coloro che contribuirono a salvare gli ebrei negli anni dello sterminio nazista.

     Żaneta Nalewajk nellapostfazione alla raccolta di poesie di Zagórski Versi scelti, da lei curata, scrive: “La sua poesia è altamente ricettiva, influiscono infatti su di essa molte tradizioni: biblica e antica, romantica e simbolista, nonché estetiche contemporanee al poeta: surrealismo tra le due guerre, nonché linguismo nella prima metà degli anni ’70 del XX secolo”.

     Il suo lirismo ha avuto una peculiare evoluzione. Dal catastrofismo passò alla poesia classicheggiante, rinnovò generi dimenticati, tra l’altro il poema descrittivo e digressivo e il genere grottesco.

     Di Jerzy Zagórski lo storico, critico letterario e saggista Kazimierz Wyka scrive:

“Elementi narrativi si intrecciano nella lirica di Zagórski con la riflessione poetica sull’uomo contemporaneo di fronte alla mutevolezza e durabilità della natura, della storia e della cultura, e il punto di partenza di queste riflessioni sono, oltre agli eventi personali e ai fatti della vita quotidiana, anche motivi storici, fiabeschi e leggendari della cultura nativa e straniera, principalmente mediterranea e del Mar Nero (Crimea e Georgia)”.

     Dopo la guerra,  nelle sue dichiarazioni rilasciate alla Radio Polacca, dedicò ampio spazio alla sua nuova poetica. Dichiarò tra l’altro: “Sono un patito del contenuto, considero la forma come strumento di espressione. Non voglio essere schiavo della strofa e, se il tema lo richiede, mi discosto dal regolare andamento del verso. Inoltre la radio ci ha ricordato che la poesia è un’arte per le persone che reagiscono al suono, per questo nel verso sono così importanti i mezzi di espressione sonori”,

     Jerzy Zagórski, oltre a 19 raccolte poetiche, scrisse anche drammi, saggi e reportage, e tradusse opere letterarie dal russo, georgiano e francese.

     Morì a Varsavia il 5 agosto 1984

Poesie di Jerzy Zagórski tradotte da Paolo Statuti

Invocazione

Dai tessuti dorati del giorno

dalle fibre stellate della notte

ho coltivato un frutto.

È sul mio palmo

caldo al tatto

vermiglio dal sangue

aspro dal pianto.

Solo accostare le labbra

e consumare

fino a mordere coi denti

il nero nòcciolo della solitudine.

1933

Motivo

Una sera argenteoazzurra non è una sera, ma un trapezio di cielo

cala sugli occhi col crepuscolo, quando si arrampica in alto:

com’è facile rivangare nella memoria,

ma com’è difficile forgiare una statua o una tempesta minacciosa.

1933

*  *  *

Abiterai una casa di legno e ci starai bene.

Una scatola di travi di pino. Di nodi tramata.

La foresta lambirà la veranda, alla tua portata.

Abiterai una casa di legno e ci starai bene.

Come fumo fluisce all’alba la nebbia dal prato.

Il mondo è una piana negli occhi di vetro offuscato.

Di giorno l’iride sul bosco. Non ti verrà vicino,

se ne andrà oltre il sipario degli alberi di pino.

Da tutto ciò ch’è più prossimo e che si può abbracciare,

è nata l’idea di patria, e poiché ci sono cose

più distanti, sono nate altre idee più tristi e preziose,

che quanto è più buio tra noi, tanto più sembrano brillare.

Nebbia. Fumi. Nuvole. O notte, quando serena appari,

forse allora ci sorvola la densità delle galassie,

affinché guardando, e credendo a quelle limpide masse,

della tua profondità si resti sempre ignari?

Quel che di giorno è un prato, di notte un nero abisso diventa,

sul quale non sai cosa splenda: deserto, sogno o tormenta.

Dagli alberi cresce il fruscìo dei pipistrelli, e tra la gente

c’è l’amore oscuro – e dal timore proprio lui difende.

Amore rapace e tenero. Invano per nome lo chiami,

invano in forma di bulbi e d’animali lo scolpirai,

perché lui ci lega a sé, ma lo spirito non s’unirà mai,

benché spirito e amore siano sparsi nel fumo e negli astri lontani.

1937

O acqua!

– O acqua, acqua azzurra,

Chi vedevi in quelle ore?

– Vedevo giovani che morivano

E delle madri il dolore.

– Ricordo tre bianche betulle,

Ho veduti

Cimiteri devastati,

Boschi abbattuti,

– La terra delle tigri, degli sciacalli

Dalle bombe scavata,

La gente che passava

Con la faccia celata.

– Il cielo, il soffitto ribollente,

Portoni come ombre,

Come folgore mi gridavano,

Sarà un’ecatombe.

1942

Salmo

(frammento)

Città diletta, città scarnita,

Strade dalla lotta divelte…

Sempre una nuova ferita

L’occhio sulle vostre pietre legge.

Presso piazza Krasiński rabbiosi

I cannoni colpivano il ghetto.

Guizzavano le creste dei fuochi

Da ogni muro, da ogni tetto.

Uomini induriti e spietati

Gelidamente guardano intorno –

I cuori da tempo gelati

E immersi in un buio profondo.

Fluisce degli spari il chiasso

Assieme al fumo da Muranów:

Come grigiastra nebbia in basso,

Come gialla nube lontano.

O sole dei bambini sgozzati

E gettati nel fuoco orrendo,

Sei una macchia di sangue rappreso

Nel fumo bruno dello spavento.

La Madonnina masoviana

Pallida in volto e disperata

Come trepida popolana

Guarda dall’angolo della strada.

Sta lì dietro il vetro della nicchia

Di fronte al bagliore crescente:

Mostra le mani inerme e afflitta –

Non ha più fulmini…non ha più niente.

1943

Poetica

Il  mio nome è freschezza. Io, quando tocco con la parola,

È come se tu mettessi in mano l’archetto a un violinista,

E le belle operaie ballassero come regine

Al ritmo di una mia nuova canzone imprevista.

Come la Musa nell’Onegin adattato da Kotlarczyk*

Sorrido, guardo attraverso un giallastro nebbione,

Procedo come i cavalli di notte nel sogno di Alcmena,

Al teatro Marigny di Parigi nell’Anfitrione.

Ma sono anche nella soffice polvere

Che pàtina degli stanchi soldati il cappotto,

Perché non soltanto al manuale di Bach-organista,

Ma anche alle mazze dei minatori l’amore è rivolto.

Sorella di bronzo della moda, figlia della fantasia,

Duratura come pantera nella pietra scolpita,

E tanto volubile come nuvoletta tigrata, quando

A un tratto nell’ombra lunare è sparita.

1951

*Mieczysław Kotlarczyk  (1908-1978), regista teatrale, attore, drammaturgo, critico letterario e teatrale polacco, nel 1948 mise in scena un adattamento dell’Oneghin di Pushkin, il cui successo lo salvò dalla repressione comunista.

*  *  *

Solo la cupa umana disperazione

Del nostro secolo sarà la dimostrazione?

Dai secoli violati dalla stizza

Giungerà la colomba della giustizia?

La parola aperta non falsificata

Prenderà il posto della menzogna odiata?

Se tali domande ampliare vuoi,

Forse la risposta spetta a noi?

1955

Imprudenti

Fidanzata e fidanzato

Non vadano in due direzioni

Perché i treni scorrono sulla terra

Abitata da una stirpe corteggiatrice.

Lungo il tragitto ci sono stazioni e fermate,

Ci sono sere, notti e mattine.

Il treno a volte ferma in un campo,

A volte qualcosa lo trattiene nel bosco.

Nel campo la sosta può essere diversa,

E nel bosco l’eco si diffonde

E lentamente comincia a crescere

La crepa riempita di spazio.

Due persone ricordino

Quando iniziano un lungo viaggio:

Il solco cresce nelle auto, sulle navi

Ed è un muro per gli aerei in una nube,

E non sempre ritrovano la strada

Di quegli attimi perduti nello spazio,

Divisi dal giro delle eliche

O dalle scie del carburante bruciato.

Ma c’è anche un altro modo

Di viaggiare, che non allontana

Due persone immerse in loro stesse

Come onda doppiamente gonfia.

È un mistero lunatico­:

Imbrigliare un raggio d’argento,

Riflettere dal disco lunare

Un sogno inviato.

Ci sono sguardi più lunghi di una caccia

Di luci che sprofondano fra le oscurità,

Solo che il biglietto è molto caro:

Giornate di veglia, angoscia dell’eternità.

1957

La speranza

                                              A Marina

È appeso il mondo a una ragnatela,

Smisurato è il suo peso,

Per questo il filo può assottigliarsi,

La materia mutarsi in deserto.

Si spezzerà la trama biancastra,

Quando ci smarriremo nel bosco del ragno,

Dove il calpestio negli echi della risata risuona

Come nel Trono di sangue di Kurosawa?

Una stella verrà in aiuto?

Aldebaran cercherà di rinforzare

L’esile nastro col raggio,

Finché il deserto non si coprirà di luce?

Dove la vista le visioni non raggiunge,

Le funi delle altalene ondeggeranno,

Il filo della speranza è teso –

Una delle tre forze di attrazione.

1965

Perché ah perché?

Perché dopo la notte all’alba

Arriva del padre morto

Un amico proprio come vivo?

Perché il suo cognome non riesco

A dire correttamente?

Perché quella birra sulla tavola

Nei boccali non riempiti?

Chi così l’ha lasciata?

È una processione non un funerale

È un funerale non una processione?

Perché quei neri stendardi

Che come punti esclamativi

Dividono il corteo?

Chi ha dato l’ordine

Di uccidere i traduttori­?

Forse perché si vogliono

Rafforzare le divisioni tra i popoli?

Di sicuro l’alveare si frantumerà

Quando si spezzeranno le pareti di cera

E il miele sul muco dorato

Porterà le crisalidi indifese?

Ascolta quei passeri che

Nei rami dei carpini e dei viscioli

Non tacciono malgrado il fragore

Della macchina che macina i rifiuti

Come lo sbattere di secchi di metallo

Che ogni mattina nel sonno crea sgomento.

1973

(C) by Paolo Statuti