La poetessa polacca Anna Pogonowska nacque a Łódź il 7 gennaio 1922. Studiò al ginnasio privato “Helena Miklaszewska” della stessa città. Questa è la sua prima poesia datata, scritta quando aveva 22 anni:
La mia gioia e la mia felicità
Sono le mie tragiche lotte con l’eternità
Che mi tenta col suo accento divino –
La mia tristezza e i miei tormenti
Sono i sorrisi della vita cioè i momenti
In cui mi sono rassegnata al mio destino.
gennaio 1944
Durante l’occupazione tedesca lavorò come taglialegna. Nel 1945 si iscrisse alla facoltà di Lingua e Letteratura polacca dell’Università di Łódź. Due anni dopo sposò l’architetto Jerzy Oplustil, che sarà il padre di una figlia e di un figlio, e si trasferì a Cracovia, dove proseguì gli studi all’Università Jaghellonica. Tornata a Łódź, nel 1950 si laureò con una tesi sul poeta Bolesław Leśmian. Nel 1948 uscì la sua prima raccolta di versi Nodi. Negli anni peggiori dello stalinismo e del realismo socialista, cioè dal 1950 al 1955, la poetessa smise di pubblicare e si rifiutò di collaborare con le riviste e con le case editrici propagandistiche, consapevole delle conseguenze materiali negative di tale decisione. In questi anni lavorò come insegnante nelle scuole medie. Dopo il disgelo, la casa editrice Czytelnik pubblicò la raccolta Cerchi.
Grazie a una borsa di studio del Ministero della Cultura, trascorse alcuni mesi a Parigi nel 1957, e 5 anni dopo poté visitare l’Italia. Nel 1963 si trasferì con la famiglia a Varsavia. Negli anni 70 soggiornò in Marocco, dove il marito lavorava a contratto e dove insegnò la lingua polacca presso l’Ambasciata di Polonia a Rabat.
Ha scritto e pubblicato 18 raccolte di poesie e un volume di saggi. Morì a Varsavia il 6 giugno 2005.
Ed ecco tre autorevoli giudizi sulla poesia di Anna Pogonowska:
Il poeta, saggista e critico letterario Bronisław Maj ha scritto: “La sua poesia racchiude in sé un vasto spazio di sensibilità e conoscenza, compreso tra la riflessione derivata da una sensazione istantanea e una diagnosi culturale universalizzante; tra sculture di nuvole e schiuma e un modello artistico permanente; tra sofferenza e paura, gioia ed estasi. È autentica poesia”.
Il poeta e critico Stefan Jurkowski afferma: “Immagini parsimoniose e al tempo stesso erspressive, immaginazione originale, giochi di parole e di significati – ecco i tratti tipici della poesia di Anna Pogonowska. Le sue liriche parlano al lettore con intimo raccoglimento, con la ricerca della verità interiore. Strumento di questa indagine è la poesia stessa. Punto di partenza della riflessione poetica è la ricerca della propria identità”.
Infine la saggista Katarzyna Kuczyńska-Koschany nella postfazione al libro Anna Pogonowska, Poesie (non)dimenticate, da lei curato, dice: “Se dovessi elencare le tematiche più rilevanti e dare una definizione di questa poesia, la chiamerei poesia delle relazioni uomo-fauna, uomo-flora, poesia fiabesca e cosmica, filosofica e religiosa, poesia di cultura in senso lato, di sensiblità artistica, poesia intima e drammatica”.
Poesie di Anna Pogonowska tradotte da Paolo Statuti
Un’altra oscurità
Quest’altra oscurità
che come il fegato
martoriato dall’artiglio di un avvoltoio
sento sotto la mia liscia
mano Quest’altra oscurità
il cui polso batte
come ferita nelle nuvole
portate in fretta
come cicatrice
taglio
nero che salda
Vattene
Non ti perdonerò il battito affrettato del cuore,
Quando squillava – non da te il telefono,
Non ti perdonerò le parole – che mi volevano
Sì – alla leggera.
Se ne andranno Il sole trascina la folla sul marciapiede,
Una larva di strada mi taglia.
Non salvarmi con un sorriso. Il selciato è duro. È duro.
Il vuoto riempirò di pietre.
Prima di andarmene
Gli afflussi di brusio e nebbia allagano i campi –
Me ne vado da qui tra poco nel paese della gente e dei muri –
Frusterò di nuovo le parole perché seguano la corrente del dolore
Lungo il quale salgo nella gioia indifferente come la volontà.
Il moto delle foglie era l’unico moto qui –
L’aumento delle nebbie – come musica –
Consapevolmente – soltanto l’abete cresceva
A parte questo, c’era silenzio.
E i binari tacciono in fretta
E in me – qualcuno chiude gli occhi
Ed ogni istante silenzioso
Colpisce – come tuono – con l’eco.
Dei insettivori
Dalla sabbia i viola del cardo porgono
Fiori pungenti alle lucenti vespe
Il mare col suo moto sperimentato
Si rizza in schiume
Cosa mai contro i moti e le leggi di natura
Possono le nuvole o i poeti
Sul ritmo del cuore e il polso delle acque
Tùrbina uno sciame di dei insettivori
* * *
con gli anni diventa sempre più difficile per me parlarTi
solo la tua mancanza sento sempre fortemente
paura dolore infine stanchezza
diventano in me un’ancora
di fede di speranza e forse anche d’amore
questa mancanza è il mio sostegno
la roccia che ripesco dall’abisso
il suolo su cui rinsaldo i miei piedi
tu taci
e per questo Ti dico
dove ti nascondi?
dove stai?
nel tempio del mio cuore
nel nucleo della mia oscurità
nella speranza della mia disperazione
Tentativo di distinguere la vita dalla morte
Una falena sbatte contro il vetro calamitata
Dalla mia lampada Si strappa il cappotto di chetina
Il vento accoglie le insegne della vita
Spiritus fiat
Indossa l’abito lacerato
Con le ali spezzate sbatte
Contro la mia finestra spenta
Sulla gioia
Là dove stridono i rami strusciandosi
c’è il cancelletto Dietro ad esso una casa malandata
Poetessa, prosatrice e traduttrice polacca, nacque il 22 agosto 1898 a Łódź. Geniale sorella del celebre fratello poeta Julian. Frequentò il ginnasio “Eliza Orzeszkowa a Łódź. Nell’adolescenza leggeva Staff, Tetmajer, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire e scriveva poesie. Come poetessa debuttò nell 1914 sul numero unico Vita a Łódź con le poesie Presso il camino e Felicità con lo pseudonimo Ira Blanka. Per diversi anni fece parte del celebre gruppo Skamander, in cui il fratello era uno dei membri più autorevoli.
Nel 1921 la prestigiosa casa editrice Jakub Mortkowicz pubblicò la prima raccolta di Irena Tuwim 24 poesie, accolta con entusiasmo dalla critica. Si può dire che essa fece la stessa impressione del fratello Julian, quando lui stampò la sua prima raccolta. Nei suoi versi innovativi e originali la poetessa mostra il corpo della donna, le sue vicissitudini, i suoi desideri e il suo dolore. Quando però i Tuwim si trasferirono a Varsavia, la carriera letteraria di Julian prese quota. In vita egli diventò un gigante della cultura polacca, mentre Irena, pur continuando a scrivere poesie, cominciò a dedicarsi piuttosto alla traduzione di importanti e note opere inglesi e russe, e soprattutto della letteratura per l’infanzia e la gioventù.
Il geniale saggista e critico letterario Stefan Napierski, dopo aver letto le 24 poesie, decise che doveva conoscere la poetessa. Per questo si recò appositamente da Varsavia a Łódź. Dopo l’incontro, Irena ricevette un cesto di giacinti con il biglietto: “A Irena Tuwim, ringraziando per la Sua poesia e per le sue labbra”. Tre mesi dopo si sposarono. Il matrimonio tuttavia durò pochissimo, perché il marito si rivelò un omosessuale.
Nell 1926 uscì il volume di poesie Lettere, accolto dalla critica con pareri discordi… Il critico letterario e storico dell’arte Karol Wiktor Zawodziński scrisse: “Alcuni dei migliori versi di questa raccolta hanno una costruzione metrica e strofica, una sintassi e una ritmica, un lessico e una intonazione, una composizione e una tematica che caratterizzano la poesia di Anna Achmatova. Sulla raccolta Amore felice, uscita nel 1930 e paragonata dalla critica alla poesia di Maria Pavlikowska-Jasnorzewska, Kazimiera Iłłakowiczówna e Zuzanna Ginczanka, lo stesso Zawodziński scrisse: “Parla di una amore senza futuro, pieno di presentimenti della fine. Negato alla felicità. Sono amoretti passeggeri e senza speranza (“sono una mendicante di amore, fate la carità”). Avvilimenti, separazioni e solitudine, un continuo vagare senza scopo tra gli alberghi europei, frequenti pensieri di suicidio – sono i motivi ricorrenti nel libro”.
Verso la fine degli anni ’20 conobbe Julian Stawiński, che nel 1935 divenne il suo secondo marito. Purtroppo neanche con lui la poetessa ebbe molta fortuna, perché era alcolizzato. Dal 1937 si impegnò maggiormente nella traduzione di libri per bambini, tra i quali ricordiamo ad esempio le favole dei fratelli Grimm, Mary Poppins della scrittrice Pamela Travers e nel 1938 i due libri dello scrittore inglese Alan Milne Winnie the – pooh e The house of pooh – Corner, tradotti in polacco coi nuovi titoli Kubuš Puchatek e Chatka Puchatka. Proprio questi due libri, rielaborati secondo lo spirito polacco, e che il noto scrittore Stanisław Lem giudicò migliori degli originali, Irena Tuwim entrò a pieno diritto nella storia della letteratura polacca.
Allo scoppio della II guerra mondiale, si trasferì col marito a Parigi e, dopo l’occupazione tedesca della Francia, in Gran Bretagna. Nel 1945 si recarono in Canada, a Toronto. Finita la guerra, trascorsero un preve periodo negli USA e nel 1947 tornarono in Polonia, dove Irena per diversi anni continuò a tradurre. Nel 1956 uscì il volume dei suoi racconti Le stagioni di Łódź e due anni dopo la raccolta Versi scelti, accolta entusiasticamente da Anna Kamieńska come “ritorno della poetessa”. Nella sua recensione del volume scrive tra l’altro: “L’amore nelle poesie di Irena Tuwim è sempre tragico e cupo, mai sereno e idilliaco… Questa donna che grida la sua nostalgia, il suo amore, i suoi timori, è pienamente consapevole del suo stato psicologico, ha cura della sua sensibilità come del volto e delle mani, e non è indifferente alla sorte di ogni femminilità… La sua poesia entra nei segreti delle donne di ogni condizione”.
“Irena nelle sue ultime annotazioni scriveva di non saper vivere senza amore. Quando restò sola, dopo la morte del fratello e del marito, cercava di trovare l’amore tra gli amici. Non ci riusciva e per questo soffriva molto” – scrive Anna Augustyniak, autrice del libro Irena Tuwim. Non sono morta di amore. Julian Tuwim morì il 27 dicembre 1953. Un anno dopo, in un quaderno Irena scriveva: “Non posso leggere i suoi versi, rileggendoli di nuovo provo un dolore indescrivibile. Forse è lo stesso dolore che sentiva lui quando li scrisse… È come se qualcuno restasse improvvisamente invalido e sapesse di restarlo per tutta la vita. Bisogna solo adattarsi a questa invalidità. Non posso immaginare che possa esistere ancora una forma di vita in cui io non sarei infelice. Perché tutto non ha più senso, non ha più luce”. Dopo la morte del fratello, moriva lentamente. Nei restanti anni della sua vita era incredibilmente sola. In una nota del 1976 scrisse: “Sono condannata non a morire, ma a vivere”.
La casa editrice Nasza Księgarnia, da sola, negli anni 1946-1976 pubblicò ben 30 libri di Irena Tuwim.
La poetessa morì a Varsavia il 7 dicembre 1987.
Poesie di Irena Tuwim tradotte da Paolo Statuti
Verso sul verso più importante
Lo so. Questo giorno dovrà arrivare,
Cioè l’indomani del mio funerale.
Ed è per me lo stesso, se ci sarà il sole,
Il cielo grigio, la neve o il temporale.
Come sempre le donne andranno in ufficio,
Il fornaio i suoi panini all’alba infornerà,
Nei caffè soneranno “Sérenade d’amour”,
E ai giornali chi ha perso qualcosa scriverà.
E io so, se per miracolo risuscitassi,
Che dei pensieri nel caotico viavai,
Il primo sarebbe: doveva accadere che, in realtà,
Il verso più importante io non scrivessi mai.
Dialogo con la fantesca
Nessuno notò. Solo la fantesca,
Quando tornai in albergo a tarda ora.
Lavava le scale. Sbirciò. Sapeva.
Si torse le dita: «Signora!»
Sul grembiule asciugò le mani,
Portò la biancheria all’istante,
Stremata, nera Madonna italiana,
Mi preparò il letto ansimante.
Aprì gli occhi – come due mari –
Con voce rotta disse all’improvviso:
«C’era qui una. Pure giovane. Occhi chiari
E a lei, signora, somigliava nel sorriso»
Portò le mani al florido seno:
«Ah, era un sorriso senza amore!
…Dovemmo abbattere la porta… Pensi…
…Al filo del ventilatore…
Dovemmo sotterrare il grazioso corpo,
I capelli di seta, il caro volto… »
– Certo non amava il mondo, se ha potuto… »
«O forse il mondo non l’amava molto?»
** *
Giaccio in fondo all’acqua, in fondo al fiume,
L’acqua su di me scorre come tempo vetroso senza sosta,
Più non ti chiamo, sei di una volta, lontano:
Forse sono morta.
Non sono morta di amore,
Neanche tu sotto il suo peso sei crollato –
Le alghe hanno sciolto su di me i capelli dal dolore.
Il mondo abbiamo eliminato.
Nei secoli dei secoli
Non ci perdonerà Dio Signore.
Confessione
Mi guardò in fondo al cuore, disse: “Cara”,
Mi scostò i capelli con la mano: “Poveretta,
Come hai potuto vivere senza di me,
Tu ultima, unica e mia diletta?”
“Ah, veniva a trovarmi il dolce vespro,
Quando in cielo tutte le stelle aveva steso,
Ogni giorno veniva da me dopo il lavoro,
Restava con me e felice mi ha reso:
Ah, non potevo restare sempre sola,
Troppo a lungo soli siamo rimasti…
Poi l’acquazzone… A volte aspettava all’entrata –
Ci baciavamo sotto gli astri.
Ah, sì ti ho tradito, mio caro… “
“Con chi? parla, in nome del vecchio amore!”
“Ogni notte il disco lunare dormiva con me –
Non lo vedi dal nostro pallore?”
Finalità
Che le parole finalmente si mutino in sorrisi, fontane e fiori –
E non serviranno più altri ristori.
Nei cuori come negli specchi ci guarderemo,
E i cuori come labbra per bere ci porgeremo.
La terra profumerà e ci sarà tanta fresca rugiada,
Quando la magica parola “giardini” sarà pronunciata.
Quando diremo “cervi e viale alberato” –
Sarà cervineo e ombrato.
La parola “frutti” – come succo scorrerà,
E “triste” – uno scialle avvolto in una nuvola sarà.
Nel mondo non ci saranno poeti. Saremo tutti bimbi lieti.
Ci spunteranno le ali. Angeli – poeti.
Ricordo di Viareggio
Palme secche sulla spiaggia. La sabbia con macchie di sole,
La pineta africana, immobile, senz’ombra, spettrale,
Il mare si riversa. Sull’acqua a dismisura azzurra bianche vele
Come brevi sospiri del mare.
La fresca pensioncina in via Buonarroti.
Le tapparelle abbassate fino alle sei. Profumo di caffè e meloni.
Nella salle de lecture sotto la poltrona due gatti striati
Pensavano, mormoravano in italiano le loro gattesche questioni.
Dalla finestra, lontano, la spiaggia. Lucidi corpi abbronzati,
Variopinte bambine come palloncini sulla spiaggia assolata,
A un incrocio delle strade, bianche dalla calura,
L’ultima lettera d’amore nella cassetta è infilata.
La sera l’arietta della notte. La luna di latta che si rinfresca.
Un diverso mare, serico. E come un sonnambulo il molo –
Andava per di là un marinaio. Portava la luna sotto l’ascella.
Diceva che va a Le Havre, a Tolone, a Napoli e non solo.
Il pipistrello
Isterico cieco, per castigo espulso da un bel giardino.
Cade in una verde persiana semiscostata,
Invaghito dei capelli femminili, suicida alato,
Vuole avere un laccio speciale, di seta filata.
Scivola silenzioso, di sbieco, di colpo, basso, da sotto,
Rotea senza rumore, solca l’aria impaurito –
Finché disperato, impazzito, scarno orecchione,
Si appende al solaio come un ombrello sdrucito.
Notte di luglio nel parco
Brillano le stelle prese in una rete blu.
Una azzurra, due verdi e una miriade argentata.
Hanno ragione i cattivi poeti:
La notte è davvero vellutata.
Odora dolce la violacciocca e trasudano i tigli,
Per l’intenso aroma il folle turbine s’è addormentato.
Luglio profuma esageratamente. Ah, questa notte
È come un profumo fuori moda, antiquato.
Troppo bianche le ninfee. Troppo levigato lo stagno.
Dici indicando il cielo: “Ci sarà un temporale tra poco”.
Batte, come palpebra assonnata, un petalo che cade,
Stufa della sua bellezza una sciocca rosa rosso fuoco.
Il sorriso
Mi è rimasto dopo tutto questo
Solo un sorriso,
Un sorriso forse più simile al pianto.
Lo metto sulle labbra, come un vestito di linda lana grigia,
Come il vestito della maestra,
La simpatica signora Sofia.
Pensieri, parole, serate
Su strade occasionali,
Piazze scintillanti di pioggia e di luci,
Svolte inaspettate,
Ore segrete,
Indirizzi dolci e minacciosi,
Giardinetti fruscianti e bagnati,
Verdi, verdi –
Tutto ciò per cui ero viva,
E per cui oggi sono morta,
Si è racchiuso, si è ristretto
In questo piccolo impolverato sorriso di topo.
ù
Madre mia, soltanto te sgomenterebbe questo sorriso.
Estraneo
Adesso tutto è estraneo. Estranea è la casa, il cane, le questioni
Ed estraneo è il giorno dopo la vuota notte che ho passato.
Estraneo quest’anno è maggio. Ed estranea è Varsavia.
E quando all’alba mi sveglio, estraneo è ciò che ho sognato.
Su una barchetta malconcia, su un piccolo guscio ho lasciato la riva.
O terra! Pianeta di altri! Su di te un silenzio canuto.
Nell’acqua impetuosa e nera vado in cerca di qualcosa che è mio –
Buio. Non grido…Perché nessuno senta e venga in mio aiuto.
Poeta, pubblicista, prosatore e attivista politico russo. Nacque a San Pietroburgo il 6 dicembre 1813 da una nobile famiglia di ricchi proprietari terrieri. Il padre era consigliere di stato. Quando Nikolaj aveva due anni la madre morì a Beloomut, la proprietà che lei aveva ereditato da uno zio. Il padre allora si trasferì col figlio nella tenuta di famiglia in provincia di Penza, dove il futuro poeta trascorse l’infanzia. La triste esperienza della perdita della madre fu aggravata da un freddo rapporto col padre, il cui dispotismo influì negativamente sul carattere malinconico del giovane. Egli in seguito chiamò la casa paterna una prigione. Crescendo maturava sempre più in lui il bisogno di una trasformazione morale e sociale. La rivolta dei Decabristi del 1825 lo aveva fortemente influenzato.
Nel 1826 incontrò Aleksandr Herzen e tra i due nacque un’amicizia che durò tutta la vita. I giovani condivisero subito due cose: l’avversione per la monarchia e le idee dei Decabristi. Nell’estate del 1827, durante una passeggiata, i due amici giurarono di dedicare la loro esistenza alla lotta per la libertà del popolo russo.
Nel 1829 entrò all’Università di Mosca, frequentando le lezioni di fisica, matematica, filologia, etica e politica. Tre anni dopo passò alla sezione etico-politica, dove si diplomò. Fu uno degli organizzatori del circolo politico studentesco dell’Università di Mosca, sorto in risposta ai disordini politici nel paese. Nel 1833, per le sue idee di libero pensatore, fu messo sotto sorveglianza della polizia e un anno dopo fu arrestato per avere diffuso poesie “calunniose” che screditavano la famiglia imperiale. Grazie all’intervento di famigliari influenti fu rimesso in libertà su cauzione. Nello stesso anno però, fu arrestato di nuovo, a causa di lettere scritte “in stile costituzionale”. Il 31 marzo 1835 fu condannato all’esilio nella provincia di Penza.
Dal 1840 al 1846 visse all’estero: Svizzera, Italia, Francia e Germania, dove frequentò l’Università di Berlino. Nel 1846 si stabilì nella sua tenuta di Penza. Nello stesso anno realizzò ciò che sognava dall’età di 15 anni, e cioè liberò i contadini di Beloomut (1800 anime) dalla servitù. Inoltre condonò i loro debiti e diede loro la terra. Intraprese anche alcune attività economiche che tuttavia non ebbero successo.
Nel 1850 il governatore di Penza accusò il poeta di partecipazione a una “setta comunista” e per questo fu di nuovo arrestato per un breve periodo. Nel 1856 emigrò in Gran Bretagna. Viveva a Londra, dove insieme a Herzen dirigeva una libera tipografia russa. Era anche condirettore con Herzen del settimanale La campana. Negli anni 1860-1861 partecipò alla creazione dell’organizzazione rivoluzionaria Terra e Libertà.
Nel 1865, in connessione col trasferimento della tipografia da Londra, Ogarjòv e Herzen si stabilirono a Ginevra, che in quel tempo era diventata il centro dell’emigrazione russa. Espulso dal governo svizzero, nel 1873 tornò a Londra.
Il poeta si sposò due volte, ma nessuno dei matrimoni può essere considerato felice. Qualche consolazione, negli ultimi anni, la ebbe da Mary Sutherland, una prostituta londinese che non lo lasciò mai fino alla morte, avvenuta il 12 giugno 1877 in seguito a un attacco epilettico. Aveva 63 anni. Le sue ceneri furono trasferite da Londra a Mosca il 1 marzo 1966 e ora riposano nel cimitero di Novodevičy.
L’opera poetica e pubblicistica di Ogarjòv è una parte essenziale della letteratura russa del XIX secolo. La sua opera completa, poesia e prosa, occupa ben 4 volumi. I versi romantici del primo periodo della sua creazione sono diversi nel loro orientamento filosofico, e spesso saturi di motivi religiosi e mistici, ispirati alla ricerca della verità e della giustizia. Nei suoi anni maturi egli si dichiarò più apertamente attraverso testi di ampia portata sociale, spesso agitati e patetici, a volte filosofici e meditativi e a volte sinceramente nostalgici.
Nikolaj Ogarjòv ha trascorso tutta la sua vita in una dolorosa ricerca spirituale, sognando con passione di cambiare la vita della gente.
Poesie di Nikolaj Ogarjov (1813-1877) tradotte da Paolo Statuti
Addio al paese che non ho lasciato
Addio, addio, Russia mia!
Molto tempo non passerà,
Prima che un radioso paese
Straniero mi ospiterà.
Ti ringrazio per il compleanno,
Per gli attimi cari al cuore,
Per le steppe e gli inverni,
Per la prigione e il dolore,
Per l’indifferenza della gente,
Per i desideri eletti,
Per la tristezza e la sete di sapere
E per gli amici diletti, –
Per ogni gioia e sofferenza;
Ti amo e sacri mi saranno
Tutti i miei ricordi
Nel paese lontano.
E spesso sospirerò per te,
Tornerò – e con pianto accorato
Guarderò la steppa innevata
E il cielo di grigio velato.
1840
Per la morte di Lermontov
Ancora un duello! Ancora un poeta
Col piombo nel petto lascia la scena.
Le labbra ha serrato, niente più canti,
Tutto tace… Quale quieta pena!
Qui è vano il saluto di un amico…
Tutto tace – la tristezza, l’ostilità,
L’amore, – ciò che nutriva l’anima…
E l’anima dov’è? ora dove sarà?
Ma l’eterna domanda
Ora io non scomoderò;
Da tempo ho piegato il capo,
Da tempo il penoso dubbio che ho
Il mio cuore ha ferito, – e un grido
Vi si cela… Ma una fredda mente
Non permette di vivere all’inganno,
Lo sguardo è cupo e la fede è assente.
E una segreta paura mi prende
Quando vedo, mio Dio,
Come gli occhi pieni di fuoco,
Si chiudevano nell’addio,
Come egli cadeva, piegando il capo,
E il verso afflitto taceva
Con un mesto sorriso sulle labbra,
E come polvere senz’anima giaceva.
Ma più senz’anima davanti a lui
La sciocca nullità con la pistola
Era ancora sana e illesa,
Non tremando, senza una parola,
Non turbato da un segreto rimorso,
E forse contento di poter vantare
A volte che la sua mano e l’occhio
Non potevano sbagliare.
E nel frattempo sul morto
Il cielo splendeva, e muta restava
Intorno la steppa intera,
E in lontananza sonnecchiava
La catena blu dei monti – e tutto
In tale quiete era immerso,
Come se per il mondo la sua vita
Fosse stata solo tempo perso.
Ma la sua vita era stata grandiosa,
Vita di splendide emozioni,
Piena di fuoco spirituale,
Piena di pace e di passioni;
Tutto, tutto essa conosceva,
Gli istanti del suo universo
Egli coglieva con trepido udito
E riversava nella musica del verso.
Ma l’eroe del suo tempo, triste
Intorno a sé guardava spesso,
E a volte un rimprovero
Colpiva sia il tempo che se stesso,
E il verso iracondo e ostile
Sonava come impietosa invettiva…
Sia amando che desiderando,
O anche odiando – egli soffriva.
Ascolta, o fato il mio giudizio!
Perché sempre solo sofferenza
I poeti provano penosamente?
Ecco il mio giudizio, o provvidenza!
Il tempo nei tormenti scorre,
Oppure provvidenza e fato
Sono solo parole vuote
Senza alcun significato?
Con quale beatitudine
Avrebbe potuto gioire!
La sua anima prometteva felicità:
Il calore di un saluto sentire,
E l’estasi poetica,
E di dolci visioni il diletto,
Il mondo visto con amore,
La vita come eterno banchetto…
Povero fratello! dammi la mano,
Dammi la gelida mano
E dormi nel silenzio tombale,
Ora il mio saluto è vano,
Nel tuo sonno non lo sentirai,
E tutto il mio sconforto
Non ti risveglierà mai…
Ora tu sei sordo, tu sei morto!
Si disperderà tra le steppe
La prece per te rivolta,
E si asciugheranno le lacrime
Sulla fredda pietra… E talvolta,
Già sceso nell’ombra eterna,
Anche per me il pianto risonerà,
Ed esso mi resterà ignoto… Dormi,
Amico mio, il silenzio ti cullerà!
1841
Quando di notte siedo da solo…
Quando di notte siedo da solo
E immagini sacre nella quiete,
Dal fondo dell’anima io traggo
E il suono del verso in me si ripete, –
Sono felice! di nessuno ho bisogno.
Ciò che l’anima crea e io leggo,
Per l’anima stessa è un diletto,
E nel silenzio io lo vezzeggio…
E a volte vedo Prometeo,
Che, pieno di pensiero, audacemente,
Ha preso agli dei il fuoco sacro
E in silenzio crea la sua gente…
1841
Un racconto come tanti
Quella stupenda primavera
Erano seduti sulla riva –
Il fiume era calmo e chiaro,
Il sole sorgeva, un tordo garriva.
La valle si stendeva oltre il fiume,
Tranquilla d’un verde brillante.
Vicino fioriva la rosa canina,
Un viale di tigli era poco distante.
Quella stupenda primavera
Erano seduti sulla sponda –
I suoi baffi non ancora neri,
Lei – una giovane bionda.
Oh, se nei loro incontri al mattino
Qualcuno li avesse scorti,
E avesse esaminato i loro visi
E ascoltati i loro discorsi –
Come avrebbe amato la lingua,
La lingua del primordiale amore!
Nel suo animo in quell’istante,
Sarebbe scomparso il dolore!..
Poi io li ho incontrati di nuovo:
Lei un altro aveva sposato,
Lui aveva un’altra per moglie,
E non una parola sul passato.
La pace aleggiava sui volti,
La loro vita scorreva regolare,
Se per caso s’incontravano,
Potevano ridere e freddi restare…
E dove fioriva la rosa canina,
Là sulla riva del fiume,
Alcuni semplici pescatori
Si appressavano a una barca-marciume
E cantavano canzoni – e oscuro
Alla gente ignara restava
Ciò che là un tempo si diceva,
E quanto già si dimenticava.
1842
Addio all’Italia
Sul mare quieto si stende il buio notturno,
E il cielo blu di stelle è adornato.
Rombano le ruote e mùlina la schiuma
Del piroscafo dove sono imbarcato.
Dietro, l’onda come due redini corre
E il fumo nero serpeggia come fascia spessa,
E un gabbiano intorno all’albero volteggia,
E il mare risuona, scroscia e si riversa.
Sul ponte tacciono le chiacchiere tediose,
Nelle cabine il sonno i miei compagni chiama.
Ora sono solo. Tristemente lo sguardo cerca
Un luogo familiare sulla riva lontana.
Ma i canti del pescatore io più non sento.
La catena dei monti comincia a nereggiare,
Come una vaga linea essa presto sparirà,
E resterà soltanto il cielo e con esso il mare.
O Italia, rimpiango le tue splendide città!
Ora le tue immagini lontane, tacendo
Il ricordo mi disegna. Ora nella nebbia notturna
Mi giunge l’aroma dei giardini di Sorrento,
Ora vedo la mesta campagna romana
E dei boriosi paesani i volti severi,
Ora lo sciabordio dei remi e la casa dei dogi
Portano all’anima mia misteriosi pensieri.
Ma io fuggo da voi, incantevoli città!
Nelle orecchie i canti del sud ancora aspetto,
Ma la vita della tua gente, o Italia, è vuota!
Il suo spirito è vecchio e il tuo mondo è stretto.
Dappertutto muta rovina, morte e muffa!
Balbettano sul passato le bocche assurdamente,
E le teste a un greve sonno sono appese…
Ora fuggo cercando il moto d’una nuova mente.
E sarà accolto il pellegrino da un altro paese,
Dove ferve la vita e la forza respira nelle genti,
E il lavoro porta i frutti, e il campo è opulento,
E la scienza ha illuminato le menti,
E desidera ognuno che per tutti sia meglio.
Là, o mio piroscafo! Ed ecco la luna intanto
Afflitta sull’umido deserto è già sorta –
Addio, Italia! già lontano è il tuo incanto…
Eppure io ti rimpiango! Amavo contemplarti
Come amante d’un trascorso fasto:
E lo sguardo è già spento, il colore è scomparso,
Ma il diletto nel sorriso è rimasto,
Quasi non fosse morte, ma pace sonnolenta,
E delizia, che con dolcezza e ansietà,
Sembra gli abbracci possono dare,
E provàti un istante, si può morire già.
Italia! più d’una volta vorrò di nuovo
Vedere il giorno lucente e l’ombra della notte blu,
Stordirmi e dimenticare in un diafano silenzio
L’infantile vecchiaia della gente che fu,
E il dolore della mia anima, stanca di fermento.
Addio! siano lieti i sogni che tu avrai,
Mentre io proseguirò l’incessante cammino
Tra onde e pensieri erranti, che non dormono mai!
1843 (?)
Monologhi
I
Notte e buio! Come tutto è spossante e vuoto!
La pioggia insonne batte alla mia finestra,
Il raggio della candela si alterna a un’ombra lunga,
E nel cuore – solo oscurità e tempesta.
Sogni passati! all’anima duole separarsi da voi;
Io lontani miraggi ancora ravviso,
Non volendo, ancora in petto il desiderio freme;
Ma la vita e il pensiero i miei sogni hanno ucciso.
O pensiero, pensiero! Com’è orrido ora il tuo moto,
E orrida è la tua lotta continua!
Implacabile come la stessa sorte,
Più delle celesti tempeste tu porti rovina.
Da tempo in me l’innocenza hai infranto,
Per sempre mi hai trascinato nell’ansietà,
Per la fede la fede nella mia anima hai perduto,
La luce di ieri mi hai chiamato oscurità.
Per la verità ho ripudiato le verità passate,
Ai sogni radiosi la porta ho sbarrato,
Strappavo i fogli degli amati quaderni,
E tutto, tutto adesso è lacerato.
Dovrei ridere della mia impotenza,
E vedere intorno l’impotenza della gente,
E difficile è ammettere in me la verità,
E ancora più difficile è dirla apertamente.
Davanti alla nuda verità è scomparso anche Dio,
E l’orgoglio personale, e i sogni d’amore,
E dinanzi c’è una strada deserta,
E nel sangue ancora arde un vano ardore.
II
Presto, annega nei gorghi della depravazione
Il pensiero e il cuore, sentimenti e riflessioni;
Deridi tutto ciò che sembrava così sacro,
E spreca la vita in chiasso e libagioni!
Qui, qui un calice di umidità giocosa!
Qui, o baccante! le mie orecchie con un sonoro
Canto, pieno di audacia dissoluta, incanta!
Per un tuo bacio, prendi quest’oro…
Il vino ribolle in me e il bacio mi brucia…
Tu sei buona! oh, sei buona davvero!..
Perché di nuovo in petto la pena s’è destata
E l’anima sussulta come fiamma d’un cero?
Perché sei buona? il sentimento da me scordato,
Perché, o mia bellezza, a turbare hai ripreso?
L’arte vergognosa delle tue languide carezze
Davvero in me l’amore inquieto ha appreso?
Amore, amore!.. oh, no, io solo dispiacere,
Provo per te, delizia perduta…
Vattene, sei ripugnante! io ti disprezzo,
Venale schiava venduta!
Tu piangi? no, non piangere. Ti ho offesa?
Perdonami – sono i fumi del vino;
Se io non amassi, non odierei.
Aspetta, l’anima mia ti è vicino –
Dalle mie labbra rimprovero più non udrai.
Dimentica tutta la vita passata,
Dimentica la lorda via del vizio e del disonore,
China verso di me la tua testa aggraziata, –
Tu martire delle passioni e del desiderio,
Alla tua anima i sogni ispirerò,
Come il respiro di primavera ravviva la farfalla,
Col respiro del mio amore io la ravviverò.
Perché taci, bambina, e guardi sorpresa,
E io non bevo il mio calice versato?
Maledizione! di nuovo un inutile tormento
Nell’anima da qualche parte ho trovato!
Ma poggiata alla mia spalla lei sonnecchia,
E ciò che è in me lei non comprende;
Immobile guardo come il sonno le alza il petto,
E scioccamente spreco il mio cuore per niente!
III
Cosa voglio?.. Cosa?.. Oh! ho così tanti desideri,
La loro forza ha così bisogno di comparire,
A volte sembra che la loro intima angoscia
Il petto farà scoppiare e la mente impazzire.
Cosa voglio? Tutto in tutta pienezza!
Ho sete di sapere, io voglio gloriose azioni,
Voglio ancora amare con folle angoscia,
Della vita voglio tutte le emozioni!
E in segreto sento che i desideri sono tutti vani,
E la vita è avara, e nell’intimo sono malsano,
Le mie aspirazioni resteranno mute,
Nei tentativi la riserva di forze userò invano.
Io stesso, schiacciato dal dolore,
Un povero, piccolo sciocco mi sento,
E nell’immensità – una creatura smarrita
Che languisce in un vuoto fermento…
Lo spirito dell’eternità non si coglie in una volta,
E a sorsi dal calice della vita noi beviamo,
Sempre più ci dispiace di aver bevuto
E il fondo vuoto sempre più vediamo;
E ogni giorno l’antiquato all’anima è più greve,
Duole di più ricordare e desiderare è più orrendo,
E sembra che vivere sia un’audacia disperata:
Ma devo sentire sempre che il polso sta battendo,
E a vivere continuo in una triste aspirazione,
E su di me la croce della vita prendo,
E tutto l’ardore dell’anima sento in avido moto,
Per un istante l’istante afferrando e perdendo.
E tutto voglio!.. Cosa?.. Oh! ho così tanti desideri,
La loro forza ha così bisogno di comparire,
A volte sembra che la loro intima angoscia
Il petto farà scoppiare e la mente impazzire.
IV
Come scolaro nel banco, di nuovo sono a scuola
E avidamente ascolto, taccio e vedo;
Lunga è la via del sapere, ma io sono volitivo,
La fatica non mi spaventa – io voglio e credo.
Intorno solo adolescenti, la parola del maestro,
Come me, tutti ascoltano in silenzio;
Per loro tutto è vero, tutto è ancora nuovo,
L’ardore dell’anima inesperta è il loro assenso.
Ma io sono giunto qui col pensiero maturo,
Dal dubbio messo alla prova, combattente,
Ma non ucciso da esso… Io coi miraggi,
Audace e sincero, ho fatto i conti finalmente;
Mi sono difeso dall’angoscia interiore,
Con pazienza un nuovo cammino ho scelto,
Ed ora non perderò la strada intrapresa –
Il pensiero è libero e con forza respira il petto.
E allora, mio Mefistofele, invidioso ostinato?
Da oggi ho distrutto la tua prepotenza,
La malsana prepotenza della beffa antiquata;
Mi sono riscattato con grande sofferenza.
Ora mi è compagno un altro spirito di negazione –
Non quel gelido beffatore retrivo,
Ma l’onnipotente spirito del moto e della creazione,
Quello eternamente giovane, nuovo e vivo.
Nella lotta non ha paura, distruggendo gioisce,
Dalla polvere tutto ricrea con vigore,
E il suo odio per ciò che va abbattuto,
All’anima è sacro, come sacro è l’amore.
1844-1847
Ti rammarichi che dopo tanti anni…
Ti rammarichi che dopo tanti anni
Hai incontrato un tuo vecchio amico
E non avete più niente in comune…
Non affliggerti puerilmente – ti dico!
Ama il passato! I suoi incanti
Non biasimare! Da vecchi ogni triste ora
Bisogna vivere in fondo all’anima
Con la frescura primaverile della memoria.
1850
A pochi
Vi ho lasciati, ma senza pianto –
Gli anni mi hanno gelato,
E il segreto della bufera del cuore
Non chiede più d’essere svelato.
E il cuore si stringeva in silenzio
Nell’ora dell’addio, d’infelicità,
E muti dolori si celavano
Nella triste intimità.
Così sotto la crosta di ghiaccio
D’inverno nascosta – attenzione,
Che nessuno senta – la fonte viva
Palpita compressa e con agitazione.-
1856
Libertà
Quando ero un giovinetto quieto e delicato,
Quando ero un ragazzo terribile e ribelle,
E in età matura, e già un po’ invecchiato,
Tutta la vita risonava sempre una sola
Continua e immutabile parola:
Libertà! Libertà!
Stremato dalla schiavitù e di spirito triste
Ho lasciato il mio caro paese natale,
Perché possa, finché la forza esiste,
Da un paese straniero alla terra amata,
Gridare ad alta voce la parola sospirata:
Libertà! Libertà!
Ed ecco nel paese straniero una voce potente
Nella quiete notturna ho udito da lontano…
Attraverso l’umida bufera e il buio impotente,
Attraverso gli ululati del notturno vento,
Dalla patria la giovane parola io sento:
Libertà! Libertà!
E il cuore, al dubbio amaro così unito,
Come uccello dalla gabbia, lasciando la prigione,
È balzato la prima volta con battito gradito,
E in qualche modo solenne, lieta, nuova,
Risuona adesso, fin dall’infanzia nota, la parola:
Libertà! Libertà!
Eppure io sogno – la neve e il vasto piano,
Vedo il volto noto di un contadino,
Volto barbuto, la forza di un titano,
E lui si toglie le catene contento,
L’eterna, immutabile parola ripetendo:
Libertà! Libertà!
E se incombessero avversità e distruzione,
E la libertà volesse mani per lottare –
Correrò subito in difesa della nazione!
E se cadrò in una battaglia cruenta,
Morendo, griderò forte perché si senta:
Libertà! Libertà!
E se dovessi morire in terra straniera,
Morirò con la speranza e la fede nel cuore;
Ma un istante prima, se ciò si avvera,
Finché in questo mondo io ancora sono,
Compagno, sussurrami l’ultimo sacro suono:
Libertà! Libertà!
1858
Mozart
La folla in strada ascolta con entusiasmo
I sonatori ambulanti. Il clarinetto ha lo spasmo;
Chi lo suona, scotendo la testa, con precisione
Batte il tempo in terra col suo piedone;
Crepita e stride la tromba; il trombone soddisfatto
Nel sito Notagram.ru ho trovato il post 10 poesie che ognuno dovrebbe conoscere. Ignoro l’autore della scelta, che certamente ha seguito il proprio gusto poetico. Io senza discuterlo l’ho condiviso e ho tradotto fedelmente l’intero post. Spero piaccia anche a voi, poiché si tratta indubbiamente di poesie che “toccano le corde dell’anima”:
“Non amano e non capiscono la poesia solo coloro che a dire il vero non hanno amato, non hanno vissuto, non hanno gioito e non si sono afflitti in questo mondo mortale.
La vera poesia non è semplicemente una rima ben messa e la scelta felice di una parola. È qualcos’altro. È ciò che l’anima estrae da te, comprime tutti i sentimenti in un gomitolo, ti mette al rovescio. È ciò che ti capisce meglio delle persone a te più vicine e più care. Per questo tu senti rizzarsi tutti i peli sulla pelle e avverti un formicolio. Sono parole che addolorano e placano al tempo stesso.
Nella poesia ognuno di noi trova qualcosa di proprio, di personale e recondito. Ciò che fugge via dalla nostra anima o, viceversa, ciò che cerca di celarsi nei suoi recessi. Inesprimibili emozioni che toccano le corde della nostra anima – ecco cos’è la vera poesia. Oggi Notagram.ru ci ricorda dieci belle poesie, che non ci dice di imparare a memoria, ma ci invita semplicemente a conoscere”.
Anna Achmatova (1889-1966)
Io vivo in modo semplice e saggio…
Io vivo in modo semplice e saggio,
Guardo in alto il Cielo pregando,
Vago a lungo prima di sera,
L’inutile angoscia spossando.
Quando fruscia nel borro la lappa
E il grappolo del sorbo appassisce,
Io compongo versi gioiosi
Sulla vita stupenda ma che finisce.
Io torno. Mi lecca la mano
Il gatto, mormora e alletta,
E si accende d’un fuoco sgargiante,
Sul lago, della segheria la torretta.
Solo a volte il grido della cicogna
Che tronca il silenzio si sente.
E se alla mia porta tu busserai,
Penso che non sentirò niente.
1912
Vladimir Majakowskij (1893-1930)
Sentite un po’!
Sentite un po’!
Ma se le stelle si accendono –
significa – servono a qualcuno?
Significa – qualcuno le vuole?
Significa – quegli sputacchi per qualcuno sono perle?
E, soffocato
nelle bufere di polvere meridiana,
si precipita da dio,
teme d’essere in ritardo,
piange,
gli bacia la mano nerboruta,
prega –
che ad ogni costo in cielo ci sia una stella! –
giura –
che non sopporterà quel tormento senza stelle!
E dopo
cammina inquieto,
ma tranquillo in apparenza.
Dice a qualcuno:
“Allora adesso non c’è male?
E’ passata la paura?
Sì?!
Sentite un po’!
Ma se le stelle
si accendono –
significa – servono a qualcuno?
Significa – è necessario
che ogni sera
sopra i tetti
ci sia almeno una stella?!
1914
Bella Achmadulina (1937-2010)
* * *
Tuona sulle coffe e piove
sulle clavicole e sulla testa.
Tu mi sei capitato,
come al vascello la tempesta.
Se sarà qualcos’altro…
Io non voglio sapere –
se volerò nella gioia
o mi abbatterà il dispiacere.
Come quel vascello ,
sono divertita e spaventata…
Non mi pento del nostro incontro.
Non temo d’essere innamorata.
1955
Gennadij Shpalikov (1937-1974)
Per fortuna o per sfortuna…
Per fortuna o per sfortuna,
Semplice è la verità:
Non tornare mai
Dove sei stato già.
Anche se il nido
Sembra immutato,
Non troveremo, tu ed io,
Ciò che abbiamo lasciato.
Un viaggio di ritorno
Io vorrei negare,
Io ti prego, come fratello,
L’anima non tormentare,
O mi getterò sulle tracce –
A ridarmi come faranno? –
E in stivali di feltro andrò
Nel quarantacinquesimo anno.
Nell’anno ’45 suppongo
Là, dove – mio Dio,
La mamma sarà giovane
E vivo il padre mio.*
*Il padre del poeta, ingegnere militare, morì in combattimento il 29 gennaio 1945.
Aleksandr Pushkin (1799-1837)
All’amore ogni età è sottomessa…*
All’amore ogni età è sottomessa;
Ma ai cuori vergini e leggiadri
I suoi slanci sono salutari,
Come le bufere ai campi arati:
Nella pioggia di passioni s’infrescano,
Maturano, si rinforzano –
E la forte vita darà anzitutto
Sontuoso fiore e dolce frutto.
Ma alla svolta dei nostri anni,
Nel tempo tardo e ingrato,
Triste è l’orma morta della passione:
Come la bufera d’autunno inoltrato
Il prato intero impaluda
E il bosco intorno denuda.
1829-1830
*Da: Evgenij Onegin
Osip Mandelstam (1891-1938)
* * *
Insonnia. Omero. Le vele spiegate.
L’elenco delle navi io lessi fino a metà:
Quella lunga nidiata, quella fila di gru,
Che sopra l’Ellade un giorno si alzò.
Come un cuneo di gru verso altrui frontiere –
Sulle teste dei re la spuma divina –
Dove navigate voi? Senza Elena
Che sarebbe Troia per voi, uomini Achei?
E il mare, e Omero – tutto è mosso dall’amore.
Che dovrei ascoltare io? Adesso Omero tace,
E il Mar Nero, con eloquenza, rumoreggia,
E con greve fracasso si accosta al capezzale.
1915
Marina Cvetaeva (1892-1941)
Mi piace…
Mi piace che di me non siete malato,
Mi piace che di Voi non sono malata,
Che sempre la greve sfera terrestre
Sotto i nostri piedi è ancorata.
Mi piace che si può essere divertenti –
Dissoluti – con le parole non giocando,
E non arrossire con un’onda soffocante,
Le maniche leggermente sfiorando.
Mi piace che Voi stando con me
Tranquillo un’altra abbracciate,
E poiché io non bacio Voi,
Nel fuoco infernale non mi gettate.
Che il mio caro nome, o mio caro,
Non pronunciate mai vanamente…
Che nel silenzio della chiesa
Un alleluia per noi mai si sente!
Vi ringrazio col cuore e con la mano
Perché Voi – senza rendervi conto! –
Mi amate tanto: per la mia notte quieta,
Per i rari incontri al tramonto,
Per le non-passeggiate lunari,
Per il sole che non è su di noi, –
Perché siete malato – ahimé! – non di me,
Perché sono malata – ahimé! – non di Voi.
1915
Sergej Esenin (1895-1925)
In questo mondo sono solo un passante…
In questo mondo sono solo un passante,
Tu mi saluti con la mano lieta.
Anche un mese autunnale
Ha una luce-carezza, così quieta.
La prima volta mi scaldo da un mese,
La prima volta sono ristorato,
E di nuovo vivo e spero
Nell’amore che è già passato.
Ciò ha fatto la nostra piattezza,
Salata come la sabbia e amara,
E l’innocenza sgualcita di qualcuno,
E l’angoscia nativa a lui cara.
Per questo io per sempre ripeterò
Di non amare separatamente –
Lo stesso amore di entrambi
La nostra patria attende.
1925
Evgenij Evtushenko (1933-2017)
Tu sei grande in amore…
Tu sei grande in amore.
Hai coraggio.
Io sono timido a ogni passo.
Io non ti farò del male,
ma del bene non credo potrò.
Tutto mi dice
che mi porti in un bosco
senza sentiero.
Siamo in folti fiori fino al collo.
Non capisco –
quali fiori.
Non serve la passata esperienza.
Io non so
che fare e come.
Tu sei stanca.
Tu chiedi le mie mani.
Tu sei già nelle mie braccia.
Vedi,
il cielo com’è azzurro?
Senti,
quali uccelli nel bosco?
Allora, cosa sei?
Ebbene?
Portami!
Ma io dove porterò te?..
1953
Iosif Brodskij (1940-1996)
Io vi ho amato…
Io vi ho amato. L’amore ancora (forse
è solo dolore) mi trapana il cervello.
Tutto è andato in pezzi accidenti.
Ho provato a spararmi, ma non è facile
con l’arma. E poi: il whisky:
quale centrare? Non il tremito m’ha fermato,
ma la riflessione. Diavolo! Tutto è disumano!
Io vi ho amato a tal punto, disperatamente,
che Dio vi conceda altri – ma non lo farà!
Egli, essendo assai di più,
non creerà due volte – come dice Parmenide –
questo fuoco nel sangue e scricchiolio di ossa,
affinché i piombi nelle fauci si fondano dalla brama
Poetessa, scrittrice e traduttrice di prosa. Nacque a San Pietroburgo il 3 novembre 1895. Iniziò a pubblicare poesie nel 1915. Nel 1922 fu accusata di spionaggio ed esiliata ad Anchangel’sk. Tornò a Leningrado alla fine del 1927. Nel 1929 uscì la sua raccolta di racconti Lido d’inverno, seguita da altri libri di prosa. Fece parte del gruppo Il valico (1929-1932).
Nel marzo del 1938 fu nuovamente arrestata in una vicenda che vedeva coinvolti N. Tichonov e N. Zabolockij. Molti altri scrittori di Leningrado furono messi sotto il torchio e uno di loro – Benedikt Livshic fu fucilato. Sotto tortura Elena Tager testimoniò contro Zabolockij (testimonianza poi ritirata nel 1951). Fu condannata a 10 anni di lavoro rieducativo a Kolyma e liberata nel 1948. Nel 1951 venne arrestata per la terza volta e inviata in una località del Kazakistan. Nel 1956 tornò a Leningrado. Fu riabilitata e riammessa nell’Unione degli Scrittori. Tuttavia diversi manoscritti confiscati durante gli arresti, non sono stati ancora ritrovati.
Le sue poesie, comprese quelle dedicate ad A. Achmatova e O. Mandelstam furono diffuse nel samizdat. Nel 1965 uscirono a New York i suoi ricordi di Mandelstam. Sue poesie furono pubblicate anche all’estero e nel 1984 sono apparse anche nella “Giornata della Poesia” di Leningrado.
Morì a Leningrado l’11 luglio 1964 e fu sepolta nel Cimitero delle Vittime del 9 gennaio 1905.
Poeta, critico letterario e traduttore. Nacque a Mosca il 7 aprile 1892, dove trascorse i primi nove anni della sua vita, frequentando il Secondo Ginnasio. Suo padre, di origine polacca, col grado di maggiore generale era direttore dell’ospedale militare di Mosca. Il poeta ricorderà: «C’erano troppi militari in famiglia, i miei due fratelli maggiori prestavano servizio nell’esercito. Di me, mio padre disse: “Non c’è niente di militare in lui, quindi lasciamolo ai civili”, e così sono rimasto civile».
Dopo la morte del padre la famiglia si trasferì a San Pietroburgo, dove il poeta entrò nel Primo Ginnasio della città. Nel 1910 si iscrisse alla Facoltà di Storia e Filologia della locale Università. Mentre era ancora studente si avvicinò agli Acmeisti. I suoi primi lavori appartengono interamente all’età d’argento. Nel 1916 uscì la sua prima raccolta di poesie Nuvole. Gumiljov, pur avendo notato una evidente dipendenza da I. Annenskij e A. Achmatova, la giudicò così: «Buona scuola e gusto controllato…Non gli piace il freddo sfarzo delle immagini epiche, cerca un atteggiamento lirico nei loro confronti e per questo tende a vederle illuminate dalla sofferenza… Questo suono di una corda tintinnante è ciò che c’è di meglio e di più originale nelle poesie di Adamovič». La seconda raccolta Purgatorio, sotto forma di diario lirico, uscì nel 1922 con una dedica a Gumiljov, che allora non era più in vita e che Adamovič considerava il suo mentore. La riflessione e l’introspezione aumentarono notevolmente, apparvero motivi legati all’epopea greca antica, medievale e dell’Europa occidentale.
Dopo la Rivoluzione d’Ottobre tradusse Baudelaire e Voltaire, poesie di T. Moore e J.G. Byron, e poi in esilio J. Cocteau e A. Camus.
Nel paese in cui divampava la guerra civile, temendo di restare vittima del terrore rosso, il poeta nel 1923 decise di emigrare. Non fu difficile, perché a Nizza, in una villa di proprietà della zia, vivevano la madre e la sorella. Pensava di restarci qualche mese e poi tornare in Russia, ma non tornò più. Anziché per San Pietroburgo, partì per Parigi.
Adamovič, ritenuto un letterato “estremamente esigente con se stesso”, in tutta la sua vita ha pubblicato meno di centoquaranta poesie. All’estero la sua creazione è cambiata: per lui la poesia è diventata, in primo luogo, un “documento umano” – sulla solitudine, mancanza di radici nel mondo, ansia esistenziale, come principale caratteristica dell’autocoscienza dei contemporanei. Nell’emigrazione pubblicò due raccolte, con la mente rivolta al passato, alla Russia ricoperta di neve che è una “terra ghiacciata”, ma anche un “paradiso ghiacciato”, alla sua amata San Pietroburgo, i cui ricordi “annegano in una gelida foschia”. Scrive di essa: «C’è una sola capitale sulla terra, il resto sono solo città”.
A Parigi divenne il custode della letteratura russa in esilio e pian piano si guadagnò la fama di “primo critico dell’emigrazione”. Dal 1928 scrisse regolarmente numerosi articoli, saggi e recensioni per le riviste Ultime notizie e Legami, e fu uno dei principali collaboratori della rivista Numeri. Non si occupava solo di letteratura, ma anche di teatro, balletto e cinema, divenuto sonoro negli anni ’30.
La vita letteraria ribolliva a Parigi negli anni ’20 e ’30, e i due critici principali, Adamovič e Chodasevič discutevano su come la letteratura dovrebbe svilupparsi in futuro, quale percorso dovrebbe scegliere e come dovrebbe essere la poesia. Chodasevič predicava la massima aderenza ai canoni, in sostanza il neoclassicismo con precisione e rigore. Secondo Adamovič invece, a prescindere dalla perfezione formale richiesta da Chodasevič, nei versi doveva riflettersi in primo luogo la personalità dell’autore, che non trova più sostegno nelle tradizioni spirituali e artistiche del passato, e contrappone la “chiarezza” di Puškin all’”inquietudine” di Lermontov, che è più in sintonia con lo stato d’animo dell’uomo moderno.
In esilio Adamovič ebbe una forte influenza soprattutto sui poeti novizi. Grazie a lui si formò il gruppo cosiddetto della “nota parigina”, caratterizzato dall’ascetismo nella scelta dei mezzi espressivi e dalla ricerca della ”verità senza abbellimenti”. Lo storico e filosofo G. P. Fedotov definì questa “ricerca” di Adamovič – “peregrinazione ascetica”.
Nel settembre 1939 si arruolò come volontario nell’esercito francese e dopo la sconfitta della Francia fu internato. Nel 1951 partì per Manchester, dove per dieci anni insegnò letteratura russa all’Università.
Nel 1967 fu pubblicata l’ultima raccolta poetica di Adamovič Unità. Al tempo stesso uscì l’ultimo volume dei suoi articoli critici Commenti – saggi letterari pubblicati regolarmente dalla metà degli anni ’20.
Morì a Nizza il 21 febbraio 1972.
Poesie di Georgij Adamovič tradotte da Paolo Statuti
Conosco il prezzo delle mie poesie…
Conosco il prezzo delle mie poesie.
Ahimé, per esse è tutto ciò che sento.
Ma il trionfo di altre poesie
Io considero come un tradimento.
Attraverso digressioni, ripetizioni,
Senza tinte, senza quasi parola alcuna,
Una sola, un’unica visione,
Come dietro le nuvole – la luna.
Ora scompare, ora balena,
Ora si offusca leggermente,
Ora rischiara con luce serena,
E immutabile si concilia
Con la lingua impotente.
1915
L’unica cosa che amo è il sonno…
L’unica cosa che amo è il sonno.
Che piacere, che pace ogni giorno!
Le campane si sentono appena,
La nebbia blu immobile intorno…
Oh, poter sapere di sicuro,
Che la vita è una e un’altra non avrai,
Che nell’eternità dormiremo per sempre,
Che nessuno ci sveglierà mai.
1915
* * *
Per la parola che un tempo ricordavi
E poi per sempre hai dimenticato,
Per tutto ciò che nei fuochi del tramonto
Tu cercavi e non hai trovato.
E per la disperazione del sogno,
E il gelo che cresce nei petti,
E il morire lentamente,
Quando più nulla ti aspetti,
Per il bianco suono della salvezza,
E dell’amore l’oscuro suono,
Per tutte le colpe e i reati
Tu riceverai il perdono.
1917
Non è te che amavo, ma il sole, la luce…
Non è te amavo, ma il sole, la luce,
Lo stridìo delle cicale, l’azzurro mare.
Io amavo ciò, di cui in te non c’è traccia.
Io in un spazio che non si può immaginare
Amavo. Io la delizia solare
Amavo. Tu cosa puoi sapere?
Cosa puoi raccontare
Ai venti, ai lampi, alle comete, alle bufere?
Sì, a me girava la testa
Per il cielo, l’amore, per questo uliveto…
Ebbene sì, sono parole.
Ebbene sì, è letteratura…Più concreto? –
C’era un giardino al buio e la brezza dall’alto,
Due o tre stelle, – cosa non è facile in questo?
C’era una voce lontana : “No, solo
Chi ha conosciuto…”* – in risposta a me stesso.
“No, solo chi…” Capisci, io non posso essere
Più chiaro, facendo degli ultimi sogni a meno,
Io sto salpando, io sto sulla riva
Di un altro mare, non un mare terreno.
Io non te amavo. Ma se là
Dove tutto nasce e decede,
Tu a nuove pene, a nuovi cieli
Umile, pian piano…no, non succede…
Ma se tuttavia…non sarà, menzogna…
Da una incarnazione all’altra tu tornerai,
Ombra tremenda, irriconoscibile,
E davanti a me un giorno passerai,
Dal profondo dei secoli io griderò: sì!
Da milioni di anni, come questo momento,
Come sole dell’eternità, oh, per sempre,
Con tutta la vita e tutta la morte: rammento!
1931
*Sono parole di una celebre romanza di Čajkovskij su testo del poeta e drammaturgo Lev Mej (1822-1862). Questa è la prima strofa della poesia in questione, tratta da Goethe:
Solo chi la sete dell’incontro
Ha conosciuto,
Capirà come io soffro
E come soffrire ho dovuto.
O vita! Che mi aspetto da te, – non so
O vita! Che mi aspetto da te, – non so.
Si è placata la tristezza della prima età.
Ma di tediarsi così, come ora io mi tedio,
Dio alla gente giammai ingiungerà.
E se da qualche parte vive e respira
Qualcuno datomi per sempre dalla sorte,
Perché non viene da me, perché non sente
La mia voce che risuona ancora forte?
Due enormi occhi neri e offuscati
E due enormi funebri ali soltanto,
Hanno steso un’ombra dall’azzurro Caucaso
Sulla mia vita e su ciò che io canto.
* * *
Ascolta – e in vaghe congetture non mentire.
La notte è vicina, quale non puoi presagire!
Bisogna incontrarla con rispetto,
Per quanto il tuo cuore si sia stretto.
Ascolta te stesso, non ascoltare la gente.
La musica del mondo sempre meno si sente.
Cosmo, voli, entusiasmi, guerre da fare, –
La vita, dicono, deve cambiare.
(Sì, è così…Ma voi non avete capito:
“Non essere notato, non essere sentito”).*
*Letteralmente in russo: “Più quieto dell’acqua, più basso dell’erba”.
Di tutto, di tutto grazie. Per la guerra…
Di tutto, di tutto grazie. Per la guerra,
Per la rivoluzione e per essere esiliato.
Per un paese indifferente e luminoso,
Dove ora “vivacchiare” ci è dato.
Non c’è destino più dolce che perdere tutto.
Non c’è sorte più lieta che vagabondare,
E al paradiso questo è il posto più vicino esistente,
Stanco di annoiarmi, stanco di respirare
Senza forze, né soldi, né amore,
A Parigi…senza niente.
1931
Quando in Russia torneremo, quando…o Amleto d’oriente? –
* * *
Quando in Russia torneremo, quando…o Amleto d’oriente? –
A piedi, con centigradi di gelo, per strade divelte,
Senza cavalli, né trionfi, senza osanna, appiedati,
Solo per sapere che ancora in tempo ci saremo trascinati…
Quando in Russia…ondeggia la gioia nel delirio…in ospedale…,
Come se “Quanto glorioso”* sonassero in un giardino del litorale,
Come se attraverso le bianche pareti, nella nebbia del mattino,
Vacillassero esili candele nel gelido e assopito Cremlino.
Quando… basta, basta. Lui infermo, esausto e spogliato.
Su di noi sventola il tricolore – vessillo spiantato,
Qui c’è troppo odore di etere, si soffoca, è troppo caldo.
Quando in Russia torneremo…ingombra di neve… quando?
È ora di prepararci. Albeggia. È ora di metterci in marcia.
Due monete di rame sugli occhi. Sul petto incrociate le braccia.
1936
*Inno scritto nella primavera del 1794 dal compositore Dmitrij Bortnjanskij
su versi di Michail Cheraskov, ampiamente eseguito come inno non ufficiale dell’impero russo. Musica meravigliosa e toccante che consiglio di ascoltare in YouTube.
Il proprietario dietro il banco guarda come sempre, assonnato
Il proprietario dietro il banco guarda come sempre, assonnato,
Il cameriere presso un tavolino sta scrivendo il conto.
Incessanti, importuni, turbolenti
L’uno con l’altro – fuoco e fumo – un continuo scontro.
Non per amore amare, non di vino essere ubriachi.
Cosa sa un uomo che se stesso non resta?
Egli ride sul bicchiere svuotato,
Egli dice qualcosa, dondolando la testa.
Per ciò che non è avvenuto, per trent’anni solo,
Per la sera che presso il fuoco stava,
Ancora per l’angelo… e quegli altri suoni…
A mezzanotte…oltre il cielo volava!
Egli ha perso la partita, di essa ha risposto,
E’ ora di tornare a casa. Nessuna speranza.
– Spietatamente bianco e luminoso
In una striscia di ghiaccio il giorno avanza.
* * *
E perfino la notte insieme con Čajkovskij
Nel suo silenzio cantava tristemente
Che tutto è condannato,
Che non c’è un limite per niente.
Alla memoria di Marina Cvetaeva*
Parliamoci almeno adesso, Marina!
In vita non ci fu dato. Tu non ci sei ora.
Ma sento chiara la voce di un cigno,
Messaggero di sventure e di gloria.
In vita non ci fu dato. Non per colpa mia.
La letteratura è come all’inferno entrare,
E io con gioia entravo, non lo nascondo,
Là da dove nessuno può tornare.
Non per colpa mia. Quanta pena nel mondo.
Ma sai, neanche io ti incolpo di qualcosa.
Tutto è solo per caso, tutto è involontario.
Vivere è bello. Vivere è una cattiva cosa.
*In vita i due poeti furono in disaccordo e si criticarono reciprocamente. Questa poesia, scritta dal poeta poco prima della sua morte, è un toccante ricordo e un sincero omaggio alla grande poetessa russa.
Alcuni anni fa, in preda al fascino autunnale, ho scritto questa breve poesia:
Amo la primavera,
ma mi commuove l’autunno,
che nasce
dal caldo grembo dell’estate
e muore
nel freddo abbraccio dell’inverno.
Ma come me, quanti poeti sono stati ispirati da questa romantica, dolce e malinconica stagione! Guardo il mio tiglio che pian piano si spoglia, mostrandomi i mille bracci nudi e promettendomi che tornerà a vestirsi in primavera. Guardo la nebbia al mattino, squarciata dalle frecce del sole, non più spavaldo e aggressivo come d’estate, ma più modesto e tranquillo. Tra le citazioni lette sull’autunno, queste tre mi hanno colpito in modo particolare:
“Lascia che la vita sia bella come i fiori d’estate e la morte come le foglie d’autunno” (Rabindranath Tagore)
“In autunno non andate dai gioiellieri per ammirare l’oro, andate nei parchi”
(Mehmet Murat Ildan)
“Tutti dovrebbero trovare il tempo per sedersi e guardare le foglie che cadono” (Elizabeth Lawrence)
Ho deciso di riunire in un unico post tutte le poesie sull’autunno che ho tradotto e pubblicato nel mio blog nel corso degli anni. Ecco come questa stagione ha ispirato tanti poeti, fornendo loro spunti e impressioni diverse:
Poesie sull’autunno tradotte da Paolo Statuti
Anna Achmatova (1899-1966)
I tre autunni
I sorrisi dell’estate io vedo confusi
E d’inverno non troverò segreti,
Ma osservavo quasi senza errore
Tre autunni in ogni anno compresi.
Il primo come disordine festivo
Per dispetto all’estate di ieri,
Come pezzi di notes – di foglie un turbinio,
E l’odore del fumo come dolce incenso,
Intorno – umido e sgargiante, un luccichio.
E prime a danzare sono le betulle,
Indossata la veste trasparente,
Scosse le lacrime fugaci su una vicina
Oltre la siepe prontamente.
Ma ciò accade – appena iniziato il racconto.
Un solo minuto – ed ecco sornione
Giunge il secondo, incurante, come coscienza,
Fosco come aerea incursione.
Tutte sembrano più bianche e più anziane,
È devastata l’estiva intimità,
E la marcia lontana delle trombe dorate
Nella profumata nebbia scorre e va…
E nelle fredde onde del suo incenso
È racchiusa la volta arcana,
Ma il vento si leva, si spalanca –
E a tutti è chiaro: fine del dramma,
E non è il terzo autunno, ma la morte che chiama.
1943
Josif Brodskij (1940-1996)
Canto di ottobre
La quaglia impagliata sulla mensola del camino. Il vecchio orologio che batte preciso, rallegra di sera le membrane schiacciate. L’albero dietro la finestra – cupa candela.
Da quattro giorni il mare romba contro il molo. Metti da parte il libro, prendi l’ago; rammenda i miei panni, senza accendere il lume: la luce è nell’angolo dai tuoi capelli d’oro.
1971
Marija Furmanskaja
Storia di un’anima
“Un giardino in autunno…Una panchina bagnata.
E le foglie spazza via a fatica
Lo stanco custode nel suo giaccone liso,
E sotto la panchina c’è un’anima attrappita…
Sì, sì – un’anima come tante, solo che
E’ bagnata e il freddo la fa tremare,
E ricorda il proprietario che aspramente
Disse: «Anima, tu non mi fai campare…
Tu soffri per ogni zanzara uccisa,
Ti contrai per il pianto di un bambino,
Al primo gatto dai la mia colazione –
Vivere con te è un triste destino…
Da tempo sono stanco di piangere.
Ti prego, va’, senza te io felice sarei».
E se ne andò nel fango di settembre,
E la pioggia piangeva assieme a lei.
Vagava a lungo nei cortili bagnati,
Nelle finestre e negli occhi guardava.
L’autunno batteva su di lei coi rami,
E sonoro con la sorte il maltempo litigava.
Un giardino in autunno. Una panchina bagnata.
E le foglie di nuovo frusciano cadendo…
Il custode nel giubbotto ha finito il lavoro,
E sotto la panchina l’anima sta morendo…”
Konstanty Ildefons Gałczyński (1905-1953)
Ecco vedi, di nuovo arriva l’autunno
Ecco vedi, di nuovo arriva l’autunno – si vorrebbe solo dormire beatamente… Metti il tuo anello di smeraldo: la luce verde brillerà piacevolmente.
L’estate come condannata si piega sotto la scure dell’autunno insanguinata – ma noi vediamo la primavera nella gemma, sul tuo dito, nell’anello incastonata.
1937
Ivan Gruzinov (1893-1942)
Autunno. Boscaglia. Vago senza meta…
Autunno. Boscaglia. Vago senza meta.
Si fa sera. Si spegnerà presto
L’arco giallo del tramonto.
Oltre il burrone si fredda il deserto.
Al di là – i campi arati. Il corpo della terra
Dondola col ventre arrossato.
Fruscia col cupo fogliame
Un vecchio ontano dimenticato.
Odore di resine. Batte ritmica la pala.
Stringendo il cappio cadrò.
Madre-terra! non spunterò come il grano.
Una stellina sul campo non accenderò.
Che m’importa di chi mi segue!
Per loro la pena di vivere non vale.
Ecco soltanto io col fardello terra
All’ultimo funesto cavezzale.
1925
Julia Hartwig (1921-2017)
Novembre
Le gambe immobili dei salici sull’acqua
mentre i rami immersi vorrebbero scorrere via
qualcuno invisibile suona il flauto
ma sul ponte non si vede nessuno
A che scopo tornare qui dopo anni
e come sopportare questo equilibrio di bellezza
questo vasto cielo che sulle spalle reggono
le distinte case dell’Isola di San Luigi
Sul fiume naviga un battello con lieve ronzio
un acrobata prova un difficile salto sulla riva
vibra la pelle toccata dal sole
e un blando respiro dell’aria ti accompagna
attraverso novembre e la sua scia di foglie
Non parlare di ciò che qui hai lasciato
non parlare di ciò che ricordi
in questo fiume sono annegati migliaia di cuori
con la nebbia dei ricordi si potrebbe spartire un continente
Milada Kowalewska (1918-2011)
Fuga nell’autunno
A Danka Wiśniewska
Là dove
ottobre
in società col vento
la sua moneta
conia senza tregua
per una carezza
– appena imbrunisce –
frusciando, sul fondo
della zecca scivolano
le anime degli animali
verso la dimora
— — — — — — —
(E’ piuttosto difficile
accogliere un’ombra
in modo che la gioia della visita
sia reciproca)
E così ogni sera
finché
invece delle foglie
comincerà a cadere la neve
(Delle segrete forze della neve
parlerò altrove)
Natal’ja Kugusheva (1899-1964)
* * *
Caro, mio caro, l’autunno
Il corno ha sonato forte.
Cielo e terra ha dipinto Vrubel’
E condannato a morte.
Caro, mio caro, già il sole-falco
La sua preda attende.
E la sera piume scarlatte
Per l’oracolo, solerte prende.
Caro, mio caro, il cui arco
A guardia di frecce roventi sta,
Verso quali paesi la via
L’altrui mira ci mostrerà?
Caro, mio caro, l’autunno
Ci suona un corno sventurato.
E il tamburello di rame del vento
Tra le strade ha indugiato.
Michail Lermontov (1814-1841)
Sole d’autunno
Io amo il sole d’autunno, quando Tra nuvole e nebbie si fa largo, E getta un pallido morto raggio Sull’albero cullato dal vento, E sull’umida steppa. Io amo il sole, C’è qualcosa nello sguardo d’addio Del grande astro simile all’occulta pena Dell’amore tradito; non più freddo Esso è in sé, ma la natura E tutto ciò che può sentire e vedere, Non provano il suo calore; così è Il cuore: in esso è ancora vivo il fuoco, Ma la gente un giorno non lo capì, E da allora negli occhi brillare non deve, E le guance non sfiorerà in eterno. Perché di nuovo il cuore sottoporre A parole di dubbio e allo scherno?
1831
Apollon Majkov (1821-1897)
* * *
Le foglie d’autunno volteggiano al vento,
Le foglie d’autunno urlano di spavento:
“Tutto muore, tutto muore! Sei nero e spogliato,
La tua fine è giunta, o bosco tanto amato!”
Non ascolta lo spavento loro il bosco maestoso.
Sotto l’azzurro cupo del cielo rigoroso
Egli viene avvolto da sogni così grandi
Che per la nuova primavera avrà forze bastanti.
1863
Peretz Markish (1895-1952)
Autunno
Là le foglie non frusciano in segreta angustia,
E, arricciate, giacciono e sonnecchiano al vento,
Ma ecco una dal sonno si è mossa sulla strada,
Come un topo dorato – a cercare la sua tana.
E il giardino non vigila – entri pure chi vuole,
Là bufere, freddo, pioggia sghemba e sferzante,
E – nessuno. Solo la tristezza qui le lacrime sparge,
Ma ecco esitante mi giunge un ronzio.
Un’ape cammina in fretta sulla soffice rena.
Dal pesante cerchio il ventre è stretto,
E striscia tra un monticello e un ceppo
E con spasimo a un tratto si rizza sulla testa,
E le alucce a un tratto solleva di traverso,
Come ombrello rotto, esse si protendono,
E la morte già si sente nel ronzio affrettato…
Per l’autunno il silenzio passa nel giardino.
1948 (Dalla versione di A. Achmatova)
Nikolaj Ogarjov (1813-1877)
In autunno
Com’erano cari nella delizia primaverile –
La soffice freschezza delle erbe verdeggianti
E i profumati germogli delle giovani foglie
Dei querceti destati sulle fronde oscillanti,
E del giorno i caldi e soavi splendori,
E il dolce intreccio di accesi colori!
Ma siete voi tinte d’autunno le più amate,
Quando il bosco stanco le foglie dorate
Con un sussurro spazza via dal campo falciato,
E il sole più tardi dall’altezza abbandonata,
Guarda, pieno di luminoso sconforto…
Così tace e illumina un placido ricordo
I sogni passati e la felicità passata.
1857
Boris Pasternak (1890-1960)
Bosco autunnale
Il bosco autunnale s’è chiomato.
In esso ombra, sonno e quiete.
Scoiattolo, picchio e civetta,
Dal suo sonno non lo desterete.
E il sole per i viottoli autunnali
Entrando in esso a fine giornata,
Intorno sbircia con apprensione,
Se non ci sia una tagliola celata.
In esso pantani, tremule e gibbosità,
E muschi e macchie d’ontano,
E là, oltre il terreno fangoso,
Cantano i galli da lontano.
Un gallo il suo grido strombazzerà,
Poi di nuovo una lunga interruzione,
Come fosse intento a meditare
Che senso abbia quella intonazione.
Ma in un cantuccio remoto
Un vicino prenderà a chicchiriare.
Come sentinella nella garitta,
Il gallo la sua risposta vuole dare.
Essa risonerà come un’eco,
Ed ecco che insieme tutti i galli,
Segneranno con la gola come biffa,
I quattro punti cardinali.
Dopo l’appello del gallo
Si aprirà il bosco alle estremità,
E i campi, la distanza e il blu dei cieli
Come fossero cosa nuova esso rivedrà.
1956
Maria Pawlikowska-Jasnorzewska (1891-1945)
Autunno
Va con uno scialle rosso e splendente.
Si specchia nell’ovale dello stagno.
Ma è malato. E non sa minimamente
che in quello scialle lo seppelliranno.
1924
Wacław Rolicz-Lieder (1866-1912)
Quando le campane svizzere eseguono una sinfonia: Oremus!
A Grindelwald-Lauterbrunnen, sulle radure delle Alpi Bernesi gli uccelli di neve,
in uno stormo grande come il mondo intero, si appigliano ai cigli delle rocce
scheggiate, e si sciolgono nelle cascate e nelle rapide montane.
I sentimenti di mia Sorella sono bianchi come gli uccelli di neve.
I pastori scendono a valle dietro gli armenti, e le mucche avanzano facendo
risonare la musica di vetro delle campanelle appese ai loro colli.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
Da ogni parte scendono i pastori riunendosi tra loro, la mandria s’ingrossa sempre più, cresce di unità, di decine, di centinaia, come valanga che cade
dalla vetta della Jungfrau.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
Mille mucche procedono sulla larga strada; la strada che percorrono odora
di stalla; ad esse si aggiungono altre mille e ancora mille.
Le facce degli alberi sono chiazzate di rosso.
Un sordo scampanellio riempie l’aria; gli abitanti dei villaggi adiacenti gremiscono le facciate, attirati dall’orchestrina delle mucche.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
Sui beni terreni regna la libertà.
Interlaken.
Robusti odori profumano l’aria.
Una fiera passione divora i nati in Autunno.
Bagliori rossodorati, cadendo dagli alberi, emettono un suono metallico.
I nomi delle pensioni non hanno l’anima.
Le rovine dei ricordi sono piene d’impiccati!
I pastori della comunità religiosa favellano nella valle, canuti vescovi sono
in mezzo a loro.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
Il cielo è malcoperto di rame.
Una donna statuaria mi bacia sulle labbra.
Ville abbandonate e chiuse fanno pensare a un cuore dopo l’ultimo Amore.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
Un numero enorme di armenti inonda i dintorni.
La luce pomeridiana è come il sorriso di una moglie adultera che muore.
Bambini rubizzi raccolgono castagne color mogano.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
Passo per i giardini marocchini dell’infanzia.
Chi dipingerà il paesaggio? Colui che dirà una parola che riassume tutto.
Il patriarca dei pastori, poggiate le mani su un bastone, racconta la morte
di suo figlio.
Bagliori rossodorati, cadendo dagli alberi, emettono un suono metallico.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
Tappeti di magnati ricoprono i prati.
Le narici delle donne, che hanno nervi, fremono al ricordo del petto peloso
di un uomo.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
E’ triste per un pastore morire nello scampanellio delle mucche svizzere.
Nei bazar di Bagdad sono distesi i tappeti davanti ai clienti.
Le mucche con sguardo filosofico osservano le valli.
Le giarrettiere delle mie amate si sono inebriate di amore dell’Autunno.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
E chi non s’inginocchia davanti alla sincerità, stia lontano dalla Poesia.
Il vento arruffa il nero boa di una dama che passa.
I pastori prendono il formaggio dai cestelli, coi coltellini tagliano tonde fette
di pane.
La gente in momenti diversi professa fedi diverse: Io ho la fede del Silenzio.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
La famiglia si mette a tavola alla luce di una lampada.
E chi nell’anima artificiale dell’Autunno con violenza i propri sensi non introduce – non toccherà l’epico petto dell’amante.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
Sento il profumo del vapore che si diffonde da un piatto di patate schiacciate.
Bacerei l’Autunno attraverso le labbra di una donna, che in questo istante
volesse essere mia.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
Magnifico è il poeta nel paganesimo dei propri sentimenti.
La più grande preghiera dell’Autunno è vezzeggiare una donna avvolta nella
pelliccia.
Nell’Universo un’enorme musica di accompagnamento:
Primo violino – un lungo soffio di vento.
Contrabbassi – il corso di torrenti impetuosi.
Violoncelli – la mia mente e il mio cuore.
Flauto e clarinetti – la voce lontana di bambini.
Tamburello – le campanelle delle mucche svizzere.
Tromba cromatica – il jodler dei pastori.
Organo – il rombo di lontane cascate.
Viole d’amour – il metallico fruscio degli alberi.
Vox humana – sento la voce della mia amata…
Vox humana – la Natura intera, la Natura!
– Osanna!
Boris Ryžij (1974-2001)
Autunno
Le rape dal campo erano già raccolte,
bietole, patate, tutto era già ammassato.
Sullo sfondo del cielo che si distendeva
cadeva la prima neve e il cuore era turbato.
Seguivo la neve, pensando a
chissà cosa, le betulle mi seguivano.
Con l’azzurro si mescolava l’argento,
argento e azzurro si mescolavano.
1999
Fjodor Tjutčev (1803-1873)
Sera d’autunno
Nel chiarore delle sere autunnali C’è un dolce misterioso incanto: Il tetro brillìo degli alberi screziati, Il mesto fruscìo delle foglie amaranto. L’azzurro offuscato e silenzioso, Sulla terra che orfana diventa, E, come presagio di vicine bufere, A volte un freddo impetuoso vento. Stanchezza, sfinimento – e su tutto Il mite sorriso dell’appassire, Che in un essere ragionevole si chiama Il nobile pudore del soffrire.