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Vladimir Majakovskij: A Sergej Esenin

8 Dic

 

Sergej Esenin

Sergej Esenin

Vladimir Majakovskij

Vladimir Majakovskij

 

Ve ne siete andato,

come dicono,

all’altro mondo.

Il vuoto…

Volate,

imprimendovi nelle stelle.

Nemmeno una bettola,

nemmeno un acconto.

Lucidità.

No, Esenin,

no,

non vi sto beffando.

Ho l’amarezza

in bocca –

non l’ilarità.

Vedo –

Il polso reciso piegando,

delle vostre

ossa

il sacco oscillate.

– Smettetela!

Fermatevi!

Avete perso la testa?

Lasciare

che le guance

inondi

il gesso mortale?!

Voi

che in ogni occasione

sapevate cavarvela

come nessun altro

al mondo

sapeva.

Perché allora?

Perché?

Costernazione!

I critici barbugliano:

– Tutta colpa

di questo…

di quello…

e – principale ragione –

lo scarso legame,

e il risultato? –

molta birra e molto vino. –

Dicono,

dovevate lasciare

la bohème

e unirvi alla classe,

con la classe voi

non avreste fatto scenate.

Perché, la classe

la sete

spegne con le aranciate?

Anche la classe beve

e come!

Dicono,

se vi avessero affidato

a qualcuno di “Na postù” –

il vostro contenuto

sarebbe stato

assai più pregevole.

Voi

avreste scritto

cento strofe

al giorno,

lunghe

e stucchevoli,

come Doronin.

Ma io penso,

che giunto

a tale paranoia,

vi sareste tolto

la vita prima.

Assai meglio

è morire di vodka,

che di noia!

Non ci sveleranno

mai

le cause di questa morte

nè il laccio,

né il temperino.

Ebbene,

si fosse trovato

l’inchiostro all’”Angleterre”,

non avreste avuto motivo

di tagliarvi

le vene.

Si sono rallegrati i plagiari:

bis!

Poco è mancato

che litigassero

tra loro.

Perché mai

aumentare

il numero dei suicidi?

Meglio

produrre

più inchiostro!

Per sempre

adesso

la lingua

si chiuderà tra i denti.

Pesa

ed è fuori luogo

risvegliare l’arcano.

Per la gente,

per chi crea il linguaggio,

è morto

un rinomato

beone artigiano.

E portano

rottami funebri di versi

di precedenti

funerali

senza niente cambiare.

Nel tumulo

ottuse rime

conficcano come paletti –

ma è così

che un poeta

si deve onorare?

A voi

un monumento non hanno fuso ancora, –

dov’è,

di bronzo sonante

o di granita fattura? –

e nei recinti della memoria

già

hanno portato

di dediche

e di ricordi la lordura.

Il vostro nome

sbavano nei fazzolettini,

la vostra parola

insaliva Sobinov

e intona

sotto una marcia betulla –

“Non una parola,

o ami-ico mio,

non un sospi-i-i-i-ro”

Ah,

parlare in altro modo

con questo

Leonid Lohengrinyč!

Alzarsi qui

come rombante attaccalite:

– Non permetterò

di balbettare

e storpiare i miei versi! –

Rintronarli

con un fischio

a tre dita

alla nonna

e a Dio all’anima alla madre!

Per spazzar via

l’incapace gentaglia,

gonfiando

loro

le vele delle giacche,

perché

preso dal panico

Kogan scappi via,

i passanti

ferendo

con le picche dei baffi.

La lordura

finora

si è poco diradata.

C’è molto da fare –

occorre sbrigarsi.

La vita

bisogna

prima rifarla,

e rifatta –

la si può decantare.

Questo tempo –

è difficile per la penna,

ma ditemi

voi,

mostri e storpiati,

dove,

quando,

quale grande ha mai scelto

una strada

più battuta

e più facile?

La parola

comanda

la forza umana.

Avanti!

Che il tempo

dietro di noi

scoppi come cento granate.

Dei vecchi giorni

il vento

ricordi

soltanto

le chiome arruffate.

Per l’allegria

il nostro pianeta

è male attrezzato.

Bisogna

strappare

la gioia

ai giorni che verranno.

In questa vita

morire

non è arduo.

Vivere

è assai più complicato.

 

1926

 

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

Vladimir Majakovskij e Sergej Esenin – due grandi poeti in continuo dissidio tra loro, e non poteva essere diversamente: il primo – membro fondatore del LEF (Fronte di Sinistra delle Arti), cantore del proletariato, definito il “gigante fragile”, devoto in amore, modesto e costumato nei rapporti umani, rivoluzionario autentico che si batteva per la libertà totale dell’individuo da ogni oligarchia; il secondo – geniale poeta contadino che non tollerava rivali, “eroe” della bohème moscovita, sfrenato bisessuale con una vita turbolenta e disordinata come pochi…

L’atteggiamento negativo di Esenin verso Majakovskij è stato sottolineato da diversi letterati della cerchia di quest’ultimo. Il critico e storico della letteratura V.B. Šklovskij, ad esempio, afferma che «a Esenin non piaceva Majakovskij e strappava i suoi libri, se li trovava in casa». Il poeta V.S. Roždestvenskij definisce «strani» i rapporti tra i due poeti: «C’era tra loro una ostilità che non si attenuava mai. Per Majakovskij Esenin era un evidente “male lirico”. Polemizzando con quest’ultimo e con il suo entusiastico uditorio, giudicava con ironia

gli incontri poetici del rivale. L’irascibile ed estremamente permaloso Esenin non glielo perdonò mai». Ed ecco una testimonianza del poeta proletario N. Poletaev: «Una volta, durante un ricevimento presso la Casa della Stampa, a capodanno, dopo aver abbondantemente bevuto, Esenin importunava Majakovskij, gridandogli quasi piangendo: «La Russia è mia, capisci? – mia, e tu…tu sei americano! La Russia è mia!» Al che Majakovskij rispose tranquillamente: «Prego, prendila pure! Mangiala col pane!»

Non è un segreto per nessuno che Majakovskij si riteneva un genio, e di conseguenza considerava la creazione degli altri poeti, inclusi i classici della letteratura russa, con un certo disprezzo. Alcuni li criticava apertamente, altri li derideva, altri ancora li tacciava di grafomania, in quanto le loro opere non avevano alcun valore per le generazioni future. Nei confronti di Esenin il suo atteggiamento era assai controverso, riconosceva in lui il talento letterario, ma non poteva accettare la mancanza di idee e di principi in questo “rinomato beone artigiano”, ritenendo che Esenin avrebbe dovuto usare il suo ingegno non per descrivere le bellezze della natura russa, ma per il bene della rivoluzione.

Malgrado ciò, dopo la tragica morte di Esenin, Majakovskij riesaminò il suo giudizio sulla vita e la creazione del poeta contadino, tanto che nella primavera del 1926 scrisse la famosa poesia “A Sergej Esenin”, da cui emergono sentimenti diversi: rammarico, costernazione, comprensione…Non intendo fare qui un’analisi di questa poesia, mi limiterò quindi a richiamare l’attenzione sulla strofa finale, che è una polemica parafrasi delle famose parole  dell’ultima poesia di Esenin: «In questa vita morire non è nuovo,/ma più nuovo non è neanche vivere”. Quando Majakovskij scrisse questa poesia la versione ufficiale della scomparsa di Esenin era il suicidio, ed egli non poteva prevedere che un giorno essa sarebbe stata messa in dubbio. Egli era convinto che Esenin si fosse tolto volontariamente la vita, perché non aveva saputo trovare il suo posto nella nuova società. Oggi, dopo la pubblicazione dei documenti della GPU, dove risulta che il poeta sarebbe stato assassinato, anche l’autenticità della celebre lettera scritta da Esenin col proprio sangue, in mancanza dell’inchiostro, prima di morire, viene messa in discussione, e si pensa che sia stata architettata per avvalorare la tesi del suicidio. Esenin con la sua vita sregolata, con le sue critiche al potere sovietico, con la sua rabbia per quanto riguardava la popolazione contadina che si sentiva delusa e tradita dalla rivoluzione – era diventato un personaggio molto scomodo per il regime. Del resto, alcuni particolari relativi al corpo appeso al tubo del riscaldamento, fanno propendere per la tesi dell’omicidio: la mano era in una posizione innaturale, come se avesse cercato di sollevarsi per non essere strozzato, il laccio non era ben stretto, i graffi sul braccio destro e una contusione sotto l’occhio sinistro, farebbero pensare a una disperata colluttazione con i suoi sicari, anche se probabilmente era ubriaco. L’autopsia rivelerà inoltre che la spina dorsale era spezzata, come se qualcuno gli avesse afferrato le gambe e lo avesse tirato giù con forza mentre era appeso.

E il “suicidio” di Majakovskij? Sospetti e mistero hanno sempre circondato la sua morte. Secondo la tesi più credibile, egli fu istigato al “suicidio” dalla polizia politica di Stalin, se non si trattò invece di un vero e proprio omicidio. Il regista Aleksandr Dovženko, che era con Majakovskij alla vigilia della morte, ricorda: «Eravamo seduti insieme in giardino, tutti e due abbattuti, lui spossato dalle nullità, dai ruffiani, dai cannibali e dagli speculatori…» Con i suoi attacchi ai burocrati che, a suo avviso, “strangolavano” la rivoluzione, nel 1930 Majakovskij aveva perso del tutto i precedenti favori del regime staliniano. Tra le altre cose resta un mistero la pistola fornita al poeta dalla GPU. Egli ne fu sorpreso e voleva restituirla, ma gli agenti insistettero perché la tenesse, facendogli capire che tali erano le “disposizioni”. In conclusione Majakovskij e Esenin, due poeti rivali così diversi tra loro, per ironia della sorte furono accomunati da una morte simile.

Ma quanti altri poeti russi sono morti tragicamente! E’ incredibile quanti abbiano risposto al mio lugubre appello:

 

Kondratyj Ryleev, decabrista, impiccato nel 1826, 31 anni

Aleksandr Griboedov, trucidato a Teheran nel 1829 da fanatici musulmani, 34 anni

Aleksandr Puškin, morto in un duello-farsa nel 1837, 38 anni

Michail Lermontov, morto in duello nel 1841, 26 anni

Nikolaj Gumiljov, fucilato nel 1921, 35 anni

Sergej Esenin, suicidio-farsa nel 1925, 30 anni

Vladimir Majakovskij, suicidio-farsa nel 1930, 37 anni

Nikolaj Kljuev, fucilato nel 1937, 53 anni

Sergej Klyčkov, fucilato nel 1937, 48 anni

Pavel Vasil’ev, fucilato nel 1937, 27 anni

Nikolaj Olejnikov, fucilato nel 1937, 39 anni

Piotr Orešin, fucilato nel 1938, 51 anni

Boris Kornilov, fucilato nel 1938, 31 anni

Osip Mandel’štam, morto in un gulag nel 1938, 47 anni

Marina Cvetaeva, morta suicida nel 1941, 49 anni

Michail Golodnyj, morto nel 1949 in un incidente automobilistico, 46 anni

Nikolaj Rubcov, ucciso nel 1971 dalla fidanzata, 35 anni

Aleksandr Galich, ufficialmente ucciso nel 1977 da una scarica di corrente elettrica

nella sua abitazione di Parigi, ma secondo un’opinione diffusa la sua morte è stata

un omicidio o un suicidio, 59 anni

 

Come spiegarlo? Perché i poeti – è comprensibile. Essi sono più sognatori, impressionabili, irrazionali delle altre persone. Cioè – più vulnerabili. Ma perché proprio i poeti russi? Non c’è nessun altro paese in cui tanti poeti siano deceduti di morte violenta. A mio avviso si possono individuare tre cause. La prima è politica: la crudeltà dei regimi zarista e sovietico, responsabili direttamente o indirettamente. La seconda è psicologica. Qualcuno ha scritto: «L’anima del poeta è irrazionale. L’anima russa è irrazionale. L’anima del poeta russo è dunque doppiamente irrazionale». La terza causa è fatale, cioè è voluta da un tragico fato che come una maledizione agita le sue nere ali sulla poesia russa.

 

                                                                                                                Paolo Statuti

 

(C) by Paolo Statuti

Monumenti a confronto: Aleksandr Puškin e Vladimir Majakovskij

14 Mag

pushkin
images (53)

Vladimir Majakovskij – l’istrione buono, il gigante scomodo, il profeta della verità, nel 1930 doveva aver fiutato aria di morte, per scrivere il suo poema-testamento, il suo messaggio ai posteri. Esso è un’infocata protesta contro tutto ciò che egli considera sbagliato, sconsiderato, inutile. Egli vuole che il lettore lo ascolti, che la sua poesia sia tramandata alle generazioni future. Il poeta protesta per il bene della gente. Si definisce “fognaiolo”, cioè colui che pulisce le fogne del mondo, che ne mostra il lato più sporco e ripugnante, e urla “a tutta voce” contro l’assoluta indifferenza dei contemporanei e la loro inerzia per la conquista di una vita migliore.
Il poema “A tutta voce” si può equiparare alla celebre poesia “Mi sono eretto un monumento” di Aleksandr Puškin. Entrambi i poeti volevano lasciare la loro impronta, entrambi lottavano per la libertà e la giustizia. Majakovskij contro la “melma” del mondo, Puškin contro la “plebaglia”. E’ significativo che i due componimenti poetici siano stati scritti alle soglie della morte dei due grandi poeti, e che entrambi abbiano pagato con la vita la loro utopistica aspirazione.
Eccoli nella mia traduzione.

Mi sono eretto un monumento non di opera umana…
(Я памятник себе воздвиг нерукотворный…)

Exegi monumentum
Mi sono eretto un monumento non di opera umana,
Non s’infesterà il sentiero che vi si avvicina,
Con la testa indocile s’è innalzato più alto
Della colonna alessandrina.

No, non morirò del tutto – l’anima nella diletta lira
Sfuggirà le ceneri, la putrefazione certamente –
E sarò famoso, finché nel mondo sublunare
Anche un solo poeta sarà presente.

Parleranno di me in tutta la grande Rus’,
E mi nomineranno nei loro propri linguaggi,
Il fiero nipote degli Slavi, il Finlandese, il Tunguso
E il Calmucco, figlio delle steppe selvagge.

E a lungo al mio popolo io sarò caro,
Che in un tempo crudele ho lodato la Libertà,
Che ho acceso i buoni sentimenti con la lira
E verso i caduti ho invitato alla pietà.

Ascolta, o Musa, il comando divino,
Non temendo le offese, non chiedendo corone,
L’elogio e la calunnia accogli indifferente
E con gli sciocchi non entrare in discussione.

1836

A tutta voce
(Во весь голос)

(Prima introduzione al poema)

Egregi
compagni posteri!
Scavando
nello sterco impietrito
del presente,
studiando le tenebre odierne,
voi,
forse,
chiederete anche di me.
E, forse, dirà
il vostro erudito,
con la mente
piena di questioni,
che viveva da qualche parte un tale
cantore dell’acqua bollita
e nemico acerrimo dell’acqua corrente.
Professore,
togliti gli occhiali-bicicletta!
Io stesso racconterò
del tempo
e di me dirò.
Io, fognaiolo
e portacqua,
dalla rivoluzione
richiamato,
io per il fronte ho lasciato
i signorili giardini
della poesia –
capricciosa megera.
Che giardino guarda e ammira,
figlia,
la casa,
pulisci
e stira –
io da sola l’ho piantato,
solo io l’annaffierò.
Chi versa strofe dai catini,
chi spruzza
dalla bocca –
leziosi Mitrejki,
saccenti Kudrejki –
come raccapezzarsi!
Per la melma non c’è quarantena –
mandolinano tutto il giorno:
«Tara-tena, tara-tena,
ten-n-n…»
Non è un grande onore,
se tra le rose
alzano i miei busti
nei giardinetti,
dove scatarra la tubercolosi,
dove un teppista abbraccia una puttana
e la sifilide impera.
Anch’io
della propaganda
ho le tasche piene,
anch’io
potrei scrivere
romanze su di voi, –
è più redditizio
e più allettante.
Ma io
me stesso
ho domato,
e con il piede pesante
ho schiacciato la gola
della mia canzone.
Ascoltate,
compagni posteri,
l’agitatore,
lo strillone-caporione.
Soffocando
i torrenti della poesia,
io avanzerò
tra volumi di liriche,
da vivo
ai vivi parlando.
Verrò da voi
in un futuro comunista,
non come
il melodioso bardo eseniano.
La mia poesia giungerà
attraverso i crinali dei secoli
e attraverso le teste
dei governi e dei poeti.
La mia poesia giungerà alla meta,
ma essa vi giungerà,
non come una freccia
lanciata da Cupido a sorte,
non come arriva
a un numismatico una consunta moneta
e non come arriva la luce delle stelle morte.
La mia poesia
con la fatica
sfonderà la mole degli anni
e apparirà
ponderosa,
rude,
visibile,
come ancora oggi
è visibile l’acquedotto,
eretto
dagli schiavi di Roma.
Nei tumuli di libri,
di versi seppelliti,
ritrovando per caso la ferraglia delle strofe,
voi
con rispetto
prendetela in mano,
come vecchia
arma fatale.
Io
l’oreccchio
con la parola
non sono avvezzo a carezzare;
il delicato orecchio di ragazza
nei riccioli
dal doppio senso sfiorato
non arrossirà.
Dopo aver disteso in parata
le mie pagine-plotoni,
io passerò
il fronte delle strofe.
I versi stanno
pesanti come piombo,
pronti anche alla morte
e alla gloria immortale.
I poemi sono morti,
canna contro canna
dei titoli puntati
e squarciati.
L’arma
del genere
preferito,
è pronta
a lanciarsi con un grido,
s’è irrigidita
la cavalleria delle facezie,
avendo alzate delle rime
le lance acuminate.
E tutte
le truppe fino ai denti armate,
che venti anni nelle vittorie
hanno passato,
fino all’ultima
pagina
io affido a te,
proletario del pianeta.
Il nemico
della classe operaia –
è anche il mio nemico,
giurato e di vecchia data.
Ci hanno chiesto
di andare
con la bandiera rossa
anni di lavoro
e giorni di fame.
Noi aprivamo
di Marx
ogni volume,
come in casa
propria
apriamo le persiane,
ma anche senza lettura
noi sapevamo
da che parte andare,
contro chi lottare.
A noi
la dialettica
non l’ha insegnata Hegel.
Essa al suono delle lotte
nei versi è penetrata,
quando
sotto le pallottole
i borghesi fuggivano da noi,
come noi
un tempo
fuggivamo da loro.
Che
dietro ai geni
come vedova sconsolata
si trascini la gloria
in una funebre marcia –
muori, o mio verso,
muori, come semplice soldato,
come ignoti
all’attacco sono morti i nostri!
Io sputo sopra
il bronzo dei monumenti
io sputo sopra
il viscido marmo.
Grondiamo di gloria –
noi tutti noi, –
che il nostro
monumento comune
sia il socialismo
eretto
nelle lotte.
O posteri,
controllate i galleggianti dei dizionari:
dal Lete
emergeranno
i resti di parole
come «prostituzione»,
«tubercolosi»,
«blocco».
Per voi
che
siete sani e destri,
il poeta
leccava
gli sputi dei tisici
con la ruvida lingua del manifesto.
Con la coda degli anni
io divento la somiglianza
di mostri
fossili con la coda.
Compagna vita,
su,
presto bruciamo,
bruciamo
in cinque anni
il resto dei giorni.
A me
neanche un rublo
hanno portato i versi,
di ebano
non è arrivato un mobile in casa.
E tranne
una camicia fresca di bucato,
dirò sinceramente,
a me non serve niente.
Entrato
Nella Commissione di Controllo
dei luminosi
anni che verranno,
io sulla banda
di poeti
scrocconi e furfanti
solleverò
come tessera bolscevica,
i miei
libri di partito –
tutti quanti.

1929-1930

(C) by Paolo Statuti

Vladimir Majakovskij (1893-1930)

16 Ott

Vladimir Majakovskij

Poesie di Vladimir Majakovskij tradotte da Paolo Statuti

A tutta voce
(Во весь голос)

(Prima introduzione al poema)

Egregi
compagni posteri!
Scavando
nello sterco impietrito
del presente,
studiando le tenebre odierne,
voi,
forse,
chiederete anche di me.
E, forse, dirà
il vostro erudito,
con la mente
piena di questioni,
che viveva da qualche parte un tale
cantore dell’acqua bollita
e nemico acerrimo dell’acqua corrente.
Professore,
togliti gli occhiali-bicicletta!
Io stesso racconterò
del tempo
e di me dirò.
Io, fognaiolo
e portacqua,
dalla rivoluzione
richiamato,
io per il fronte ho lasciato
i signorili giardini
della poesia –
capricciosa megera.
Che giardino guarda e ammira,
figlia,
la casa,
pulisci
e stira –
io da sola l’ho piantato,
solo io l’annaffierò.
Chi versa strofe dai catini,
chi spruzza
dalla bocca –
leziosi Mitrejki,
saccenti Kudrejki –
come raccapezzarsi!
Per la melma non c’è quarantena –
mandolinano tutto il giorno:
«Tara-tena, tara-tena,
ten-n-n…»
Non è un grande onore,
se tra le rose
alzano i miei busti
nei giardinetti,
dove scatarra la tubercolosi,
dove un teppista abbraccia una puttana
e la sifilide impera.
Anch’io
della propaganda
ho le tasche piene,
anch’io
potrei scrivere
romanze su di voi, –
è più redditizio
e più allettante.
Ma io
me stesso
ho domato,
e con il piede pesante
ho schiacciato la gola
della mia canzone.
Ascoltate,
compagni posteri,
l’agitatore,
lo strillone-caporione.
Soffocando
i torrenti della poesia,
io avanzerò
tra volumi di liriche,
da vivo
ai vivi parlando.
Verrò da voi
in un futuro comunista,
non come
il melodioso bardo eseniano.
La mia poesia giungerà
attraverso i crinali dei secoli
e attraverso le teste
dei governi e dei poeti.
La mia poesia giungerà alla meta,
ma essa vi giungerà,
non come una freccia
lanciata da Cupido a sorte,
non come arriva
a un numismatico una consunta moneta
e non come arriva la luce delle stelle morte.
La mia poesia
con la fatica
sfonderà la mole degli anni
e apparirà
ponderosa,
rude,
visibile,
come ancora oggi
è visibile l’acquedotto,
eretto
dagli schiavi di Roma.
Nei tumuli di libri,
di versi seppelliti,
ritrovando per caso la ferraglia delle strofe,
voi
con rispetto
prendetela in mano,
come vecchia
arma fatale.
Io
l’oreccchio
con la parola
non sono avvezzo a carezzare;
il delicato orecchio di ragazza
nei riccioli
dal doppio senso sfiorato
non arrossirà.
Dopo aver disteso in parata
le mie pagine-plotoni,
io passerò
il fronte delle strofe.
I versi stanno
pesanti come piombo,
pronti anche alla morte
e alla gloria immortale.
I poemi sono morti,
canna contro canna
dei titoli puntati
e squarciati.
L’arma
del genere
preferito,
è pronta
a lanciarsi con un grido,
s’è irrigidita
la cavalleria delle facezie,
avendo alzate delle rime
le lance acuminate.
E tutte
le truppe fino ai denti armate,
che venti anni nelle vittorie
hanno passato,
fino all’ultima
pagina
io affido a te,
proletario del pianeta.
Il nemico
della classe operaia –
è anche il mio nemico,
giurato e di vecchia data.
Ci hanno chiesto
di andare
con la bandiera rossa
anni di lavoro
e giorni di fame.
Noi aprivamo
di Marx
ogni volume,
come in casa
propria
apriamo le persiane,
ma anche senza lettura
noi sapevamo
da che parte andare,
contro chi lottare.
A noi
la dialettica
non l’ha insegnata Hegel.
Essa al suono delle lotte
nei versi è penetrata,
quando
sotto le pallottole
i borghesi fuggivano da noi,
come noi
un tempo
fuggivamo da loro.
Che
dietro ai geni
come vedova sconsolata
si trascini la gloria
in una funebre marcia –
muori, o mio verso,
muori, come semplice soldato,
come ignoti
all’attacco sono morti i nostri!
Io sputo sopra
il bronzo dei monumenti
io sputo sopra
il viscido marmo.
Grondiamo di gloria –
noi tutti noi, –
che il nostro
monumento comune
sia il socialismo
eretto
nelle lotte.
O posteri,
controllate i galleggianti dei dizionari:
dal Lete
emergeranno
i resti di parole
come «prostituzione»,
«tubercolosi»,
«blocco».
Per voi
che
siete sani e destri,
il poeta
leccava
gli sputi dei tisici
con la ruvida lingua del manifesto.
Con la coda degli anni
io divento la somiglianza
di mostri
fossili con la coda.
Compagna vita,
su,
presto bruciamo,
bruciamo
in cinque anni
il resto dei giorni.
A me
neanche un rublo
hanno portato i versi,
di ebano
non è arrivato un mobile in casa.
E tranne
una camicia fresca di bucato,
dirò sinceramente,
a me non serve niente.
Entrato
Nella Commissione di Controllo
dei luminosi
anni che verranno,
io sulla banda
di poeti
scrocconi e furfanti
solleverò
come tessera bolscevica,
i miei
libri di partito –
tutti quanti.

1929-1930

Il violino e un po’ nervosamente

Il violino coi nervi tesi, supplicando,
a un tratto scoppiò in pianto
così infantilmente,
che il tamburo non resse:
“Bene, bene, bene!”
E lui stesso si stancò,
non finì di ascoltare il violino,
sgattaiolò in fretta
e se ne andò.
L’orchestra estraneamente guardava
il violino che si sfogava nel pianto
senza parole
senza tempo,
e solo chissà dove
uno stupido piatto
strepitava:
“Cos’è?”
“Com’è?”
E quando il flicorno –
cornoramato,
sudato,
gridò:
“Scemo,
piagnone,
asciugati!” –
io mi alzai,
barcollando, mi arrampicai tra le note,
tra i leggii curvi per lo spavento,
chissà perché gridai:
“Mio Dio!”,
mi buttai al collo di legno:
“Sai una cosa, violino?
Noi ci somigliamo tremendamente:
ecco anch’io
urlo –
ma non so dimostrare nulla!”
I musicisti ridono:
“S’è invischiato e come!
E’ venuto dalla fidanzata di legno!
Che testa!”
Ma io – me ne frego!
Io – sono un bel tipo.
“Sai una cosa, violino?
Dai –
Vivremo insieme!
Sì?”

Veramente a voi non prudono ambedue le scapole?

Veramente

                    a voi

                              non prudono

                                                       ambedue le scapole?

Se

      dal cielo

                      l’arcobaleno

                                             pende

o

    è azzurro

                      senza una sola toppa –

davvero

                a voi

                          non prudono

ambedue

                   le scapole?!

Davvero non si vuole,

                                        che da sotto le bluse,

dove prima

                      c’era la gobba,

gettato via

                     il peso

                                  delle camicie-fardello,

si distendano

                         un paio di ali?!

Oppure

               la notte quando

                                              le stelle si accendono

e le Orse

                  tutte

                             si arrampicano –

davvero non fa invidia?!

                                             Davvero non si vuole?!

Si vuole!

                 Ad ogni costo!

Si sta stretti,

                        e in cielo

                                          la vastità –

                                                               un buco!

Alzarsi in volo

                           verso i villaggi degli dei!

Presentare

                     al Signore delle schiere

                                                                 un ordine

                                                                                     di sfratto

dell’Ufficio Centrale per gli Alloggi!

Kaluga!

               Perché ti sei cinta con un prato?

Dormi

             in una fossa del terreno?

Tambov!

                  Kaluga!

In alto!

              Come passeri!

Bene,

            se ha deciso di sposarsi:

battere l’ala –

                           e

                                oltre duecento province!

Strappò

                una piuma

                                     allo struzzo –

e la rese

                in dono

                               alla fidanzata!

Saratov!

                 Perché hai sgranato gli occhi?!

Incantata?

                      Da un punto d’uccello?

In alto –

                come rondine!

Bene

           così

                    lavoro pulito:

Sera.

           La sera vuole scagliarsi contro la porta.

Roma.

             Frustare

                             a Roma un fascista –

e

    un’ora dopo

                            di ritorno

                                               al samovar

                                                                    a Tver’.

O semplicemente:

                                   guardi,

                                                 l’alba è spuntata –

e cominci

                   a gara

                                a rincorrere e rincorrere.

Ma…

           la gente – un popolo

senz’ali.

La gente

                 creata

                              secondo un cattivo piano:

la schiena –

                       e nessun profitto.

Comprare

                    un aereo ciascuno –

questo soltanto

                              resta.

E cresceranno

                            la coda,

                                           le piume,

                                                             le ali.

Il petto

              appunta

                              per qualsiasi volo.

Staccati da terra!

                                Vola, squadriglia!

Russia,

              spicca il volo come flotta aerea.

Presto!

             Perché,

                            tesati come una pertica,

da terra

                ammirare

                                   la volta celeste?

Perforala,

avio.

 1923

Sentite un po’!

Sentite un po’!

Ma se le stelle si accendono –

significa – servono a qualcuno?

Significa – qualcuno le vuole?

Significa – quegli sputacchi per qualcuno sono perle?

E, soffocato

nelle bufere di polvere meridiana,

si precipita da dio,

teme d’essere in ritardo,

piange,

gli bacia la mano nerboruta,

prega –

che ad ogni costo in cielo ci sia una stella! –

giura –

che non sopporterà quel tormento senza stelle!

E dopo

cammina inquieto,

ma tranquillo in apparenza.

Dice a qualcuno:

“Allora adesso non c’è male?

E’ passata la paura?

Sì?!

Sentite un po’!

Ma se le stelle

si accendono –

significa – servono a qualcuno?

Significa – è necessario

che ogni sera

sopra i tetti

ci sia almeno un stella?!

 1914 

E voi potreste?

In un attimo ho unto la mappa del trantran

con la vernice versata dal bicchiere;

ho mostrato sopra a un piatto di gelatina

gli zigomi obliqui dell’oceano.

Sulla scaglia di un pesce di latta

ho declamato gli appelli di nuove labbra.

E voi

potreste

sonare un notturno

su un flauto di grondaie?

 

1913

Al diletto se stesso,

queste righe dedica l’autore

Quattro.

Pesanti, come un colpo.

“A Cesare quel che è di Cesare – a dio quel che è di dio”.

E a uno

come me,

dove ficcarsi?

Dove ho pronto il mio giaciglio?

 

Se fossi

piccolo,

come un oceano, –

sulle punte delle onde starei,

con la marea vezzeggerei la luna.

Dove trovarmi

una diletta come me?

Una così non entrerebbe nell’esiguo cielo!

 

Oh, se io fossi indigente!

Come un miliardario!

Cos’è per l’anima il denaro?

In essa c’è un avido ladro.

Alla sfrenata orda dei miei desideri

non basta l’oro dell’intera California.

 

Se balbettassi

come Dante

o Petrarca!

L’anima accendere a una sola!

Coi versi ridurla in polvere!

E le parole

e il mio amore –

un arco di trionfo:

solennemente,

senza lasciar traccia passeranno in essa

le amanti di secoli interi.

 

Oh, se io fossi

quieto,

come il tuono, –

frignerei,

tremando stringerei il vecchio eremo della terra.

Se io con tutta la sua potenza

tuonerò con la mia enorme voce, –

le comete si torceranno la mani ardenti,

gettandosi giù per disperazione.

 

Io con i raggi degli occhi rosicchierei le notti –

oh, se io fossi

oscuro come il sole!

Ho tanto bisogno

di abbeverare col mio splendore

il seno smunto della terra!

 

Passerò,

la mia amata trascinando.

In quale notte

delirante,

sofferente

da quali Golia sono stato concepito –

io così grande

e che non servo a niente?

1916

 

Non capiscono niente

Entrò dal Barbiere, disse – tranquillo:

“Siate gentile pettinatemi le orecchie”.

Il barbiere rasato subito diventò aghiforme,

la faccia si allungò come in una pera.

“Pazzo!

Buffone!” –

danzavano le parole.

Gli insulti turbinavano tra i guaiti,

e a lu-u-u-u-ngo

una testa sogghignava

staccandosi dalla folla, come un vecchio ravanello.

 

1913

 

Alle insegne

 

Leggete libri di ferro!

Al flauto d’una lettera dorata

accorreranno aringhe affumicate

e navoni dai riccioli d’oro.

 

E se con gaiezza canina

roteranno le costellazioni “Maggi” –

l’ufficio dei convogli funebri

manderà i propri sarcofaghi.

 

Quando, cupo e lacrimoso,

spegnerà i segni dei lampioni,

innamoratevi sotto un cielo di bettole

dei papaveri delle teiere di faenza!

 

1913

 

Tu

 

Sei giunta –

risoluta,

al mio ruggito

per la mia statura,

e gettato uno sguardo

hai visto solo un ragazzo.

Hai afferrato,

hai rapito il mio cuore

e semplicemente

hai preso a giocare con esso –

come una bambina con la palla.

E ciascuna –

come vedendo un prodigio –

la dama che restò di stucco

e la vergine fanciulla.

“Amare uno come quello?

Uno così si avventerà!

Deve essere una domatrice.

Deve venire dal serraglio!”

Ma io esulto.

Il giogo –

non c’è!

Stordito dalla gioia,

saltavo,

ballavo come un pellirossa alle nozze,

tanto ero allegro,

tanto ero leggero.

 

1919

 

La blusa del bellimbusto

 

Io mi cucirò neri calzoni

di velluto della mia voce.

Una blusa gialla di due metri di tramonto.

Lungo il Nevskij del mondo e le sue lucide parti,

andrò col passo di un Don Giovanni e di un bellimbusto.

 

Che la terra gridi, effeminata e tranquilla:

“Tu vai a violentare le verdi primavere!”

Io urlerò al sole, con un ghigno insolente:

“Sul liscio asfalto mi piace grandeggiare!”

 

Non perché il cielo è blu,

e la terra mi è amante in questo lindore festivo,

io vi dono versi, allegri, come burattini

e pungenti e necessari, come stuzzicadenti!”

 

Donne che amate la mia carne, e la ragazza

che mi rivolge lo sguardo come a un fratello,

lanciate i vostri sorrisi a me, il poeta, –

io li cucirò come fiori sulla mia blusa di bellimbusto!

 

1914

 

 

 

Commiato

 

In macchina,

                     cambiato l’ultimo franco.

– A che ora per Marsiglia? –

Parigi

               corre,

                             accompagnandomi

in tutta

               l’impossibile bellezza.

Accedi

                agli occhi,

                                     brodaglia del distacco,

il cuore

                spaccami

                                     col sentimentalismo!

Io vorrei

                 vivere

                              e morire a Parigi,

se non ci fosse

                           una terra simile –

                                                           Mosca.

 

1925

 

E’ passata l’una…

 

E’ passata l’una. Dovresti andare a letto.

La Via Lattea scorre argentea nella notte.

Non ho fretta; con telegrammi lampo

Non ho motivo di stancarti e turbarti.

E, come essi dicono, l’incidente è chiuso.

La barca dell’amore s’è infranta contro la fatica del giorno.

Adesso tu ed io siamo pari. Perché dunque il fastidio

Di bilanciare le reciproche sofferenze e ferite?

Guarda ciò che la quiete posa sul mondo.

La notte copre il cielo in omaggio alle stelle.

In ore come queste, ci si alza per parlare

Agli anni, alla storia, a tutto il creato.

 

1930

 

 

 

 

 La nuvola in calzoni

Prologo

La vostra mente,

sognante sul cervello rammollito,

come grasso lacché sopra un unto divano,

io provocherò contro un pezzo di cuore insanguinato;

a sazietà befferò mordace e villano.

 

Nell’anima non ho un solo bianco capello,

e la decrepita dolcezza è assente!

Stordito il mondo con la forza del mio canto,

vado – bello,

ventiduenne.

 

O teneri!

Voi l’amore sui violini ponete.

L’amore sui timpani pone un buzzurro.

E come me, rovesciarvi non potete,

per diventare labbra sole e soltanto.

 

Vieni ad imparare –

da un salotto di batista,

impiegata-modello d’una angelica lega.

 

Che le labbra sfogli tranquilla,

come una cuoca il libro di cucina.

 

 

 

 

 

Se volete –

sarò furioso di carne

– e, come il cielo, mutando i toni –

se volete –

sarò perfettamente tenero,

non uomo, ma – nuvola in calzoni!

Non credo a una Nizza floreale!

Da me di nuovo sono celebrati

gli uomini giaciuti, come un ospedale,

e le donne, come proverbi logorati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 (C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

Lev Adol’fovich Ozerov

8 Ott

    

Autocaricatura del poeta

Poeta, traduttore e saggista russo. È nato a Kiev il 23 agosto 1914 ed è morto a Mosca il 18 marzo 1996. Suo padre – Adol’f Gol’dberg (vero cognome del poeta) era farmacista. A Kiev terminò la scuola settennale e il primo corso di Filologia presso la locale Università. Poi tentò diverse occupazioni: allievo di un disegnatore, decoratore, corrispondente e perfino violinista in un’orchestra. Egli ricordava così le difficoltà di quel periodo: «Nato nel 1914, sono sopravvissuto a tutti gli anni di guerra e a tre carestie. Particolarmente sofferta fu quella in Ucraina negli anni 1930-1933. Eravamo appesi a un filo. Come siamo rimasti vivi è un mistero. A quel tempo avevo terminato la scuola di violino e di direttore d’orchestra, disegnavo, avevo già cominciato a scrivere, stavo ottenendo i primi consensi, ma a causa della fame ho dovuto rinunciare a tutto e mettermi a lavorare come manovale nell’Arsenale di Kiev. Trasportavo i materiali dalla catena di montaggio al magazzino, la forza c’era e spingevo il carrello. A casa erano contenti, perché portavo un pugno di polenta e una coda di pesce…

     Nel 1934, a 20 anni, il futuro poeta si trasferì a Mosca, dove si iscrisse all’Istituto di Filosofia, Storia e Letteratura. Si laureò nel 1939. Partecipò alla Grande Guerra Patriottica come giornalista corrispondente. Dal 1943 fino alla morte ha diretto il seminario di poesia e traduzione artistica presso l’Istituto Letterario “A.M. Gor’kij”.

     Le sue prime poesie pubblicate risalgono al 1932. Ha scritto 20 raccolte poetiche, la prima delle quali – Sulle rive del Dnepr – uscì nel 1940, mentre l’ultimo suo libro – Ritratti senza cornici – fu pubblicato postumo nel 1999. Le sue poesie sono state tradotte in più di 20 lingue. A lui si devono anche molte traduzioni poetiche, principalmente dall’ucraino, lituano, yiddish e altre lingue dei popoli dell’URSS. Inoltre è autore di    numerosi libri e appassionati articoli sulla poesia e sui poeti, tra i quali: P. Tycina, A.A. Fet, F. Tjutčev, B. Pasternak, N. Zabolockij, A. Achmatova. L’articolo Le poesie di Anna Achmatova, pubblicato il 23 giugno 1959 nella Gazzetta Letteraria, fu la prima recensione, dopo molti anni di silenzio. Anna lo definì “rottura di un blocco”. Lev Ozerov ha fatto molto anche per preservare e pubblicare il patrimonio creativo di poeti della sua generazione morti in guerra o durante gli anni della repressione staliniana. Inoltre aiutò diversi giovani promettenti poeti, dando consigli o scrivendo la recensione delle loro prime raccolte.

     Molte espressioni poetiche di Oserov sono entrate nel linguaggio quotidiano, si sono trasformate in detti. Uno dei suoi aforismi più famosi é: “I talenti hanno bisogno di aiuto, la mediocrità sfonda da sé”.

     Ozerov fu anche un geniale caricaturista e i suoi schizzi-ritratti di noti letterati suoi colleghi affascinano tuttora per la foga, la concisione lineare e al tempo stesso perché riproducono perfettamente i tratti dei modelli.

     Per Ozerov comporre versi era un fatto naturale, come respirare e camminare. Essi scaturivano da tutto ciò che vedevano i suoi occhi sorprendenti, che sentiva la sua anima sorprendente. Quasi ogni sua poesia è una sorpresa.

     Nel suo libro Lexicon der russischen Literatur ab 1917  il critico, traduttore e slavista tedesco Wolfgang Kasack scrive: «La poesia di Ozerov è un tentativo di abbracciare l’essere nel suo insieme, attraverso la descrizione di fenomeni individuali spesso legati alla natura. I. Sel’vinskij vede in lui un “disegnatore eccezionale”, G. Zobin – “il poeta della vista”. L’osservazione di fenomeni apparentemente insignificanti diventano il punto di partenza, entrano nell’analisi dei fondamenti semantici della vita».

     Il critico letterario e scrittore Vladimir Ognjov dice: «Lev Ozerov è forse uno di quei pochi poeti che non fondono, ma incidono, coniano una parola che ha avuto a malapena il tempo di raffreddarsi dalle emozioni immediate. Il verso di Ozerov è conciso, tende alla compiutezza lineare».

     Molti si sorprenderanno che attalmente questo poeta sia noto solo a rari intenditori e ai fortunati come me che lo hanno incontrato per caso o per un celato volere del destino. Spero che questo mio modesto lavoro contribuisca a dissipare almeno un po’ della nebbia che ingiustamente lo avvolge.

Poesie di Lev Ozerov tradotte da Paolo Statuti

Quando negli ultimi giorni di maggio…

Quando negli ultimi giorni di maggio

Il Dnepr le isole lascia,

Con un cinguettio, ancora cieco,

Dal guscio il fogliame si affaccia,

Quando fa oscillare i fili

Il corvo balbuziente,

L’acqua scorre con la Tarasowskaja*,

Cessa la pioggia, fresco e pace si sente,

Quando tutto si muove, tutto è vivo,

E l’azzurro ha suoni illimitati, –

Nel momento della piena primaverile, –

Il tono e il semitono mi sono grati,

E un capello che vola al vento,

E questi ponti risonanti,

E il bisbiglìo, e una voce forte.

E l’intero universo, e tu – davanti.

*La via di Kiev dove abitava il poeta.

1932

Vista sul Dnepr

Anche prima di morire ricorderò questa rupe,

E tutta in fiamme adagiata Podol,

E la gioia che qui ho provato

Vedendo le stelle e un’azzurra nube

Che scorreva da sud. Io guardavo là,

Dove senza posa l’acqua scura

I fuochi di Podol e la luna frangeva,

Dove un motoscafo a carbone avanzava,

Là, dove chiara la sabbia si stagliava.

Sapevo: tale forza questa notte aveva,

Era così convincente che restai

Muto e a casa non tornai.

E tanto più ero lì, tanto più capivo

Che non c’era alcuna pena in me;

Che giorno per giorno andrà tutto bene

In casa; che c’era la rupe e su di sé

Gli alberi scuri, bisbiglianti tra loro;

Che la notte era più quieta e premurosa.

E mi sembrava allora di sentire

Il futuro più di ogni cosa.

1935

Concerto d’organo

Sonava un timido vecchio,

Tarchiato, testa dura.

Io capii: la sincerità non è un grido,

La poesia non è solo scrittura.

Ascolto: nel mio petto frusciano

E chinano le spighe le creste,

Borbottano i pini e romba

L’organo polifonico terrestre.

E come la terra, l’organo ruggisce,

Come se camminassi con Bach

Di vulcano in vulcano

Smarriti in questa sonorità.

Vibra la cattedrale aghiforme,

Cantano i prati e le radure con loro,

E la vocina vetrosa di un fanciullo

Fende l’armonioso coro.

E nella sonante cupola azzurra

Fluiscono dell’organo i sospiri.

Ecco esso ci ha chiamati,

E noi accorriamo dai nostri ritiri.

Il cupo gemito del fondo terrestre,

E dei secoli il fragore risvegliato,

E una luce uguale da ogni parte,

E in essa il pensiero purificato.

Qui tutto è – ruggito della natura

E del tuono i nuclei rotolati.

Qui tutto è – né grida, né parole,

Né solitudine, né caseggiati.

Qui regna Bach, qui egli calpesta

Delle passioncelle umane l’inezia,

Egli allarga l’orizzonte

E guarda il futuro con fierezza.

Oh, se solo avessi un tale slancio,

Un potere così spavaldo,

Affinché, generato nei versi,

Nei cuori avesse il suo traguardo,

Affinché la gente sentisse in loro

Non solo la forza delle cantate,

Ma la voce del futuro, dei viventi,

Delle generazioni non ancora nate!..

1937

Ma che ti sei inventata! Ma che previsioni!..

Ma che ti sei inventata! Ma che previsioni!

Incomprensione, ignorare, litigare,

Sull’ignoto gli occhi fissati,

Ciò che era calmo vuoi di nuovo agitare.

Tu sei stanca! Stiamo zitti per un po’.

Il tempo, come un granello di sabbia, si fa granito.

Questo dice in te il cammino percorso

E dice quello non ancora seguito.

Non oso dare l’anima allo scherno umano.

So che la brace dura più del fuoco.

Io non posso elevarmi sul mio amore,

Perché il mio amore mi sovrasta non poco.

1964

*  *  *

Tutta la vita io mi accingo a vivere.

Tutta la vita passa nell’aspettare

E soltanto in brevi incontri,

Quando è impossibile giudicare,

Cosa significa essere o non essere

Tra il separarsi così amaro

E il conoscersi così fiero –

Io vivo, ma a vivere non mi preparo.

1964

*  *  *

No, non la luce si accende alle finestre,

Ciascuna di esse di miele è ripiena,

E risuonano filamenti di luce,

E di fuochi arde una catena.

Ciò che erano fuochi alle finestre,

Nei cieli sono diventati stelle.

Che fai, o cuore, con noi?

Come descrivere quelli e quelle?

Dov’è l’inizio delle poesie?

Nel rombo della piazza? Nel tacere?

Bottega di trasfigurazioni

In me per giorni e notti intere.

Là fuoco e acqua aspettano l’incontro,

Là un monte si unirà a un monte,

Là in brani di comune linguaggio

L’ordine armonioso in me s’infonde.

1965

Anni venti

Il fogliame ribolle come i nostri anni venti,

Quando Majakovskij e Aseev in amicizia

Scrivevano versi sull’amore e la baldanza,

Burberi e turbolenti;

Quando Pasternak in un borbottio estasiato,

Impetuoso, pacificatore-allarmato,

Componeva i suoi versi e subito li bruciava,

Facendosi strada attraverso la vita a bracciate;

Quando per Esenin con rossi accesi

Ardevano volentieri tutte le albe di Rjazan’,

E Chlebnikov i suoi numeri sfogliava

E in miseria cantava, dai bambini accarezzato.

Il fogliame ribolle, come gli anni iniziali,

Dalla nebbia dell’oblio allontanati,

E nuove generazioni sono nate,

Ma il fogliame ribolle come gli anni lontani,

Gli anni iniziali, gli anni venti:

Noi poveri eravamo, noi eravamo opulenti.

Il vento è incolore?..

Il vento è incolore? Egli vuole in volti vari

Tutto il mondo mostrare da dentro e da fuori.

Il vento è verde se è nel fogliame,

Il vento è purpureo se nel fuoco rimane.

*  *  *

Qui agisce non la memoria. Qualcos’altro,

Sconosciuto, che ha dell’affanno,

Lievissimo, come soffio d’interiezione,

Volatile, come gesto della mano.

Qui agisce non la memoria. Qualcosa simile

All’oblio. Qualcosa che ha della sventura,

Quando in schiavitù aspiri alla libertà

E la tua vita maledici a dismisura.

Qui agisce non la memoria, ma l’estro,

Le cieche passioni, il peso della preoccupazione,

Quando il balenio di una farfalla è un evento,

E una brezza umida – una rivoluzione.

Dante lascia Firenze

Si girò per l’ultima volta, quasi

Volesse dall’ombra i piedi staccare,

Ma l’ombra non lo lasciava. Brusco

Voltò lo sguardo, senza ricordare

Né amici né parenti. I giorni dorati

Erano finiti. L’esilio era iniziato.

Ma egli non sapeva a cos’era destinato

Nell’esilio – al superbo ordine di terzine.

Tre volte in tre libri. Era solo alfine.

(C) by Paolo Statuti

Vadim Gabrielevich Shershenevich

3 Ago

    

Nacque a Kazan’ il 25 gennaio 1893. Dal 1907 visse a Mosca, dove studiò nel ginnasio privato fondato da L.I. Polivanov (vi studiarono anche V. Brjusov, A. Belyj e S. Solov’jov). Poi fu uno studente dell’Università di Mosca, prima in campo matematico e in seguito nelle facoltà di storia e filologia. Per qualche tempo si formò anche all’Università di Monaco.

     Iniziò a scrivere poesie negli anni del ginnasio, provando maniere diverse. Nelle prime raccolte Macchie verdi di primavera (1911), Carmina (1913) si sente l’influenza dei maestri del simbolismo Bal’mont, Brjusov e Blok. Le successive Cipria romantica e Flaconi stravaganti (entrambe del 1913), avvicinano invece Šeršenevič agli egofuturisti. Nel 1913 insieme con Lev Zak organizzò il gruppo futurista Mezzanino di poesia. A metà degli anni ’10 pubblicò l’opera teorica Futurismo senza maschera e tradusse i manifesti letterari di F. Marinetti. Ha curato la Prima rivista dei futuristi russi, provocando critiche da parte degli oppositori, tra il quali il gruppo Centrifuga. Allora ne faceva parte Boris Pasternak, il quale sferrò un aspro attacco a Šeršenevič con il suo articolo Reazione Wasserman (come è noto, è un test diagnostico per l’accertamento della sifilide).

     Durante la prima guerra mondiale fu al fronte come volontario. In questo periodo il poeta trovò il suo stile, espresso dalla raccolta Passo di automobile e dal dramma monologo Veloce (entrambi del 1916). Nel 1918 pubblicò una delle sue opere più significative: il poema d’amore Crematorio, quale sorta di risposta alla Nuvola in calzoni di Majakovskij. Nel 1919 fondò il gruppo degli imaginisti con S. Esenin, A. Mariengof e A. Kusikov. All’inizio degli anni ’20 pubblicò il suo libro di poesie più famoso Il cavallo come cavallo, la raccolta Cooperative di allegria, la tragedia L’eterno ebreo, e la commedia Una totale assurdità. Leggeva poesie dal palcoscenico, godendo di un’enorme popolarità tra il pubblico di Mosca. La rivalità tra lui e Majakovskij continuò senza tregua. Nel 1919 fu presidente della filiale di Mosca dell’Unione dei poeti di tutta la Russia.

     Il suo ultimo libro di poesie Dunque – Insomma è del 1926. Una parte importante dell’opera di Šeršenevič è legata al cinema e al teatro, tra parentesi ebbe tre mogli, tutte attrici. Oltre che poeta e drammaturgo, fu regista, critico, sceneggiatore e traduttore. Negli anni ’20-’30 tradusse le commedie di W. Shakespeare, P. Corneille, V. Sardou, poesie tedesche: R.M. Rilke, D. Lilienkron, e francesi, compresa la traduzione completa dei Fiori del male di Baudelaire. Le opere di Šeršenevič di grande interesse degli anni ’30 sono state pubblicate per la prima volta nel 1990. La traduzione dei Fiori del male nel 2007.

     Nell’autunno del ’41 fu evacuato ad Altaj. Morì di tisi galoppante il 18 maggio 1942.

     Il poeta ebbe un’influenza notevole sul mondo lirico del suo tempo. Nelle sue poesie troviamo spesso rime dissonanti e la tecnica di accenti elaborata nello stesso periodo di Majakovskij. Predilige i temi dell’amore sensuale tragico, la stravaganza basata, come nei primi futuristi, sulla estetizzazione di motivi scandalosi, immagini burlesche. L’interesse per la pagliacciata è un punto fermo nella sua biografia. Era attratto dalle metafore urbane, che usava spesso per creare una particolare atmosfera. Tutti questi aspetti hanno formato il suo stile decisamente unico, che distingue questo poeta da altri simili a lui.   

     Qualcuno ha detto: “Secondo me, Šeršenevič non può lasciare indifferenti: o lo ami o non l’accetti. Io lo amo. Le sue immagini sono a volte complesse, fino all’assurdo, e non le comprendi immediatamente. Ma vale la pena vedere, capire – e avviene il miracolo”. È la stessa impressione che ho avuto anche io traducendo con grande interesse e piacere questo illustre poeta dell’età d’argento.

     Nella compilazione di questo testo mi sono servito di Wikipedia.

Poesie di Vadim Šeršenevič tradotte da Paolo Statuti

Le maschere

Maschere dappertutto, maschere allegre,

Dalle fessure degli occhi guardano astute;

Dove sono io? In una vecchia dolce fiaba?

Ma per cosa le lacrime cadute?

Maschere fatue, maschere allegre,

Mi fa cenno, mi chiama la vostra danza.

Ecco un guizzo di occhi innamorati;

Strane maschere, in che avete speranza?

Abiti senza gusto, parole ritmiche;

Volano in danze insensate

Braccia, petti e spalle invitanti;

Maschere allegre, maschere fatue.

Coprirò le lacrime con una maschera sorda,

Metterò la mia maschera ridendo ah ah!

Maschere fatue! Seguitemi,

Udite: io canto un inno alla trivialità.

Maschere dappertutto, maschere allegre,

Dalle fessure degli occhi guardano astute;

Dove sono io? In una vecchia dolce fiaba?

Ma per cosa le lacrime cadute?

1910

A M.S.

Se solo sapessero quanta pena

Nella mia lieta risata è nascosta!

Come morto striscio dalla pietra tombale,

Come salma, nel sudario della notte avvolta.

Io non oso essere me stesso,

Ed essere un altro non vagheggio!

Coprendomi di buio notturno ,

Sorrido a un raggio.

Se solo sapessero quanta pena è nascosta

Nella chiara maschera del mio volto!

Pesanti premono le lastre di marmo,

E il mio amore è solo il sogno di un morto.

Vi prego: non rimproveratemi per il sorriso,

Lasciate tutto ciò che terreno non era!

Se potete – capite:

Non essere se stessi è una fatica vera,

1911

Il cuore ritornello di preghiere

                                                        A Ja.Bljumkin

A chi servono fama, posate d’argento,

A chi molte lacrime versate, –

A me basta un briciolo d’amore,

E un po’ di sigarette fumate.

A me basta un briciolo d’amore,

Senza isterismi, senza giurare,

Perché io possa una qualche Olečka

Dalla testa ai piedi succhiare.

In realtà non serve l’infelice immortalità,

La questione del mondo risolvo con successo, –

Se credo in qualcosa – è nei tessuti di lana,

Se so – è non più di quanto Cristo sapesse.

Ed ecco dietro l’anima, quasi goffamente

A larghe linee e senza perplessità,

Maggio viene rubicondo, festeggiando

Con le chiacchiere dei passeri – la vastità.

Prego di andare modestamente in fumo,

Di non lasciare orfani – né bambini, né versi;

E quando morirò il mio corpo spalluto lavate

Nell’acqua dolce dei feuilleton.

Assaggiate il mio nome, mettetelo nella Bibbia.

Viveva, sembra, un tale comico santo,

E tutta la vita cercò un soldo d’amore,

La pace amore chiamando.

Ed è buffo chi in Dante ereditò l’amare

E dalla testa ai piedi si rattristava,

Il suo corpo di notte per otto rubli

Alle allegre ragazze confessava.

Sulle tempie anziché vene, aveva gigli,

Se piangeva nel fazzoletto c’era sangue,

Era l’ultimo nell’unico amore

Del cognome Agasferov già esangue.

Ma ancora non sono morto, prendendo un raffreddore,

Dipende tutto se Cristo passerà per l’Arbat, –

A me basta un briciolo d’amore

E un po’ di sigarette fumate.

1918

Percento sul dolore

Dai canti russi ereditata la tristezza e

Il dolore, da cui la patria è ferita,

I poeti la moneta sonante della passione

Non sono liberi di spendere nella vita.

E con l’avarizia ospiziale delle vecchiette

Della fame la nostra vita è preda,

Calcolando, come ultimo centesimo,

Una gioia o una malattia spesa.

Noi prodighi con invidia amiamo tutto,

I giorni a chi vive affrettiamo,

Comprimiamo con un misero bilancio

Ciò che ogni giorno per l’anima spendiamo.

E tutto, dal pianto alle lettere d’amore,

Controllato con le proprie entrate,

Tutto ciò che rimane va concretamente

Sul conto corrente delle poesie create.

E così dalla giovinezza alla morte,

A once misuriamo la nostra storia,

Come percento sul dolore investito,

I versi ci rendono un centesimo di gloria.

Tutto affinché il nostro casuale erede,

Il lettore, preso in mano un canto esclami:

– Quale ricchezza possedeva il defunto –

E ha tormentato la vita con la fame!

1923

Solitudine

Sono triste in una bettola di periferia,

Il vino non allieva il tormento,

E la bufera argentea punge

Dalla finestra rotta dal vento.

Una scia grigio-azzurra di makhorka

Nell’isbà semioscura si stende spessa.

– Ah! Guarda, balena dalla bufera,

Tu, delle nevi mia principessa!

Dai prati, dalle folte foreste,

Dai lontani campi perlati,

Mostrati a me sulle ali d’argento

Dei cigni di neve azzurrati.

Mostrati sulla strada senza luna,

Dalla nebbia un attimo esci fuori,

E con la mano triste e severa

I miei occhi infiammati sfiora!

Devo davvero sopportare da solo

Questo mio dolore-sorte?

O coricarmi solo in una isbà

Di cedro fragrante di morte?

Nessuno! Io solo in periferia

Di pesante vino prendo una cotta,

E l’argentea bufera punge

E gioca con la finestra rotta.

1925

Per questo è così facile vivere al mondo…

Per questo è così facile vivere al mondo,

Perché non sottrae l’ultima pace

E perché siamo ancora un po’ bambini,

Solo con una testa assai sagace.

Ci sono toccati soltanto svaghi

E baldoria negli spazi esistenziali,

Soltanto amiche credulone

E amici del tutto sleali.

Fingendo che l’inganno non è eterno,

Noi a un tratto ci sorprendiamo,

Che dopo una così amichevole serata

Solo sogni dolorosi sogniamo.

Questa tristezza, giunta da prima,

Come eredità dobbiamo conservare,

Perché non c’è posto per la speranza,

Perché la sorte non possiamo cambiare.

Si può vivere solo di malanni,

Così la vita è chiara fino alla semplicità.

L’autunno con l’inganno porterà via tutto

Ciò che la falsa primavera prometterà.

Poiché siamo un po’ bambini

Con una testa che tanto vale,

Ci è  quasi facile soffrire nel mondo,

Dove l’esito è la pietra tombale.

1929

Addio

Sei cambiata come moglie,

Ebbene, calunnia pure, tormenta la vita,

O mia misera patria

Di ricchezza infinita!

Tu diventi più bella ogni giorno

Così salato e brutale, e noi figli,

Incantati, brindiamo

Agli anni vermigli.

Tu per sempre hai dimenticato,

Tu  fermamente, o patria, hai dimenticato

Quegli anni arruffati,

Quando mi hai tanto amato!

Oh, sei tu quella? O io non solo quello?

Ma dopo l’addio è chiaro,

Che le tue parole non cantano

Come il mio silenzio amaro…

Accetta l’addio per sempre,

Fa’ presto, non arrossire, per favore,

Ma ridi e metti l’urna con le ceneri

In una sala del museo migliore.

Ancora non tutto è morto

Nella tua anima involontariamente

Fraterna, mi hai avuto come amante fedele,

Stupido e commovente!

1931

Guarda: sui tetti il passo spezzando…

                                   Un poema non vale mai

                              Quanto un sorriso di labbra voluttuose…

  1. Puškin

Guarda: sui tetti il passo spezzando,

La notte in fretta si nasconde al giorno.

Oh, quanto vento, quanto maggio

Nel tuo sussurro ascolto!

Tra il possibile e la chimera

Un confine non s’è mai messo,

E come in una fede inaudita,

Nel tuo amore io mi riverso.

Ad alta voce mi rallegro,

E in versi di gelsomino insegni,

Che tu, primavera, in inverno ed estate

In grande fretta regni!

E con tremendo fastidio confondi

Dei destini tracciati il letto.

E il cuore è diventato un occhio azzurro,

Di tutta l’anatomia a dispetto.

Che nelle generazioni future

Osino pure rimproverarmi e dire,

Che in tanti mirabili sogni

Io la mia vita ho saputo dormire,

Che non sapevo sussurrare più piano

Della piena nel sangue,

Che la migliore strofa è più futile

Di un amoroso istante.

E il cuore con andamento insolito

A stabilire è obbligato:

Tutto l’irrilevante è necessario,

Perché il rilevante sia salvato.

1933

Due citazioni

     Non perché mi sono spicciolato in cento monetine, o perché invece che dell’anima mi accontento di un semolino di rubli, – io per la centesima volta descrivo il colore delle pupille e le carezze della mia amata.

     Un poeta è quel pazzo che siede in un grattacielo in fiamme e tempera con calma le sue matite colorate per disegnare il fuoco. Aiutando a spegnere l’incendio, diventa cittadino e cessa di essere un poeta.

(C) by Paolo Statuti

Varvara Aleksandrovna Butjaghina

12 Lug

    

Varvara Aleksandrovna Butjaghina nacque a Elets nel 1900 e morì a Mosca nel 1987. Fino al 1907 crebbe in una famiglia ortodossa numerosa, dove tutti amavano la poesia e l’arte. Nello stesso anno si trasferirono a Mosca, dove la poetessa nel  1918 terminò il ginnasio femminile “S.A. Arsen’eva”. Successivamente studiò alla Facoltà di Storia e Filosofia dell’Università e all’Istituto Superiore di Arte e Letteratura. Iniziò a scrivere poesie all’età di nove anni. Pubblicò due raccolte di versi: Ranuncoli (1921), con la prefazione del Commissario del Popolo all’Istruzione negli anni 1917-1929 Anatolij Lunačarskij (1875-1933) e Vele (1926).

     Fu tra i fondatori della nuova corrente letteraria dei “Neoclassici”, i quali, proclamando le opere di Pushkin l’apice della creazione, tendevano alla “semplicità e chiarezza classica”.

     Nel 1925 sposò l’architetto Viktor Khodataev, dal quale ebbe i figli Jurij e Kirill, e dopo la morte del marito fu segretamente sposata col filosofo Vasilij Rozanov.

     Dalla fine degli anni ’20 non pubblicò più nulla, ciò che diede origine a voci sulla sua morte per tifo. In realtà, ha spiegato il figlio Kirill, Varvara smise di scrivere poesie perché “non volle iscriversi al Proletkul’t” (Cultura proletaria), organizzazione culturale attiva negli anni 1917-1932 nella Russia Sovietica.

     Io personalmente penso che Varvara, dopo l’uccisione di Gumiljov e di altri poeti, dopo le  controverse morti di Esenin e Majakovskij, fosse terrorizzata dalla consapevolezza di essere una poetessa  non cortigiana, e abbia semplicemente scelto di vivere. Considerato il numero dei poeti che, soprattutto negli anni seguenti, furono ripetutamente giustiziati da Stalin, detto l’”assassino della Poesia”, o si suicidarono, bisogna dire che Varvara fu lungimirante. Scelse di tacere, benché fosse considerata un grande talento, forse non ancora del tutto esente da inflenze di Blok e Akhmatova, ma che avrebbe certamente creato in futuro opere più originali e più profonde. Optò per la vita e infatti, dopo aver lasciato la poesia, visse a lungo, lavorando come sceneggiatrice presso lo studio Sojuzmultfilm e come revisore responsabile per il quotidiano Komsomolskaja Pravda.

     Però non posso non chiedermi se sia possibile che una poetessa come Varvara non abbia davvero scritto più niente nella sua lunga vita. Probabilmente in segreto lo ha fatto, e allora dove sono nascoste le poesie non pubblicate? Forse bisognerebbe chiederlo alla Poesia stessa, questa  bizzarra imprevedibile maliarda regina dei sentimenti, che vaga nei cieli del mondo e decide le sorti dei poeti.

     Lo scrittore Boris Gusman (1892-1944) nel suo libro Cento poeti (1923) afferma: «L’anima di Varvara Butjaghina è aperta al mondo “con tutte le finestre”. Essa ingoia avidamente ogni granello di gioia, ogni granello di solare felicità che una vita munifica dona. Le sue poesie sono ricche di immagini, non senza motivo Lunačarskij le ha paragonate agli arazzi e alle vetrate.

     Lo scrittore Pjotr Jarovoj (1887-1951) in un suo articolo dedicato alla prima raccolta di Varvara Butjaghina dice: «Negli attimi di riposo sfogliate il libretto Ranuncoli e proverete relax e soddisfazione. È vero, un settario politico, dopo averlo letto dirà certamente che non lo approva. Del resto, nelle poesie di Varvara Butjaghina non si parla di rivoluzione, di ottobre, di rivolta e di programma produttivo. In generale in esse si parla di giovinezza, entusiasmo, albe di primavera, e anche un po’ di malinconia primaverile. Ogni riga colpisce per lirismo, freschezza e musica delicata… Qual è in fondo il compito rivoluzionario della poesia? – chiederà chi ha letto questi versi. – Non è soprattutto quello di elevare, dare refrigerio all’anima, suscitare sentimenti gioiosi verso la vita? Ha ragione Lunačarskij, concludendo così la sua prefazione alla raccolta: «Compagni, non siate aridi, non siate troppo unilaterali, anche in questo tempo sacro». Una pietra, un fiore, una nuvola entrano nella tua coscienza come qualcosa che ti riguarda. Conoscerai te stesso e ciò che ti circonda, ti circonda non per caso, non perché la poetessa ti abbia costretto, ma perché sei riuscito a scinderti negli atomi del mondo e li hai di nuovo ravvivati con la gioia di essere. Questa poetessa vive l’istante attraverso l’immagine, e l’immagine nei suoi versi è intimamente fresca e profonda. In generale nella sua poesia si avvertono geniali risultati artistici:

Le nostre anime sono laghi scorrenti.

Tutto fluisce ciò che nei sogni era.

Da un bambino con occhi di fiori

Compro un soldino di primavera.

oppure:

Dove scivolerò lungo il pendio dorato?

E ogni giorno sempre più tenero posa

Il tramonto nel languore serale

Manciate di coralli e pietre rosa».

Per concludere questo breve testo introduttivo ho scelto questa strofa:

Il vengo dall’eremo del miele.

Io sono tutta per un’impresa alata.

E Dio, crocifisso dai dolori

Dalla croce tolgo allietata.

Poesie di Varvara Aleksandrovna Butjaghina tradotte da Paolo Statuti

*  *  *

Ha tessuto una ragnatela dorata

Il ricamo di gialle ninfee nel prato.

Manterrà il cancelletto bianco,

Se di desiderio l’hai così avviluppato?

Ho sparso i passi lungo il pendio,

Per me oggi è un giorno di miele.

Coglierò la menta a manciate,

Nuoterò nel profumo di abete.

E poi, dimenticati giorno e ora,

Il mio braccio bruno ti cingerà.

La notte spegnerà il fuoco del tramonto

E la dorata brace soffocherà.

*  *  *

Lo so: la morte verrà furtiva,

E il branco delle albe si quieterà,

E il ricordo con un lieve brivido

In fretta la vita sfoglierà.

Il crepitio delle fredde primavere

E dei sogni gli arrivi d’oltremare,

Le discese nelle cupe profondità

E il sole che sulle alture appare.

E i caldi lati dell’amicizia,

Le allegre chiassose sere,

E ciò che io possedevo,

E che avrei potuto avere.

E nel cuore verrà il rimpianto:

Che di tutti l’amore non ho avuto,

Che mai più io ritroverò

Il tempo che ho perduto.

Bufera dorata

Gioca col purpureo la bufera:

Ogni giorno più allegra e spensierata

Torce le foglie e al vento si stende

Come dai cani la volpe dorata.

Ha scaldato l’aria vetrosa,

La mia soglia di oro ha riempita.

Non resterò a celare nelle stelle

I cocci di un’estasi finita.

Getterò i pensieri e il frutteto,

E nel mondo, il sole seguendo,

I campanelli delle albe ascoltare,

Sonoramente all’amore rispondendo…

Tu tornerai prima o poi

Con le labbra di polvere riarse,

Nella caduta stellare delle foglie

Vedrai – fuoco e tracce scomparse.

Solo il vento mi troverà.

E per giunta, il bagliore interrogato:

 – È andata – sembra – a dare ai miseri

Passanti la gioia di un granello donato.

Primaverile

Fuggirò dalla sorda galleria

A discorsi e sguardi annoiati,

Se la sera è dolce e viscosa

E i meli di neve velati.

È bello indugiare su un dirupo,

Su tappeti di villaggi a distesa,

Quando ogni strada è fortunata,

E i cuori sono pronti a ogni impresa.

Aperte le braccia come ali,

Squillare e andare con la testa

In quest’aria colma di gelsomino,

In questo prato come una festa.

E la luna sprizzerà abbagliante,

Scorrerà sulle foglie, sulla rena

E ordinerà nella fragrante vita

Di superare la giovanile pena.

Strettamente con ansia primaverile

Legherà a un tratto mani e piedi,

Ecciterà e alletterà con la strada

Per i prati variopinti dei cieli.

Là le stelle ondeggiano al vento,

Cadendo a terra, nei giardini…

E andrai, – e la friabile erba

Mostrerà segni azzurrini.

*  *  *

Per la strada, la distanza luminosa,

Ho lasciato l’intimità e il ritrovo,

E sonore scrosciano sulla sella

Le pellicce con l’amore nuovo.

Il mio meriggio è semplice e scuro,

E la mezzanotte – pungenti foghe.

E la luna – un leoncino dorato –

In terra la criniera scuote.

Viaggiatore col turbante per  il vento,

Chi sei – io non domanderò.

Per abbeverare i suoi cammelli

Una fresca pelliccia scioglierò.

Oh, potrai dolcemente tinnire

E più aromi verserai?

Ma partendo, monete di rame

Sui palmi insaziabili porrai.

Con un silenzio rovente i sonagli

Dalle sabbie saranno schiacciati,

E il vento non estrarrà gli anelli

Nella sabbia da me calpestati.

Disgelo

Sul vetro – riflessi sfumati di azzurro.

Una ragnatela di fronde gonfiate.

Io getto tutti gli stracci invernali

Nel disgelo delle primaverili nottate.

Fluite dietro il ghiaccio o ceppi

Delle pesanti immobili ore.

I gracchi dal campanile della chiesa

Alle lastre lanciano il loro clamore.

Agita le nubi trasparenti

Il fresco vento alle giornate finite.

Domani il sole una coppa di miele

Porgerà alle labbra intorpidite.

O sole, tu sei l’apostolo migliore.

Le tue parabole non è dato evitare.

Dai alla mia anima remi bianchi.

Nella tua baia blu voglio remare.

In primavera

Icone, silenzio e penitenti,

A voi d’inverno il mio salmo è cantato.

Trovo la mia impronta dell’anno scorso

Su un allegro ciottolo asciugato.

Le nostre anime sono laghi scorrenti:

Tutto fluisce ciò che nei sogni era.

Da un bambino con occhi di fiori

Compro un soldino di primavera.

E le viole si radicano nel palmo

Con un’onda di ametiste-odori.

Per la fervida orazione la primavera

Indossa un felonio* a vivaci colori.

E io vado con gli occhi aperti.

Il vento, ogni mio giorno è disperso.

Solo senti battere sotto le lastre

Il cuore della terra ridesto.

* Paramento dei sacerdoti ortodossi.

Il cammino

I cattivi rametti al buio pungono.

E frusciano presso una porta scura.

Dei miei giorni passerò il recinto,

Prenderò il sentiero dell’aurora,

Per essere una raminga blu.

Messa nello zaino la tristezza,

L’anima non guarderà mai indietro,

In nessun luogo dirà “ormeggia”.

Cogliendo il suono del vento,

Passerò per villaggi ultraterreni,

E con gli occhi – selvatiche api –

Pungerò i tuoi sonni sereni.

E con una stella – candela caduta –

Il mio cammino voglio segnare,

Perché, tenuto il tempo con le briglie,

Tu possa farmi ritornare.

(C) by Paolo Statuti

Ivan Vasil’evich Gruzinov

6 Giu

  

Una simpatica foto del poeta con Esenin

Il poeta e critico Ivan Vasil’evič Gruzinov nacque l’8 novembre 1893 nel villaggio di Šebaršino in una famiglia di contadini. Nell’infanzia ascoltava i canti e le fiabe, che erano il passatempo della famiglia. Dopo essersi diplomato alla scuola rurale per insegnanti, seguì le lezioni all’Università “A.L. Šaniavskij”. Dal 1915 fu al fronte e dal 1918 al 1920 lavorò a Mosca nel consiglio distrettuale per l’educazione extrascolastica, poi come poeta e critico nella redazione della Gazzetta rossa di Leningrado, nonché nella casa editrice dell’Unione dei Poeti.

   Cominciò a scrivere versi quando ancora frequentava la scuola rurale e il suo debutto avvenne con una poesia pubblicata dalla rivista Il luppolo nel 1912. Era molto amico di Sergej Esenin e, come altri amici di quest’ultimo, anche lui ha avuto una triste esistenza. Negli ultimi anni di vita di Esenin gli fu particolarmente vicino, tanto da essere soprannominato la sua “bambinaia”.

   Per la pubblicazione della piccola raccolta Serafici ciondoli, giudicata oscena, fu arrestato e processato dal Tribunale della Rivoluzione a Mosca. Una seconda volta fu arrestato per il cosiddetto “caso dei quattro poeti”, cioè Sergej Esenin, Sergej Kličkov, Piotr Orešin e Aleksej Ganin, processati per aver fatto commenti contro gli ebrei in un locale pubblico.

   Nel 1924, insieme a Esenin, annunciò lo scioglimento del gruppo imaginista. Ricordo qui che egli è noto anche come autore del trattato-manifesto L’essenza dell’imaginismo. La terza volta fu arrestato l’11 giugno 1927 nella sua abitazione a Mosca, con l’accusa di “propaganda volta ad aiutare la borghesia internazionale”, e fu esiliato in Siberia per tre anni. Il 16 agosto fu privato del diritto di risiedere in sei città, tra le quali Mosca e Leningrado. Nell’estate del 1931 poté tornare a Mosca. Negli anni 1939-1940 preparò la raccolta finale di poesie, che però non vide mai la luce durante la sua vita. Passò gli ultimi anni a Mosca lavando bottiglie in una farmacia per guadagnare qualcosa. Nel 1942 morì di fame a Kunzevo (oggi un quartiere di Mosca). Della sua tomba non c’è traccia.

   Nel 2016, per la prima volta 75 anni dopo la sua morte, è uscita a Mosca una raccolta delle sue opere, comprendente testi pubblicati su giornali, riviste e antologie, le sue raccolte di poesie stampate negli anni 1915-1926, tra le quali Tamburelli del dolore – una curiosa fusione di futurismo, simbolismo e imaginismo, La Rus’ dei casolari, Lo scialle color cremisi, La trappola delle parole, nonché i suoi ricordi e articoli critici legati, tra gli altri, a Esenin, Majakovskij, Chlebnikov e Pasternak.

   “Gruzinov è un fenomeno al crocevia di diverse correnti letterarie, – ha affermato il nipote del poeta Michail Zenkevič e vicepresidente della Società Gumiljov, Sergej Zenkevič, – peccato che si sia trovato nella condizione del “parente povero”, che consideravano un “intruso” tra gli imaginisti e uno arrivato tardi per potersi unire agli acmeisti”.

   Questo poeta, nella cui creazione un posto notevole è occupato dalla campagna russa, per tanto tempo è rimasto ingiustamente nell’ombra anche in patria. Egli merita, a mio avviso, di essere apprezzato e ricordato, non solo perché fu uno dei più cari amici di Esenin, ma soprattutto perché anche lui ha lasciato le sue preziose gemme nello scrigno della poesia russa. Sono lieto di averlo scoperto e di aver tradotto e pubblicato nel mio blog dieci sue poesie.

Poesie di Ivan Gruzinov tradotte da Paolo Statuti

Nell’ora del tramonto purpureo…

Nell’ora del tramonto purpureo, –

Nell’ora in cui l’oro si offusca,

Si oscurano i bianchi palazzi, –

Mi sembra che gli dei siano vivi.

Mi sembra che entri in lotta

Il dio della luce col dio della notte.

Il dio della luce è stremato.

Il suo sangue sgorga.

Tutto è di porpora. Si offusca l’oro.

Si spengono i palazzi scarlatti.

1911

O poeti…

O poeti,

Affascinati dall’iridescenza della musica,

Voi – visione offuscata del Sesso.

Due fattori

In voi coesistono separatamente –

Maschile e femminile.

E per questo vi sono intimi i bambini e il genio.

Ma la vostra illuminazione, il palpito,

Le vostre visioni turbate

Non sono il presagio – intuizione del Futuro,

Quando in un unico sembiante

Si fonderanno indivisibili i due fattori della vita?

1913

Quando docile e silenzioso ero…

Quando docile e silenzioso ero

Davanti a te, i ginocchi piegati, –

Coperto dal buio dell’abito nero,

Illuminato dal fatidico luccichio

Dei tuoi occhi, – ho sognato le ombre

Dei cristiani un tempo giustiziati…

Alzate le braccia esultanti,

Essi pregavano nell’arena,

Tra i suoni delle trombe vibranti.

E in silenzio si avvicinavano i felini.

Ebbro di vendetta e persecuzione,

Guardava i giochi del giorno di festa

Con il serto e la porpora Nerone.

Settembre 1913

Fragili ghiaccioli dei tetti indorati

Fragili ghiaccioli dei tetti indorati

Il sole del mattino

Pallido

Bruciato da piume paglierine.

S’intrecciano dietro i vetri colorati

Le trecce di fiabesche principesse.

Il sole ha teso gli umidi fili.

Dai tetti di mezzogiorno

Alla neve.

Con la coltre primaverile a rischiarare.

Si sciolgono dietro i vetri colorati

Le trecce delle fiabesche principesse.

Febbraio 1914

Turbinando sul freddo argento…

Turbinando sul freddo argento

Delle ali del lago, rosseggiano i fumi.

E il mattino come un fuoco lento

Brucia i paramenti annebbiati.

La penombra azzurra sui rami seccati

Si è posata come evanescente peluria.

Scorre la folta calura.

E con l’afa il blu tremolante

Tintinna come rete di vespe vetrose,

Agita i favi delle campagne.

Più breve è il moto delle falci bramose.

Sull’erba si china pigro il sole.

E nell’avena raggiante

Lentamente al vecchio villaggio loro

Le falciatrici sotto le ascelle portano

Bracciate di lune-occhi d’oro.

1920

*  *  *

Sull’asfalto ho ricordato garofani e favi,

Piangeva la sega arrugginita,

Brillava e cantava l’ascia, gemevano gli aratri.

Tu eri tutta dal sole indorata,

L’odore della pelle. L’odore delle volpine tane.

Spruzzi di iride sulle ciglia,

Coi palmi bevevamo alla sorgente.

Non scorderò l’azzurro delle sottili dita,

Il neo sull’esile seno avrò sempre in mente.

Come torrida rete ondeggiava il fogliame.

Nei boschi il bromo rosso scuro

Incollava le lingue alla scorza di betulla.

E quando ci giuravamo amore e fedeltà,

Dai tuoi capelli si stendeva, o fanciulla,

Sull’erba, sui ginocchi un’ombra rosata.

                                 2

Il profumo del pino a primavera.

Canta la forcola di acciaio,

Libellule sull’acqua svolazzano?

E più diafana dei sogni degli uccelli

La volta del bosco, l’onda del fiume.

Gli occhi dei pescatori ricurvi

Più chiari del lino la mattina,

Più pallidi del celeste turchese.

Vibrano i muscoli.

Tendi i muscoli più resistenti delle corde.

Verso la riva la pesante poppa.

L’alga impigliata, gli ortaggi, le anatre.

I petti villosi.

Respirano ritmicamente.

Fruscia la ruvida rete.

Il viscido olivello irrita la gola.

Scorrono gli zaffiri delle scaglie, mercurio.

Il pescatore non stima a carati.

Troppo rozze la mani,

Incallite dal remo.

E sono sparse le rosse branchie.

La sabbia in bocca.

E come involucro fumante

Il fuoco dorato delle pupille.

1923

Passeranno centinaia di anni, ma io resterò…

Passeranno centinaia di anni, ma io resterò,

Nel silenzio tombale dei libri a marcire.

Sfiorami, lontano, con le labbra,

China la testa senza nulla dire.

Invano ho atteso l’incontro desiderato,

Tu eri solo un vago sogno che resta.

E, baciando i capelli e le spalle

Delle donne, dicevo: non questa, non questa.

Ogni pagina avvizzita

Risusciterai con la primavera che arriva.

Il cuore senza vita comincerà a battere

Come selvatica campanella boschiva.

2 agosto 1925

Parlami nel modo più semplice che puoi…

Parlami nel modo più semplice che puoi.

La saggezza dei libri non mi dice più nulla.

Ora mi canta il ruscello dietro il boschetto,

Presso il fuoco brilla la scorza di betulla.

Ogni sera il pioppo tremulo sospira –

Cose tremende sembra voler narrare –

Ogni sera dalle nebbie azzurre

Con gli occhi azzurri un’ondina appare.

Di garofani profumano i capelli

E come mela è il suo elastico petto.

Il suo abito a righe rosate

Svolazza leggero e diafano al vento.

Non mi spaventa il demone del bosco.

I colloqui sono brevi. Comprenderai.

Porto spesso con me un coltello rosso.

13 settembre 1925

I cavalli sono annegati nella nebbia…

I cavalli sono annegati nella nebbia.

Nel bosco senza foglie il buio è calato.

Essere triste e cantare non perché

È stato giudicato l’irrevocabile.

Io dico: ciò è stato. –

Falò. Dei primi incontri la frenesia.

Come un soffione dalle lievi ali

Dalle sue braccia lo scialle volava via.

E i rintocchi della campanella,

E lo scalpitio dei morelli non cessa.

E la luna sottile e gibbosa

Volava verso di noi da destra.

Ormai è tardi, tardi. Difficile andare.

Nebbia notturna. Il bosco è scomparso.

Invano, o cuore, metti puntelli

A ciò che è del tutto arso!

16 novembre 1925

Autunno. Boscaglia. Vago senza meta…

Autunno. Boscaglia. Vago senza meta.

Si fa sera. Si spegnerà presto

L’arco giallo del tramonto.

Oltre il burrone si fredda il deserto.

Al di là – i campi arati. Il corpo della terra

Dondola col ventre arrossato.

Fruscia col cupo fogliame

Un vecchio ontano dimenticato.

Odore di resine. Batte ritmica la pala.

Stringendo il cappio cadrò.

Madre-terra! non spunterò come il grano.

Una stellina sul campo non accenderò.

Che m’importa di chi mi segue!

Per loro la pena di vivere non vale.

Ecco soltanto io col fardello terra

All’ultimo funesto cavezzale.

25 dicembre 1925

(C) by Paolo Statuti

Boris Ryžij

24 Apr

  

      Il poeta russo Boris Ryžij nacque a Čeljabinsk l’8 settembre 1974 da una famiglia dell’intellighenzia. Il padre era geofisico e la madre medico epidemiologo. Fin dalla tenera età il padre e la sorella Olga gli leggevano le opere di Puškin, Lermontov, Brjusov, Blok, Nekrasov.

Così il poeta ricordava gli anni della scuola superiore: «Ho frequentato una scuola come tante. Era terribile. Si ferivano a vicenda, vincevano a carte ingenti somme e così via…Studiavo con difficoltà e mia sorella scriveva per me i temi di letteratura».

   Nel periodo scolastico si occupava anche di sport e di arti marziali. Nel 1988 vinse un campionato di boxe nella sua categoria. Al tempo stesso scriveva poesie,  romanzi gialli e si interessava anche di musica. Nella decima classe incontrò Irina Kujazeva, il suo primo amore.

   Nel 1991 Boris entrò all’Accademia Mineraria e Geologica degli Urali e nello stesso anno sposò Irina. L’anno seguente ottenne il secondo posto al Festival di Poesia Studentesca. Cominciò a essere pubblicato sempre più spesso.

   A metà gennaio del 1993 Irina diede alla luce il figlio Artemio. La giovane famiglia aveva bisogno di guadagnare per mantenersi, e Boris trovò lavoro come guardiano, mentre la moglie portava a casa i progetti e li trascriveva al computer.

   Fin dalla metà degli anni ’90 il poeta si recava a Mosca e a San Pietroburgo per partecipare a festival e incontri letterari. Verso la fine del decennio incontrò per la prima volta i poeti Evghenij Rein e Evghenij Evtušenko. Rein lo definì «l’ultimo poeta del XX secolo e il poeta più talentuoso della sua generazione».

   Nel 1997 si laureò presso l’Accademia degli Urali, poi entrò in una scuola di specializzazione e ottenne un lavoro come ricercatore presso l’Istituto di Geofisica. Disse di averlo fatto per evitare il servizio militare e non lasciare la moglie e il figlio.

   Nel 1999 a San Pietroburgo uscì la prima raccolta di sue poesie dal titolo E tutto ciò…Per questa raccolta ottenne postumo il premio Palmira del Nord. A ottobre divenne membro della filiale di Ekaterinburg dell’Unione degli Scrittori Russi.

   Ha scritto più di mille poesie, molte delle quali tradotte in diverse lingue. Alcuni suoi testi sono diventati canzoni di successo.

   Il’ja Falikov nel suo libro su Boris Ryžij ha scritto che nel periodo marzo-aprile del 2001, il poeta era depresso e il medico gli aveva prescritto nuovi medicinali. Immagino che il poeta fosse molto depresso, fino al punto di togliersi la vita impiccandosi, la mattina del 7 maggio dello stesso anno. Lasciò scritto: «Ho amato tutti. Tranne gli sciocchi». Aveva solo 26 anni!

   Evghenij Rein ha detto che la sua morte è stata «una tragedia pari al suicidio di Majakovskij, Esenin e Cvetaeva». Secondo Evghenij Evtušenko, «già quando aveva 21 anni, Boris Ryžij aveva predetto la sua morte. E benché egli parlasse di un’altra persona, era chiaro che si riferisse a se stesso. Egli, per sua disgrazia, non ha incontrato sulla sua strada Boris Pasternak, che avrebbe potuto consigliarlo, come fece con me nel 1960, di non predire in nessun modo nei versi la propria tragica fine, poiché la forza della parola è tale, da spingere inevitabilmente i poeti verso una pallottola o un nodo scorsoio…».

   Sulla lapide della tomba del poeta sono incisi gli ultimi versi della sua poesia Dall’album di fotografie, scritta nel 1998:

Anima mia, nel fuoco e nel fumo,

lungo un sentiero azzurro-blu,

mia cara, verso i tuoi cari vola.

   Ahimé, quante pallottole nei petti e quanti nodi scorsoi nei colli dei poeti russi! Erano loro ad amare la morte o la morte ad amare loro? Purtroppo sono vere ambedue le cose…

Poesie di Boris Ryžij tradotte da Paolo Statuti

Irrompe, interrompendo Bach

…Irrompe, interrompendo Bach,

non la biasimo – sottile è la parete mia.

Musica da galera, né amarezza, né paura,

solo ignoranza, sciocchezze, malinconia.

Pazza, sfacciata, come se la morte non ci fosse,

ragazza appiccicosa, gli occhi come due zeri.

…A che mi servono i concerti di Brandeburgo

e perché questa vita? Oh, come saperlo vorrei!

1996

Sopra le case

Sopra le case, le case, le case

pendono nuvole blu –

e rimarranno con noi

per secoli, secoli e ancora più.

Solo vapore, solo bianco nell’azzurro

sul suolo di pietre gremito…

non periremo mai da nessuna parte,

noi più solidi e più teneri del granito.

Che i nostri gusci periscano

con la geometria della vita terrestre –

guardati intorno, baciami sulle labbra,

dammi la mano e con me resta.

E quando noi ci lasceremo,

sulle tue ali porta tu

solo vapore, solo bianco nell’azzurro,

azzurro e bianco nel blu…

1996

Non alzarti, lo copro io

Non alzarti, lo copro io, dormi,

finché la stella autunnale

sulla tua testa risplende

e i fili umidi sembrano cicale.

Accompagnano il silenzio col suono,

ma è un silenzio con un senso preciso,

come se da qualche parte capissero

che il destino di qualcuno è già deciso.

Prolungando questo suono, di nuovo

accorciandolo, sai che la musica esiste,

puoi isolarti, aggiungere una parola,

puoi cantare di te in modo triste.

Della stella autunnale, della strada,

del cielo azzurro e vuoto,

di una zingara che va in prigione,

degli occhi neri di un viso ignoto.

E gli occhi chiusi di Artemio

sognano che io per sempre

sono venuto e non lascerò la casa …

E la stella autunnale risplende.

1998

Alla finestra sullo sfondo del tramonto

Alla finestra sullo sfondo del tramonto

un schifezza gialla germogliava.

Nell’alloggio del grassificio

una certa N., tra gli altri, abitava.

In stato di leggera sbornia,

io le donavo ogni tipo di rosa.

Spogliandomi, lasciando le scarpe,

parlavo tanto per dire qualcosa.

Dalle labbra rosse usciva una volgarità,

il sopracciglio vibrare vedevo.

È imbarazzante per me parlarne,

ma sempre le poesie le leggevo.

Le leggevo sulla vita del poeta,

della sua morte facendo menzione.

E per questo, per questo, per questo

questa N. mi baciava con passione.

Mi baciava e mi amava tanto,

versava il vino con piacere.

Parlava ridendo di cose tristi.

Mikhalkova i film amava vedere.

Da solo mi sono messo in cammino,

barcollavo un po’, un motore frenava.

Vicino al cimitero, al circo, alla prigione,

un idiota in silenzio mi portava.

E, chiesta una sigaretta, ero triste

perché, quale che fosse l’amore,

io un giorno qui non verrò più.

E lei mi aspettava con tale ardore.

1999

Mi manca la tenerezza nei versi

Mi manca la tenerezza nei versi,

e voglio che essa sia evidente,

come inevitabile o come noncuranza.

E io ti bacio precipitosamente.

O mia stupida musa!

Tu, girandoti, nascondi il pianto,

ed io urlo, per questa misera prosa

non struggendo il cuore, il viso non celando.

Come i vecchi, come gli angeli, mia cara,

vivremo soli nel mondo intero.

Alla tua guancia sto attaccato.

Tu singhiozzi, io rimo con «singhiozzato».

1999

Autunno

Le rape dal campo erano già raccolte,

bietole, patate, tutto era già ammassato.

Sullo sfondo del cielo che si distendeva

cadeva la prima neve e il cuore era turbato.

Seguivo la neve, pensando a

chissà cosa, le betulle mi seguivano.

Con l’azzurro si mescolava l’argento,

argento e azzurro si mescolavano.

1999

L’ubriachezza è passata e il mondo non è cambiato

L’ubriachezza è passata e il mondo non è cambiato.

La musica è giunta, le parole sono finite.

Un motivo si è fuso con un altro motivo.

(Una strofa molto ambiziosa.)

…ma forse non c’è bisogno di parole

per tali – quali tali? – somari…

Sotto le nuvole azzurre-blu

sto fermo e le braccia ottusamente distendo,

tutto di musica riempiendomi.

1999

Rammenti la pioggia in via Titov

Rammenti la pioggia in via Titov,

che cessò tuttavia pochi momenti

dopo le lacrime e le parole dette?

Tu questa pioggia non rammenti!

Rammenti che restammo

un’ora tra i cespugli gelati,

e svogliati ci guardavano i tram

coi loro occhi assonnati?

I tram assonnati guardavano intorno,

e l’acqua dai loro musi colava.

Cosa ancora, Irina, non so,

ma di certo una musica sonava.

Cantavano violini invisibili,

o altro che puoi immaginare,

con due amanti in un viale deserto,

la musica non può non sonare.

Starò sulla soglia un po’ di tempo,

poi per sempre salperò a un tratto,

senza musica, percorrendo la strada

che per venire qui abbiamo fatto.

E poiché il cuore non ha scordato

il tuo sguardo, bisogna anche ricordare

di dire grazie per tutto ciò che è stato,

perché non c’è niente da scusare.

2000

Non abbandonarmi

Non abbandonarmi, quando

la stella di mezzanotte brilla,

quando in strada e in casa

tutto va a meraviglia.

Senza un perché, senza ragione,

ma solo così e intanto

lasciami, quando provo dolore

va’ via, lasciami con me soltanto.

Che si svuotino i cieli.

Che i boschi abbiano un cupo colore.

Che prima di addormentarmi

io chiuda gli occhi con terrore.

Che l’angelo della morte, come in un film,

versi un veleno nel vino,

sconvolga la mia vita

e getti croci sul lino.

E tu rimani in disparte –

del ciliegio più bianca, e piano,

senza toccarmi, ridi,

tendendomi la mano.

2000

Non serve niente, neanche la gioia

Non serve niente, neanche la gioia

d’essere amato,

neanche una calda compassione,

il melo in giardino piantato.

Né tristezza di donna, né tristezza,

amarezza, vergogna che avrai.

Con una smorfia – nel fango, e non tornino

mai e poi mai.

Non portavano l’ubriaco a letto.

Ecco il mio verso:

senza di me salpate, basta

– nuvole, cielo, universo!

Lagnatevi, leggete e compatite,

scaldandovi presso un falò,

leggete ad alta voce, ridete, piangete.

Senza di me però.

Niente occorre davvero,

ogni cosa tu possa nominare:

né l’altrui giardino di mele,

né l’amore che un altro può dare,

ciò che ti sostiene dolcemente,

per non lasciarti cadere.

Meglio terribilmente, senza speranza,

meglio col muso nel fango rimanere.

2000

Poesia di Evgenij Evtushenko

10 Set

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko (1932-2017)

 

Preghiera prima di un poema

 

Il poeta in Russia è più che poeta.

Qui è dato nascere poeta

solo a chi è vero cittadino,

chi non ha rifugio né quiete.

Qui il poeta è lo specchio del tempo

e il falso prototipo del futuro.

Il poeta sicuro tira le somme

di ciò che fino a lui è accaduto.

Ed io? La mia cultura non basta…

E non serve profetizzare…

Lo spirito russo è su di me

e mi dice devi provare.

In ginocchio e a bassa voce,

pronto alla vittoria e alla morte,

o grandi poeti della Russia

vi affido umilmente la mia sorte…

Dammi, o Puškin, il tuo canto,

la tua lingua libera e veemente,

il tuo destino affascinante –

che anch’io infiammi la gente.

Dammi, o Lermontov, lo sguardo astioso,

dammi il tuo sdegno velenoso

e la cella della tua anima chiusa,

dove respira, nel silenzio reclusa,

la sorella della tua animosità –

la lampada della segreta bontà.

Dammi, Nekrasov, placato il mio ardore,

la pena della tua musa intagliata –

nei portici, negli atri, nei binari

e nei boschi e nei campi riversata.

Dammi la forza della tua espressione,

la tua azione così tormentosa,

per trascinare la Russia intera

come i bardotti con la fune penosa.

Dammi, o Blok, la profetica nebbia,

dammi altresì due ali spioventi,

perché, svelando l’eterno enigma,

nel corpo la musica io senta.

Dammi, Pasternak, il cambio dei giorni,

dammi dei rami il turbamento,

l’unione di odori e ombre

col secolare tormento,

perché ciò che borbotta il giardino

fiorisca ancora e maturi,

e sempre il fuoco della tua candela

in me arda e perduri.

Esenin dammi la tenerezza

per le betulle, gli animali, la gente

e per ogni altra cosa al mondo,

che tu come me ami impotente.

Dammi, Majakovskij,

la corpulenza,

il furore,

il tuo basso,

la severa intransigenza per la feccia,

affinché io possa

attraverso il tempo passare

e ai compagni-posteri

di questo parlare…

1964

Lermontov

Per chi piange sotto le slitte

il ghiaccio di Pietroburgo rassodato?

Dove galoppa a mezzanotte

un cavaliere dalla neve sferzato?

Si guarda intorno come un lebbroso,

la bocca serrata dall’odio.

Nelle pupille castane due Pushkin

morti fissati come da un chiodo.

Attraverso voi, bufere di Pietroburgo,

egli il suo destino ha letto,

ancor prima della pallottola di Martynov,

con quella di D’Anthès nel petto.

Ma nella notte – da amici e marmaglia,

dai caduti nell’ignavia e nella malora,

si precipita come ombra di vendetta

dietro l’ombra non vendicata ancora.

Non è un ragazzo, la sua maturità

è fredda come nuda lama.

Figlia della pietà è la musa,

ma l’odio è la sua balia.

E occorre sistemare in duello,

benché dopo aver tanto perso

trovare degni padrini

è assai difficile adesso.

Ma la voce del cittadino Pushkin

spinge verso la barriera: “Va’!”

…I poeti in Russia con la pallottola

di D’Anthès nel petto nascono* già.

* La censura aveva cambiato in nacquero.

(C) by Paolo Statuti

Dmitrij Borisovich Kedrin

25 Feb

 

 

  

K. Rodimov: Ritratto di Dmitrij Kedrin

 

La vita e la morte di questo poeta russo di grande talento sono parzialmente avvolte nel mistero. Non ebbe mai un proprio nido, dedicava molto tempo al lavoro, riceveva miseri compensi, riponeva nel cassetto le opere che, malgrado i giudizi favorevoli di Bagrickij, Majakovskij, Gor’kij, Vološin e altri, gli editori non volevano pubblicare adducendo vari pretesti. L’unica raccolta uscita quando il poeta era ancora vivo, fu I testimoni (1940): ben tredici volte il manoscritto gli fu restituito per modifiche, e alla fine restarono soltanto 17 poesie.

Dmitrij Borisovič Kedrin nacque il 4 febbraio 1907 nel villaggio di Berestovo-Bogoduchovskij nel Donbas. Suo nonno era un nobile di origine polacca, la cui figlia minore Ol’ga, madre del poeta, mise al mondo il bambino non sposata. Temendo il disonore e la collera del padre, lasciò il figlio nella famiglia della balia. Il piccolo fu poi adottato dal marito della sorella. Nel 1914 il padre adottivo morì e Dmitrij fu affidato alle cure della madre, di una zia e della nonna. «Tre donne nell’infanzia mi cullavano» – ricordò molti anni dopo il poeta. Dell’educazione letteraria di Dmitrij si occupava la nonna Neonilla, una donna molto colta appassionata di poesia. Fu lei a istillare nell’animo del nipote l’amore per essa: da un suo quaderno leggeva Puškin, Lermontov, Nekrasov ed in originale anche Ševčenko e Mickiewicz. La donna diventò anche la prima ascoltatrice delle poesie di Dmitrij.

Nel 1916, all’età di nove anni, iniziò la scuola commerciale. Lungo la strada che percorreva per recarvisi, si fermava sempre nel viale dove si trovava un bronzo di Puškin. «Dal monumento di Puškin ha avuto inizio la mia inclinazione per l’arte» – affermò in seguito il poeta. In questa scuola non raggiunse il necessario grado d’istruzione, e per questo iniziò a studiare come autodidatta. Amava non solo la storia e la letteratura, ma anche la geografia, la botanica e la filosofia. Nello stesso tempo cominciò seriamente a occuparsi di poesia. Nel 1922 fu ammesso all’Istituto Tecnico Ferroviario, ma non lo terminò a causa della sua debole vista. Nel 1924 fu assunto come reporter dalla casa editrice Generazione futura e al tempo stesso cominciò a lavorare nell’associazione letteraria La Giovane Fucina. Le sue poesie cominciarono a essere pubblicate da diverse riviste. Nelle recensioni veniva sottolineato il suo particolare stile e il suo talento. Il suo motto era: «La poesia ha bisogno della totale nudità del cuore». Nel 1929 fu arrestato per non aver svelato che un suo amico era il figlio di un generale dell’esercito di Denikin. Restò in carcere un anno e tre mesi. Questo fatto e il suo rifiuto di diventare un confidente segreto del NKVD (Commissariato Nazionale per gli Affari Interni) furono molto probabilmente la causa dei successivi problemi del poeta relativi alla mancata pubblicazione delle sue opere.

Nel 1931 si sposò e dopo la nascita della figlia nel dicembre del 1934, la famiglia si trasferì nella borgata di Čerkizovo nei dintorni di Mosca, dove per la prima volta il poeta potrà avere il suo “studio” – un bugigattolo dietro una tenda. Le opere scritte negli anni ’40 hanno carattere lirico, psicologico, su temi storici e intimi. Egli esaltava i creatori della bellezza vera e imperitura. All’enfasi della realtà prebellica il poeta era alquanto indifferente,  per questo il segretario generale dell’Unione degli Scrittori dell’URSS V. Stavskij criticava duramente Kedrin e, seconto il racconto dei famigliari del poeta, lo minacciava anche. I critici gli consigliavano di evitare i temi storici. Malgrado questa ostilità, nel 1939 fu ammesso nell’Unione degli Scrittori.

I vicini e i conoscenti di Čerkizovo dicevano che Kedrin faceva l’impressione di un pensatore taciturno, assorto e chiuso in se stesso: anche quando passeggiava, non rispondeva ai saluti, non conversava con nessuno. Aveva sempre con sé un taccuino e una matita.

All’inizio della guerra voleva recarsi al fronte come volontario, ma non lo arruolarono per via della vista. Restò a Čerkizovo occupandosi di traduzioni di poesie antifasciste di vari popoli dell’URSS, che venivano pubblicate anche dalla Pravda, e scrivendo due libri di versi, la cui stampa però gli fu negata. Riuscì a recarsi al fronte soltanto a maggio del 1943 come corrispondente del giornale dell’aviazione Il falco della Patria. Durante il suo lavoro al fronte spedì alla moglie Ljudmila 75 numeri dove erano stampate anche molte sue poesie.

Il 15 settembre 1945 sul marciapiede della stazione di Jaroslav alcune persone non identificate per poco non spinsero Kedrin sotto il treno, e soltanto l’intervento dei passeggeri all’ultimo istante gli salvò la vita. Tornato la sera a casa, il poeta in preda a un cupo presentimento disse alla moglie: «Sembrerebbe proprio una persecuzione». Gli restavano ancora tre giorni di vita. Il 18 settembre 1945 morì tragicamente sotto le ruote di un treno suburbano nel pressi di Mosca, tornando a Čerkizovo dalla capitale. Aveva soltanto 38 anni come il suo amato Puškin. Nel 2016 Dmitrij Bykov, scrittore, poeta e giornalista,  ricorda che durante il riconoscimento della salma, la vedova di Kedrin notò l’espressione di un “terrore inumano” sul volto del defunto, e ciò secondo lo stesso Bykov farebbe escludere la tesi del suicidio. I documenti del poeta, secondo quanto ricorda la figlia, due settimane dopo furono infilati sotto la porta della sua casa a Čerkizovo. Non ci vuole molto per sospettare che ad uccidere il poeta furono le mani pluriinsanguinate dei servizi segreti dell’URSS, che in vari periodi si sono particolarmente accaniti contro i poeti. Mi chiedo come può la Poesia suscitare tanto odio!…

Tra le opere più rilevanti di Kedrin ricordiamo: il dramma in versi Rembrandt, che negli anni ’70 – ’80 fu rappresentato in diversi teatri russi; l’altro dramma in versi Paraša Žemčukova, famosa attrice e cantante russa del settecento, morta nel 1803 a 34 anni tre settimane dopo il parto; il poema Le nozze, sulla schiacciante forza dell’amore, davanti al quale non ha retto neanche il cuore di Attila, re degli Unni, morto nella notte delle sue nozze, travolto da sentimenti improvvisi e ancora sconosciuti; poesie e ballate dedicate alla storia, agli eroi e ai miti degli antichi popoli. La sua poesia è spesso intrisa di lirismo e di simbolismo. Le parole di Aljona Stariza (la “Giovanna d’Arco” russa) – «Tutti gli animali dormono. Tutti gli uomini dormono. Soltanto gli scrivani condannano», furono scritte al culmine del terrore staliniano e sono citate da tutti gli studiosi della creazione del poeta.

Nel 1942 Kedrin consegnò alla casa editrice Lo scrittore sovietico il manoscritto Poesie russe, ma la raccolta non fu pubblicata a causa dei giudizi negativi dei recensori, uno dei quali lo accusò di «non sentire la parola», un altro di «dipendenza dalle voci altrui», e un altro ancora di «negligenza nelle comparazioni e di confusione del pensiero». Al contrario, un decennio dopo gli storici della letteratura diranno: «la sua poesia degli anni di guerra aveva intonazioni colloquiali, temi storico-epici e profondi stimoli patriottici».

Nel 1944, un anno prima della morte, Kedrin è profondamente amareggiato: «Molti miei amici sono morti in guerra. Il cerchio della solitudine si è chiuso. Presto ne avrò quaranta. Non vedo il mio lettore, non lo sento. E così verso i quaranta anni la vita è bruciata amaramente e assurdamente. Forse è colpa di questa incerta professione che io ho scelto o che ha scelto me: la poesia».

Nel 1967, per il sessantesimo anniversario della nascita del poeta, apparvero numerosi articoli sul suo difficile itinerario  creativo. Anche Mondo Nuovo pubblicò sue poesie inedite. Nel 1984, vigilia della perestrojka, per la prima volta fu stampata un’ampia raccolta delle principali opere di Kedrin con una tiratura di 300 mila copie, che andò presto esaurita. A questa seguì nel 1989 un’altra edizione di 200 mila copie, che non restò a lungo nelle librerie.

 

NB: Per la stesura di questo testo mi sono avvalso di Wikipedia russa.

 

Poesie di Dmitrij Kedrin tradotte da Paolo Statuti

 

Dio

Presto, nell’ora gialla del tramonto,

Quando l’azzurro si spegnerà,

Chiuderò gli occhi avidi un tempo,

E così stanchi al momento.

 

E quando sarò davanti a Dio,

Io senza tremare gli dirò:

«Sai, Dio, ho fatto del male a molti,

E forse del bene a nessuno.

 

Ma è buffo trovarmi col diavolo,

Perché mi cucini nel calderone:

Non c’è nell’inferno tormento tale,

Che in terra non ce ne sia uno peggiore!»

 

L’estate di san Martino

 

Ecco l’estate di san Martino –

Giorni del caldo di commiato.

Riscaldata dal sole tardivo,

La mosca si è rianimata.

 

O sole! Che c’è di più bello

Dopo un giorno di gelo?..

Una trama di tenui ragnatele

Avvolge un rametto troncato.

 

Domani pioverà leggermente

Da una nube che coprirà il sole.

Le ragnatele d’argento

Vivranno tre giorni soltanto.

 

Pietà, autunno! Dacci la luce!

Proteggi dal freddo buio!

Pietà, estate di san Martino:

Le ragnatele siamo noi!

 

Gelo sui vetri

 

Sulle finestre coperte di brina

Il gelo di febbraio ha tracciato

Un intreccio di  erbe bianco latte

E di rose d’argento assonnato.

 

Un paesaggio di estate tropicale

Il gelo sui vetri disegna.

Perché le rose? L’inverno, si vede,

La primavera attende e sogna.

 

La casa

 

La casa è distrutta. A fiotti l’acqua

Sgorga dalle condutture.

Sul selciato masserizie ammucchiate,

La casa è come un morto sezionato.

 

La soffitta è bruciata. Come sipario

La facciata si è mossa.

Lungo i piani s’è divisa in tre,

La vita nelle dimore si mostra.

 

Nella casa ce ne sono tante.

In una più in basso un pianoforte.

Frammenti di note sui ripiani,

La maschera di Liszt a una parete.

 

In un’altra una veduta diversa:

Parati di colore sgargiante,

Un samovar rovesciato…

Là il cuore della casa, qui l’interno.

 

E sulle cose – una vecchia smorta

E un giovane non più fresco di lei.

La prima volta che siedono insieme,

Inquilini di piani diversi!

 

Adesso tutta la loro vita segreta

E’ svelata. Appare ogni peccato…

In ogni caso la bomba è democratica:

Con una sola disgrazia rende tutti uguali!

 

L’usignolo

 

Infelice, malato e viziato

Nell’umido giardino vaneggio.

Fischia l’usignolo di mezzanotte

Sotto una finestrella.

 

Fischia l’uccello maledetto

Nel giardino sotto la finestrella:

«Infelice, viziato e ubriaco,

Quale destino vorresti?

 

Di sorbo è amaro e di mirtillo

Il trentesimo autunno nel sangue.

Tu stesso la sorte ti sei dato,

Accarezzala ora e campa.

 

Ricordi quando nell’infanzia lieta

Una stella si fregava gli occhi

E sul giardino il vento era salato,

Come le labbra di bimbo che piange?

 

Ricordi  quando nelle notti afose,

Solitario tra le stelle e le querce,

Io trillando ti profetizzavo

Successo e amore?..»

 

Taci uccello disumano!

Cupo è il tuo amaro potere:

Di più non si può scendere,

Più in basso non si può cadere.

 

Di sorbo e di amaro mirtillo

I sentieri sono saturi nel bosco.

Io stesso la mia pena mi sono dato

E solo con essa sarò sepolto.

 

Ma quando la terra dalla pala

Rotolerà nella fossa, risonando,

Tu diverrai un corvo, maledetto,

Per avermi così burlato!

 

Io

 

Molto ho visto e molto ho conosciuto,

Ho conosciuto l’odio e l’amore,

Ho avuto tutto e tutto ho perduto

E tutto nuovamente ho ritrovato.

 

Ho conosciuto il gusto della Terra

E, di nuovo avido della vita,

Ho posseduto tutto e di nuovo

Di perdere tutto ho temuto.

 

Il fiore

 

Sono nato perché un vecchio poeta

Parlasse di me con versi dorati,

Perché Dafni e Cloe a 14 anni

Su di me mescolassero i fiati,

Perché la fidanzata stringendosi a me,

Celasse il rossore della promessa.

Sono nato per fremere a maggio

Nei ricci d’oro di una komsomolka.

Bene accolto a corte o in un capanno,

Dall’erba indorato e bagnato di rugiada…

Se la morte passa in una bara comune,

Frettolosa, su ruote sgangherate,

Gli amici sulla bara porranno una corona,

Perché i petali fremano nello sfacimento.

Chi muore nella tomba non è così solo

E sventurato, finché profumeranno i fiori.

Ornando il letto dove un bambino piange

E le pertiche che cingono la tomba,

Io sono nato per consolare e indorare

L’estasi d’amore e della morte il tormento.

 

Ecco la sera della vita

 

Ecco la sera della vita. Tarda sera.

Fa freddo e non c’è fuoco in casa.

La lampada è spenta. Non c’è niente

Per scacciare l’oscurità che aumenta.

 

O raggio dell’alba, guarda alla mia finestra!

Angelo della notte! Abbi pietà di me:

Voglio ancora una volta vedere il sole –

Il sole della prima metà del Giorno!

 

La natura

 

Che fare? Mi siederò su una pietra,

Ascolterò il pianto del rigogolo.

Vedrò le case con le tavole inchiodate,

Abbandonate dagli abitanti.

 

Ancora non è un anno da quando

Hanno taciuto i loro passi.

Ma sembra che la natura sia felice

Che la gente se ne sia andata.

 

I vicini di notte furtivamente

Hanno tolto gli steccati per fare legna,

Sui lisci campi di cricket

Cresce verde l’erba.

 

Dimenticati gli ultimi proprietari,

Tutta la casa s’è inselvatichita,

Sulle pareti, sui tetti, sulle imposte

Il muschio avanza senza fatica.

 

Dal verde selvatico rampicante

La soglia ormai è ostruita,

Dappertutto imperversa la fragola,

Che prima a crescere non riusciva.

 

E se prima nei nidi gli stornelli

Si ambientavano a stento,

Adesso i fringuelli di primavera

Fanno un chiassoso concerto!

 

Sembra che dal nostro secolo

Siano passati secoli di abbrutimento…

Così la natura le tracce dell’uomo

Fa sparire in un momento!

 

L’amore

 

Solletico di labbra e frescura di denti,

Fuoco che vaga nei meandri del corpo,

Sudore tra i seni…E questo è l’amore?

Questo è tutto ciò che volevi tanto?

 

Sì! Passione che acceca la vista!

Ma la notte passa, lieve, come uccello…

E io ho pensato: l’amore è come il vino,

E per sempre puoi ubriacarti con quello!

 

 

(C) by Paolo Statuti