Tag Archives: Aleksandr Pushkin

Monumenti a confronto: Aleksandr Puškin e Vladimir Majakovskij

14 Mag

pushkin
images (53)

Vladimir Majakovskij – l’istrione buono, il gigante scomodo, il profeta della verità, nel 1930 doveva aver fiutato aria di morte, per scrivere il suo poema-testamento, il suo messaggio ai posteri. Esso è un’infocata protesta contro tutto ciò che egli considera sbagliato, sconsiderato, inutile. Egli vuole che il lettore lo ascolti, che la sua poesia sia tramandata alle generazioni future. Il poeta protesta per il bene della gente. Si definisce “fognaiolo”, cioè colui che pulisce le fogne del mondo, che ne mostra il lato più sporco e ripugnante, e urla “a tutta voce” contro l’assoluta indifferenza dei contemporanei e la loro inerzia per la conquista di una vita migliore.
Il poema “A tutta voce” si può equiparare alla celebre poesia “Mi sono eretto un monumento” di Aleksandr Puškin. Entrambi i poeti volevano lasciare la loro impronta, entrambi lottavano per la libertà e la giustizia. Majakovskij contro la “melma” del mondo, Puškin contro la “plebaglia”. E’ significativo che i due componimenti poetici siano stati scritti alle soglie della morte dei due grandi poeti, e che entrambi abbiano pagato con la vita la loro utopistica aspirazione.
Eccoli nella mia traduzione.

Mi sono eretto un monumento non di opera umana…
(Я памятник себе воздвиг нерукотворный…)

Exegi monumentum
Mi sono eretto un monumento non di opera umana,
Non s’infesterà il sentiero che vi si avvicina,
Con la testa indocile s’è innalzato più alto
Della colonna alessandrina.

No, non morirò del tutto – l’anima nella diletta lira
Sfuggirà le ceneri, la putrefazione certamente –
E sarò famoso, finché nel mondo sublunare
Anche un solo poeta sarà presente.

Parleranno di me in tutta la grande Rus’,
E mi nomineranno nei loro propri linguaggi,
Il fiero nipote degli Slavi, il Finlandese, il Tunguso
E il Calmucco, figlio delle steppe selvagge.

E a lungo al mio popolo io sarò caro,
Che in un tempo crudele ho lodato la Libertà,
Che ho acceso i buoni sentimenti con la lira
E verso i caduti ho invitato alla pietà.

Ascolta, o Musa, il comando divino,
Non temendo le offese, non chiedendo corone,
L’elogio e la calunnia accogli indifferente
E con gli sciocchi non entrare in discussione.

1836

A tutta voce
(Во весь голос)

(Prima introduzione al poema)

Egregi
compagni posteri!
Scavando
nello sterco impietrito
del presente,
studiando le tenebre odierne,
voi,
forse,
chiederete anche di me.
E, forse, dirà
il vostro erudito,
con la mente
piena di questioni,
che viveva da qualche parte un tale
cantore dell’acqua bollita
e nemico acerrimo dell’acqua corrente.
Professore,
togliti gli occhiali-bicicletta!
Io stesso racconterò
del tempo
e di me dirò.
Io, fognaiolo
e portacqua,
dalla rivoluzione
richiamato,
io per il fronte ho lasciato
i signorili giardini
della poesia –
capricciosa megera.
Che giardino guarda e ammira,
figlia,
la casa,
pulisci
e stira –
io da sola l’ho piantato,
solo io l’annaffierò.
Chi versa strofe dai catini,
chi spruzza
dalla bocca –
leziosi Mitrejki,
saccenti Kudrejki –
come raccapezzarsi!
Per la melma non c’è quarantena –
mandolinano tutto il giorno:
«Tara-tena, tara-tena,
ten-n-n…»
Non è un grande onore,
se tra le rose
alzano i miei busti
nei giardinetti,
dove scatarra la tubercolosi,
dove un teppista abbraccia una puttana
e la sifilide impera.
Anch’io
della propaganda
ho le tasche piene,
anch’io
potrei scrivere
romanze su di voi, –
è più redditizio
e più allettante.
Ma io
me stesso
ho domato,
e con il piede pesante
ho schiacciato la gola
della mia canzone.
Ascoltate,
compagni posteri,
l’agitatore,
lo strillone-caporione.
Soffocando
i torrenti della poesia,
io avanzerò
tra volumi di liriche,
da vivo
ai vivi parlando.
Verrò da voi
in un futuro comunista,
non come
il melodioso bardo eseniano.
La mia poesia giungerà
attraverso i crinali dei secoli
e attraverso le teste
dei governi e dei poeti.
La mia poesia giungerà alla meta,
ma essa vi giungerà,
non come una freccia
lanciata da Cupido a sorte,
non come arriva
a un numismatico una consunta moneta
e non come arriva la luce delle stelle morte.
La mia poesia
con la fatica
sfonderà la mole degli anni
e apparirà
ponderosa,
rude,
visibile,
come ancora oggi
è visibile l’acquedotto,
eretto
dagli schiavi di Roma.
Nei tumuli di libri,
di versi seppelliti,
ritrovando per caso la ferraglia delle strofe,
voi
con rispetto
prendetela in mano,
come vecchia
arma fatale.
Io
l’oreccchio
con la parola
non sono avvezzo a carezzare;
il delicato orecchio di ragazza
nei riccioli
dal doppio senso sfiorato
non arrossirà.
Dopo aver disteso in parata
le mie pagine-plotoni,
io passerò
il fronte delle strofe.
I versi stanno
pesanti come piombo,
pronti anche alla morte
e alla gloria immortale.
I poemi sono morti,
canna contro canna
dei titoli puntati
e squarciati.
L’arma
del genere
preferito,
è pronta
a lanciarsi con un grido,
s’è irrigidita
la cavalleria delle facezie,
avendo alzate delle rime
le lance acuminate.
E tutte
le truppe fino ai denti armate,
che venti anni nelle vittorie
hanno passato,
fino all’ultima
pagina
io affido a te,
proletario del pianeta.
Il nemico
della classe operaia –
è anche il mio nemico,
giurato e di vecchia data.
Ci hanno chiesto
di andare
con la bandiera rossa
anni di lavoro
e giorni di fame.
Noi aprivamo
di Marx
ogni volume,
come in casa
propria
apriamo le persiane,
ma anche senza lettura
noi sapevamo
da che parte andare,
contro chi lottare.
A noi
la dialettica
non l’ha insegnata Hegel.
Essa al suono delle lotte
nei versi è penetrata,
quando
sotto le pallottole
i borghesi fuggivano da noi,
come noi
un tempo
fuggivamo da loro.
Che
dietro ai geni
come vedova sconsolata
si trascini la gloria
in una funebre marcia –
muori, o mio verso,
muori, come semplice soldato,
come ignoti
all’attacco sono morti i nostri!
Io sputo sopra
il bronzo dei monumenti
io sputo sopra
il viscido marmo.
Grondiamo di gloria –
noi tutti noi, –
che il nostro
monumento comune
sia il socialismo
eretto
nelle lotte.
O posteri,
controllate i galleggianti dei dizionari:
dal Lete
emergeranno
i resti di parole
come «prostituzione»,
«tubercolosi»,
«blocco».
Per voi
che
siete sani e destri,
il poeta
leccava
gli sputi dei tisici
con la ruvida lingua del manifesto.
Con la coda degli anni
io divento la somiglianza
di mostri
fossili con la coda.
Compagna vita,
su,
presto bruciamo,
bruciamo
in cinque anni
il resto dei giorni.
A me
neanche un rublo
hanno portato i versi,
di ebano
non è arrivato un mobile in casa.
E tranne
una camicia fresca di bucato,
dirò sinceramente,
a me non serve niente.
Entrato
Nella Commissione di Controllo
dei luminosi
anni che verranno,
io sulla banda
di poeti
scrocconi e furfanti
solleverò
come tessera bolscevica,
i miei
libri di partito –
tutti quanti.

1929-1930

(C) by Paolo Statuti

Aleksandr Pushkin

4 Gen
Il busto di A. Pushkin che mi fa compagnia nel mio studio

Il busto di A. Pushkin che mi fa compagnia nel mio studio

Poesie di Aleksandr Puškin (1799-1837) tradotte da Paolo Statuti

 

Il cantore

 

Sentivate voi il notturno cantore

Della propria tristezza e dell’amore?

E nella quiete dei campi al mattino,

Del flauto il suono mesto e cristallino

          Lo sentivate voi?

 

Incontravate nel bosco il cantore

Della propria tristezza e dell’amore?

Vedevate tracce di pianto, un sorriso,

O un dolce sguardo di dolore intriso,

          Lo incontravate voi?

 

Sospiraste voi, ascoltando il cantore

Della propria tristezza e dell’amore?

Quando di un giovane avete scorti

Nei boschi gli sguardi degli occhi smorti,

          Sospiraste voi?

 

1816

 

 

Rinascita

(Возрождение)

 

Un barbaro artista il quadro annerisce

Di un genio con mano indolente,

E il suo disegno iniquo egli traccia

Su quel quadro assurdamente.

 

Ma, con gli anni, come vecchie scaglie,

Si stacca l’estraneo colore,

E l’opera del genio ci appare

Nel suo primitivo splendore.

 

Così nell’anima mia travagliata

Scompaiono gli errori compiuti,

E tornano in essa le visioni

Dei limpidi giorni vissuti.

 

1819

* *  *

(Редеет облаков летучая гряда…)

 

Si dirada di nubi lo strato scorrente.

O stella della sera, stella così dolente,

Il tuo raggio inargenta le pianure sfiorite,

Il golfo che sonnecchia e le rocce annerite.

Amo la tenue luce nell’alto del cielo,

Essa ha tolto ai pensieri il loro greve velo.

Ricordo il tuo spuntare, ogni cosa splendeva

Sul quieto paese, dove tutto al cuore piaceva,

Dove il pioppo nelle valli si levava armonioso,

Dove sonnecchia il mirto e il cipresso tenebroso,

E dolci frusciano l’onde di meridione.

Là un tempo sui monti, il cuore in meditazione,

Trascinavo la mia indolenza taciturna,

Quando sui tetti calava l’ombra notturna

E una fanciulla nella nebbia ti cercava,

E alle amiche il tuo nome pronunciava.

 

1820

Ruslan e Ludmila – Introduzione

(РусланиЛюдмилаВступление)

 

C’è una quercia sulla riva del mare

E attorno ad essa una catena d’oro,

Sulla catena di notte e di giorno

Un gatto colto cammina con decoro.

Va a destra – prende a raccontare,

A sinistra – comincia a cantare.

 

 

Là soltanto prodigi conosco:

Fauni e ninfe insieme nel bosco,

Là su ignoti e scuri sentieri

Vedi impronte d’insolite fiere,

E casette su zampe di gallina

Senza porte né finestra alcuna.

Selve e valli piene di visioni,

E all’alba affluiscono i marosi

Sulla riva vuota e sabbiosa,

E trenta stupendi paladini

Emergono dai flutti marini,

E con essi il loro protettore.

Là un principe strada facendo

Un terribile zar ha imprigionato.

Davanti al popolo nelle nubi,

Avendo boschi e mari superato,

Un mago con l’eroe si fa vedere.

In prigione la zarevna patisce

E un lupo bruno le obbedisce.

Là una botte con dentro una strega

Si solleva da sola a fatica.

Là nell’oro Koshciej si consuma,

E l’anima russa e la Rus’ profuma!

Io ero là e il miele ho bevuto,

Ho visto la quercia che frusciava,

Sedevo ai suoi piedi e il gatto colto

Le sue favole mi raccontava.

Una me la ricordo ancora

E al mondo la dirò proprio ora…

 

1820

 

Terra e mare

Quando sull’azzurro dei mari,

Zèfiro soffia la sua brezza

Sulle vele dei fieri vascelli

E le barche sull’onde accarezza,

Lasciato il peso dei pensieri,

Nell’inerzia io posso annegare –

Dimentico i canti delle muse,

M’è più caro il mormorio del mare.

Ma quando contro la riva l’onde

Schiumose ruggiscono e fremono,

E il tuono rimbomba nel cielo,

E i lampi nel buio balenano,

Allora i più ospitali querceti

Io ai mari preferisco;

La terra mi sembra più fedele,

E il grave pescatore compatisco:

Vive su una fragile imbarcazione,

Trastullo della cieca corrente,

Mentre io nel silenzio sicuro

Ascolto il fruscio d’un torrente.

1821

Il cangiàr

(Кинжал)

 

          Il dio di Lemno ti ha forgiato

          Per le mani di Nèmesi immortale,

Custode della libertà, cangiàr punitore,

D’infamie e di offese ultimo tribunale.

 

Là dove dorme la spada della legge,

          Tu di anatemi e di speranze esecutore,

          Tu all’ombra del trono ti celi,

          E delle vesti sotto lo splendore.

 

 

          Come raggio infernale e folgore divina,

Muta lama negli occhi del furfante,

          Che si guarda intorno tremante,

          In mezzo alla stessa sua gente.

 

Dappertutto lo troverà il colpo tuo improvviso:

Sul mare, in un tempio, su monti e pianure,

          Dietro segrete serrature,

          Durante il sonno, nel paterno nido.

 

Sotto Cesare scroscia l’amato Rubicone,

A Roma la legge ha chinato la testa;

          Ma il libero Bruto è insorto:

Tu Cesare hai colpito, e il marmo di Pompeo

          Ora egli abbraccia – ormai morto.

 

Il seme delle rivolte leva un grido rabbioso:

          Vile, sanguinario, scellerato,

          Sul cadavere della libertà decapitata

          Il carnefice brutto è nato.

 

Apostolo di sciagura, allo stanco Ade

          Le vittime con un dito destinò,

          Ma il giudice supremo gli mandò

          Te e la fanciulla fatale.

 

O giovane giusto, leale e prescelto,

           O Sand, con la scure la tua vita s’è spezzata;

           Ma della tua sacrosanta virtù

           E’ rimasta la voce nella testa tagliata.

 

Nella tua Germania sei un’ombra perenne,

           Minacciando sventure al potere delittuoso –

           E sopra la tua tomba solenne

           Un cangiàr senza nome risplende radioso.

1821

 

La musa

(Муза)

 

Nella mia infanzia il suo amore mi donò

E un flauto a sette canne mi affidò.

Mi ascoltava sorridendo, quando esitante,

Sui sonori fori della canna vibrante,

Già sonavo con le mie dita delicate

Odi sublimi dagli dei ispirate,

E i placidi canti dei frigi pastori.

All’ombra muta delle querce le lezioni

D’una vergine arcana seguivo compreso,

E, allietandomi con un premio inatteso,

Dalla sua bella fronte un ricciolo scostato,

Dalle mie mani ella prendeva il flauto.

Un alito divino la canna animava

E di sacro incanto il mio cuore colmava.

 

1821

Il prigioniero

 

Siedo nella prigione dietro la grata.

Giovane aquila nel servaggio allevata,

La mia triste compagna batte senza tregua

Le ali e becca la sanguinante preda,

 

Becca, e getta, e guarda alla finestra,

Quasi pensasse: «Una cosa sola resta»

Il suo sguardo chiama e sembra che un grido dia

E voglia dire: «Voliamo via! Voliamo via!

 

Siamo liberi uccelli, fratello, è ora di andare!

Là, dove azzurreggiano i paesi sul mare,

Là, dietro le nubi, dov’è il monte natio,

Là, dove voliamo soltanto il vento… ed io!..»

 

1822

 

 L’uccellino

Osservo fedele un’antica usanza

Anche in una terra a me straniera:

Lasciare libero un uccellino

Nella chiara festa di primavera.

 

Ho provato un grande conforto,

Mio Dio, e una vera felicità,

Quando anche a una sola creatura

Ho potuto donare la libertà!

 

1823

 

*  *  *

 

Ricordo il magico momento:

Dinanzi a me apparisti tu,

Come fuggevole visione,

Come genio di pura virtù.

Nella disperata tristezza,

Nel tramenio fragoroso,

Sentivo la tenera voce

E sognavo il volto radioso.

Con gli anni il mio impeto inquieto

Ha sperso le visioni passate,

Ho scordato la tua dolce voce,

La tue fattezze incantate.

Nell’eremo remoto e buio,

Son trascorse adagio le mie ore

Senza estro né divinità,

Né pianto, né vita, né amore.

Ma l’anima s’è ridestata

E di nuovo sei apparsa tu,

Come fuggevole visione,

Come genio di pura virtù.

E il cuore batte nell’ebbrezza,

E son risorti con ardore

Il divino e l’ispirazione,

Il pianto, la vita e l’amore.

 

(1825)

 

 

Il profeta

 

In un cupo deserto io vagavo

Dalla sete dello spirito oppresso,

Ed ecco un serafino con sei ali

Mi apparve ad un tratto da presso.

Lieve come un sogno si avvicinò

E gli occhi stanchi mi sfiorò.

Si aprirono le profetiche pupille

Come alle aquile impaurite.

Poi toccò le mie orecchie,

E di suoni esse furono empite:

E vidi in alto degli angeli il volo

E udii il cielo che fremeva,

E scorsi il moto delle serpi marine

E il vinco delle valli che cresceva.

Poi si accostò alla mia bocca,

Strappò la mia lingua veemente,

Ma frivola, vuota e maligna,

E l’aculeo del saggio serpente

Nella mia bocca agghiacciata

Ficcò con la destra sanguigna.

Poi il petto mi aprì con la spada,

Ne tolse il mio cuore tremante,

E nel petto aperto egli depose

Un carbone ardente e fiammante.

Come salma nel deserto giacevo,

Ma la voce divina intendevo:

«Alzati, guarda e ascolta, o profeta,

Fa’ ciò che ho scritto nella mente,

Percorri terre e mari senza tregua,

Con la parola accendi il cuore della gente».

 

1826

 

Le tre fonti

 

Nella steppa del mondo, triste e sconfinata,

Sgorgarono tre fonti come d’incanto:

Della giovinezza – rapida e ribelle –

Ribolle, corre, brillando e gorgogliando;

La fonte di Castalia che con l’ispirazione

Nella steppa del mondo gli esuli disseta;

L’ultima fonte – la fredda fonte dell’oblio,

Che più di tutte placa la febbre del poeta.

 

1827

Il poeta

Finché Apollo non sacrifica

Il poeta sul suo altare,

Nelle pene del vano mondo

Egli spaurito deve aspettare.

E’ muta la sua sacra lira,

L’anima freddi sogni assapora,

Dei miseri figli della terra,

Forse egli è più misero ancora.

 

Ma appena la parola divina

Il sensibile udito toccherà,

Come un’aquila risvegliata,

L’anima del poeta si alzerà.

E’ triste nei trastulli del mondo,

Fugge via dalla gente chiassosa,

Davanti all’idolo delle masse

Non china la testa orgogliosa.

Corre, selvaggio e severo,

Pieno di sgomento e di canti,

Fin sulle onde del deserto,

Nel bosco di querce fruscianti.

 

1827

 

Il talismano

Là dove il mare batte senza sosta

Contro le rocce solitarie,

Là dove la luna più calda brilla

Nell’ora della nebbia serale,

Dove, negli harem dilettandosi,

I giorni passa il musulmano,

Là una fata, lusingandomi,

Mi consegnò un talismano.

 

E, lusingandomi, diceva:

«Custodisci il mio talismano:

In esso c’è una forza segreta!

Ora è qui nella tua mano.

Dalle malattie, dalla tomba,

Nel minaccioso uragano,

La tua testa, amico caro,

Non salverà il mio talismano.

 

E le ricchezze dell’Oriente

Esso giammai ti donerà,

E gli adoratori del Profeta

Esso non ti sottometterà;

E in grembo agli amici più cari,

Da un triste paese lontano,

Nella tua terra non ti porterà

Questo mio talismano.

 

Ma quando dei perfidi occhi

Ti vorranno affascinare,

O una bocca nella buia notte

Ti bacerà senza amare –

 

Da nuove ferite del cuore,

Da ogni desiderio insano,

Dal tradimento e dall’oblio

Ti salverà il mio talismano»

 

1827

 

L’ antiàride

(L’albero del veleno)

 

Nel deserto così arido e avaro,

Sul suolo nella calura immerso,

L’antiàride come torvo guardiano,

Sta – solo in tutto l’universo.

 

La natura delle steppe assetate

In un giorno d’ira l’ha generato,

E il verde smorto dei suoi rami,

E le radici di veleno ha impregnato.

 

Il veleno sprizza dalla scorza,

Si fonde sotto il sole ardente,

E si rappiglia poi verso sera

In una resina trasparente.

 

L’uccello e la tigre lo fuggono,

Soltanto un vento infernale

L’albero della morte colpisce –

E vola oltre, quando è già ferale.

 

E se una nube irrora, errando,

Le sue foglie, già avvelenata

Dai suoi rami la pioggia scorre

Giù nella sabbia infocata.

 

Ma l’uomo un altro uomo

All’antiàride imperioso mandò,

E quello partì ubbidiente

E al mattino col veleno tornò.

 

Portò egli la resina mortale

Sparsa sulle vizze fronde,

E il sudore colava freddo a fiumi

Dalla sua pallida fronte.

 

La portò – e già debole si stese

Nel capanno, il derelitto,

E morì povero schiavo ai piedi

Del suo sovrano mai sconfitto.

 

E il re, di quel veleno intrise

Tutte le frecce a lui fedeli,

E con esse portò la sventura

Alle genti sotto altri cieli.

 

1828

 

Il ricordo

 

Quando per un mortale il fragore

Del giorno cessa e sulla muta città

L’ombra traslucida della notte

E il sonno che ristora scende già,

 

Allora per me s’insinua nel silenzio

Il tempo del penoso vegliare:

E nell’inerzia notturna, della serpe

Del cuore sento i morsi bruciare.

 

I sogni fervono e da gravi pensieri

E’ oppressa allora la mia mente.

Il tacito ricordo davanti a me

Il suo lungo rotolo distende,

 

E con disgusto leggendo la mia vita,

Amaramente piango e mi deprimo,

Amaramente tremo e maledico,

Ma i tristi versi non sopprimo.

 

1828

 

 

*  *  *

Sia ch’io vaghi nelle strade chiassose,

Sia che entri in un tempio affollato,

Sia che sieda tra giovani folli,

Ai miei sogni sarò sempre legato.

 

Io dico: gli anni voleranno in fretta,

E quanti di noi sono già scomparsi,

Noi tutti andremo sotto l’eterna volta –

E alcuni l’ora vedono appressarsi.

 

Se io guardo la quercia solitaria,

Penso: dei boschi il patriarca fronzuto

Sopravviverà al mio secolo obliato,

Come ai padri è già sopravvissuto.

 

Se un bambino accarezzo con affetto,

Penso già: addio! Ora tu vivrai,

Il mio tempo è ormai putrefatto,

Al mio posto ora tu fiorirai.

 

Ogni giorno, ogni ora, ogni momento

Sono solito col pensiero seguire,

Il tempo della futura morte

Tra essi cercando di predire.

 

E dove la morte la mia sorte ha scritto?

In battaglia, in cammino, tra i marosi?

Oppure da questa vicina vallata

Saranno accolti i miei resti corrosi?

 

E benché ai corpi non importa

Dove cenere saran diventati,

Io vorrei tuttavia riposare

Più vicino ai luoghi tanto amati.

 

E che all’ingresso del mio secolcro

Giochi pure una giovane vita,

E impassibile la natura risplenda

Di bellezza eternamente fiorita.

 

1829

 

 

 

Il Caucaso

 

Il Caucaso ai miei piedi. Sopra le nevi

Sto solo sul ciglio di un’alta vetta,

E un’aquila da una cima lontana,

Si libra immobile alla mia altezza.

Da qui vedo la nascita dei torrenti

E delle frane i primi movimenti.

 

Qui le umili nuvole scorrono,

E al di là scrosciano le cascate.

In basso la nuda vastità rocciosa,

L’avaro muschio e le fronde seccate,

E dei boschetti le penombre verdi,

Dove gli uccelli cantano e saltano i cervi.

 

 

E là sui monti la gente già s’annida,

Sui dirupi brucano le pecore mansuete

E il pastore scende nelle valli amene,

Dove scorre l’Aragvi tra le rive scoscese;

E un povero cavaliere si cela nella forra,

Dove il Terek gioca con feroce gioia.

 

Gioca e ulula, come giovane belva

Che ha visto il cibo dietro l’inferriata,

E batte sulla riva con inutile rabbia

E lecca le rocce con l’onda affamata…

Invano! Per lui non c’è né cibo né felicità:

Minacciosa e muta lo preme la vastità.

 

1829

 

*  *  *

                                               (2 novembre)

 

Inverno. Che fare in campagna? La mattina

Il domestico con la solita tazzina

Di tè. Chiedo: fa caldo? la bufera è finita?

Nevica ancora? si può lasciare l’imbottita

Per la sella, o meglio prima di pranzare

Le vecchie riviste del vicino sfogliare?

Neve fresca. Ci alziamo, a cavallo all’istante,

E al trotto all’alba nel campo biancheggiante.

Il frustino in mano, i cani dietro contenti,

Guardiamo la pallida neve con occhi attenti,

Vaghiamo, giriamo a lungo, ma è già ora,

Due lepri scappate, torniamo alla dimora.

Dove sei allegria? E’ sera: fuori tùrbina,

La candela arde cupa. Il cuore si turba.

Mando giù il veleno del tedio così mesto.

Voglio leggere. Gli occhi scorrono sul testo,

Ma la mente è lontana…Il libro chiudendo,

Cerco la penna, mi siedo e pretendo

Dalla musa assonnata parole senza senso.

Al suono il suono non giunge…Perdo consenso

Con la rima, con la mia strana ispiratrice:

Il verso indolente si trascina infelice.

Stanco, con la lira sospendo la tenzone,

Vado in salotto; là sento una discussione

Sullo zuccherificio, su elezioni non lontane.

La padrona cupa come il tempo invernale,

I ferri da calza agita con stizza,

O sul conto del re di cuori profetizza.

Così giorno segue giorno in romitaggio!

Ma se verso sera in questo triste villaggio,

Quando in un angolo siedo giocando a dama,

Su di un carro da una località lontana,

Vengono inattese una vecchietta e due sorelle

(Due bionde fanciulle, leggiadre e snelle), –

Come si anima quel villaggio di pena!

Come la vita, mio Dio, ridiventa piena!

All’inizio sguardi sghembi e indiretti,

Poi qualche parola, poi dialoghi diletti,

E canti di sera, e risate generali,

E valzer vivaci, e sussurri gioviali,

E languidi sguardi, e motti spensierati,

E sulla stretta scala incontri prolungati.

E una fanciulla sul terrazzo si affaccia:

Scoperti il collo, il petto e la bufera in faccia!

Ma la bufera un rosa russa non offende.

Com’è caldo nel gelo un bacio ardente!

Com’è fresca nella neve una fanciulla russa!

 

1829

 

 

 

L’addio

 

Il tuo volto una volta ancora

Con la mente oso carezzare,

In sogno con la forza del cuore,

Con diletto triste esitante,

Il tuo amore per me ricordare.

 

Il nostro tempo fugge via

Tutto muta e porta via con sé,

Per il tuo poeta, diletta mia,

Di tenebra tu sei già vestita,

E anche il poeta è morto per te.

 

Accogli dunque, amica lontana,

L’addio del mio cuore attristato.

Come sposa che vedova rimane,

Come amico che abbraccia in silenzio

Un amico che viene esiliato.

 

1830

 

 Sonetto

 

L’austero Dante non sdegnava il sonetto;

Petrarca in esso versava il suo amore;

Amava giocarci il creatore di Macbeth;

Con esso Camöes cantava il dolore.

 

Ancora oggi il poeta incanta:

Wordsworth a strumento lo sceglieva,

Quando dal vano mondo lontano

La natura e il suo ideale descriveva.

 

 

All’ombra dei Tauridi distante

Il vate lituano i sogni all’istante

Nella sua stretta cornice imprigionava.

 

Da noi era ancora ignoto alle dame,

Quando per esso già Del’vig lasciava

Dell’esametro l’arie consacrate.

 

1830

*  *  *

Per le sponde della patria lontana

Tu hai lasciato il paese straniero;

Per un tempo triste, non obliato,

Io a lungo per te piangevo.

Le mie mani diventavano fredde

Cercando di non lasciarti andare;

Il mio gemito il tremendo tormento

Pregava di non cessare.

 

Ma tu dall’amaro bacio

Le tue labbra hai distaccato;

Dal paese del cupo esilio

Tu in un altro paese m’hai chiamato.

Tu dicevi: «Nell’ora dell’incontro

Sotto il cielo eternamente sereno,

All’ombra degli ulivi, del bacio d’amore,

Noi, mio caro, ci riuniremo».

 

Ma là, ahimé, dove la volta del cielo

Brilla nell’azzurro sfolgorio,

Dove sotto le rocce sonnecchia l’acqua,

Ti sei assopita per l’ultimo addio.

La tua beltà, le tue sofferenze

Sono scomparse nell’urna cineraria –

E con esse il nostro bacio dell’incontro…

Ma lo aspetto, esso ti segue, mia cara…

 

1830

 

 

 

*  *  *

                                                  Exegi monumentum

Mi sono eretto un monumento non di opera umana,

Non s’infesterà il sentiero che ad esso avvicina,

Con la testa indocile s’è innalzato più alto

          Della colonna alessandrina.

 

No, non morirò del tutto – l’anima nella diletta lira

Sfuggirà le ceneri, la putrefazione certamente –

E sarò famoso, finché nel mondo sublunare

          Anche un solo poeta sarà presente.

 

 

Parleranno di me in tutta la grande Rus’,

E mi nomineranno nei loro propri linguaggi,

Il fiero nipote degli Slavi, il Finlandese, il Tunguso

          E il Calmucco, figlio delle steppe selvagge.

 

E a lungo al mio popolo io sarò caro,

Che in un tempo crudele ho lodato la Libertà,

Che ho acceso i buoni sentimenti con la lira

          E verso i caduti ho invitato alla pietà.

 

Ascolta, o Musa, il comando divino,

Non temendo le offese, non chiedendo corone,

L’elogio e la calunnia accogli indifferente

          E con gli sciocchi non entrare in discussione.

 

1836   

 

 

Se la vita t’inganna…

 

Se la vita t’inganna di continuo,

Non rattristarti ogni volta!

Se lo sconforto ti assale, sopporta:

Il giorno dell’allegria è vicino.

 

Il cuore è nella vita futura;

Se in esso oggi provi tristezza:

E’ solo un attimo, niente dura;

Tutto passerà, la gioia ti aspetta.

 

(C) by Paolo Statuti