
Il poeta russo Boris Ryžij nacque a Čeljabinsk l’8 settembre 1974 da una famiglia dell’intellighenzia. Il padre era geofisico e la madre medico epidemiologo. Fin dalla tenera età il padre e la sorella Olga gli leggevano le opere di Puškin, Lermontov, Brjusov, Blok, Nekrasov.
Così il poeta ricordava gli anni della scuola superiore: «Ho frequentato una scuola come tante. Era terribile. Si ferivano a vicenda, vincevano a carte ingenti somme e così via…Studiavo con difficoltà e mia sorella scriveva per me i temi di letteratura».
Nel periodo scolastico si occupava anche di sport e di arti marziali. Nel 1988 vinse un campionato di boxe nella sua categoria. Al tempo stesso scriveva poesie, romanzi gialli e si interessava anche di musica. Nella decima classe incontrò Irina Kujazeva, il suo primo amore.
Nel 1991 Boris entrò all’Accademia Mineraria e Geologica degli Urali e nello stesso anno sposò Irina. L’anno seguente ottenne il secondo posto al Festival di Poesia Studentesca. Cominciò a essere pubblicato sempre più spesso.
A metà gennaio del 1993 Irina diede alla luce il figlio Artemio. La giovane famiglia aveva bisogno di guadagnare per mantenersi, e Boris trovò lavoro come guardiano, mentre la moglie portava a casa i progetti e li trascriveva al computer.
Fin dalla metà degli anni ’90 il poeta si recava a Mosca e a San Pietroburgo per partecipare a festival e incontri letterari. Verso la fine del decennio incontrò per la prima volta i poeti Evghenij Rein e Evghenij Evtušenko. Rein lo definì «l’ultimo poeta del XX secolo e il poeta più talentuoso della sua generazione».
Nel 1997 si laureò presso l’Accademia degli Urali, poi entrò in una scuola di specializzazione e ottenne un lavoro come ricercatore presso l’Istituto di Geofisica. Disse di averlo fatto per evitare il servizio militare e non lasciare la moglie e il figlio.
Nel 1999 a San Pietroburgo uscì la prima raccolta di sue poesie dal titolo E tutto ciò…Per questa raccolta ottenne postumo il premio Palmira del Nord. A ottobre divenne membro della filiale di Ekaterinburg dell’Unione degli Scrittori Russi.
Ha scritto più di mille poesie, molte delle quali tradotte in diverse lingue. Alcuni suoi testi sono diventati canzoni di successo.
Il’ja Falikov nel suo libro su Boris Ryžij ha scritto che nel periodo marzo-aprile del 2001, il poeta era depresso e il medico gli aveva prescritto nuovi medicinali. Immagino che il poeta fosse molto depresso, fino al punto di togliersi la vita impiccandosi, la mattina del 7 maggio dello stesso anno. Lasciò scritto: «Ho amato tutti. Tranne gli sciocchi». Aveva solo 26 anni!
Evghenij Rein ha detto che la sua morte è stata «una tragedia pari al suicidio di Majakovskij, Esenin e Cvetaeva». Secondo Evghenij Evtušenko, «già quando aveva 21 anni, Boris Ryžij aveva predetto la sua morte. E benché egli parlasse di un’altra persona, era chiaro che si riferisse a se stesso. Egli, per sua disgrazia, non ha incontrato sulla sua strada Boris Pasternak, che avrebbe potuto consigliarlo, come fece con me nel 1960, di non predire in nessun modo nei versi la propria tragica fine, poiché la forza della parola è tale, da spingere inevitabilmente i poeti verso una pallottola o un nodo scorsoio…».
Sulla lapide della tomba del poeta sono incisi gli ultimi versi della sua poesia Dall’album di fotografie, scritta nel 1998:
Anima mia, nel fuoco e nel fumo,
lungo un sentiero azzurro-blu,
mia cara, verso i tuoi cari vola.
Ahimé, quante pallottole nei petti e quanti nodi scorsoi nei colli dei poeti russi! Erano loro ad amare la morte o la morte ad amare loro? Purtroppo sono vere ambedue le cose…
Poesie di Boris Ryžij tradotte da Paolo Statuti
Irrompe, interrompendo Bach
…Irrompe, interrompendo Bach,
non la biasimo – sottile è la parete mia.
Musica da galera, né amarezza, né paura,
solo ignoranza, sciocchezze, malinconia.
Pazza, sfacciata, come se la morte non ci fosse,
ragazza appiccicosa, gli occhi come due zeri.
…A che mi servono i concerti di Brandeburgo
e perché questa vita? Oh, come saperlo vorrei!
1996
Sopra le case
Sopra le case, le case, le case
pendono nuvole blu –
e rimarranno con noi
per secoli, secoli e ancora più.
Solo vapore, solo bianco nell’azzurro
sul suolo di pietre gremito…
non periremo mai da nessuna parte,
noi più solidi e più teneri del granito.
Che i nostri gusci periscano
con la geometria della vita terrestre –
guardati intorno, baciami sulle labbra,
dammi la mano e con me resta.
E quando noi ci lasceremo,
sulle tue ali porta tu
solo vapore, solo bianco nell’azzurro,
azzurro e bianco nel blu…
1996
Non alzarti, lo copro io
Non alzarti, lo copro io, dormi,
finché la stella autunnale
sulla tua testa risplende
e i fili umidi sembrano cicale.
Accompagnano il silenzio col suono,
ma è un silenzio con un senso preciso,
come se da qualche parte capissero
che il destino di qualcuno è già deciso.
Prolungando questo suono, di nuovo
accorciandolo, sai che la musica esiste,
puoi isolarti, aggiungere una parola,
puoi cantare di te in modo triste.
Della stella autunnale, della strada,
del cielo azzurro e vuoto,
di una zingara che va in prigione,
degli occhi neri di un viso ignoto.
E gli occhi chiusi di Artemio
sognano che io per sempre
sono venuto e non lascerò la casa …
E la stella autunnale risplende.
1998
Alla finestra sullo sfondo del tramonto
Alla finestra sullo sfondo del tramonto
un schifezza gialla germogliava.
Nell’alloggio del grassificio
una certa N., tra gli altri, abitava.
In stato di leggera sbornia,
io le donavo ogni tipo di rosa.
Spogliandomi, lasciando le scarpe,
parlavo tanto per dire qualcosa.
Dalle labbra rosse usciva una volgarità,
il sopracciglio vibrare vedevo.
È imbarazzante per me parlarne,
ma sempre le poesie le leggevo.
Le leggevo sulla vita del poeta,
della sua morte facendo menzione.
E per questo, per questo, per questo
questa N. mi baciava con passione.
Mi baciava e mi amava tanto,
versava il vino con piacere.
Parlava ridendo di cose tristi.
Mikhalkova i film amava vedere.
Da solo mi sono messo in cammino,
barcollavo un po’, un motore frenava.
Vicino al cimitero, al circo, alla prigione,
un idiota in silenzio mi portava.
E, chiesta una sigaretta, ero triste
perché, quale che fosse l’amore,
io un giorno qui non verrò più.
E lei mi aspettava con tale ardore.
1999
Mi manca la tenerezza nei versi
Mi manca la tenerezza nei versi,
e voglio che essa sia evidente,
come inevitabile o come noncuranza.
E io ti bacio precipitosamente.
O mia stupida musa!
Tu, girandoti, nascondi il pianto,
ed io urlo, per questa misera prosa
non struggendo il cuore, il viso non celando.
Come i vecchi, come gli angeli, mia cara,
vivremo soli nel mondo intero.
Alla tua guancia sto attaccato.
Tu singhiozzi, io rimo con «singhiozzato».
1999
Autunno
Le rape dal campo erano già raccolte,
bietole, patate, tutto era già ammassato.
Sullo sfondo del cielo che si distendeva
cadeva la prima neve e il cuore era turbato.
Seguivo la neve, pensando a
chissà cosa, le betulle mi seguivano.
Con l’azzurro si mescolava l’argento,
argento e azzurro si mescolavano.
1999
L’ubriachezza è passata e il mondo non è cambiato
L’ubriachezza è passata e il mondo non è cambiato.
La musica è giunta, le parole sono finite.
Un motivo si è fuso con un altro motivo.
(Una strofa molto ambiziosa.)
…ma forse non c’è bisogno di parole
per tali – quali tali? – somari…
Sotto le nuvole azzurre-blu
sto fermo e le braccia ottusamente distendo,
tutto di musica riempiendomi.
1999
Rammenti la pioggia in via Titov
Rammenti la pioggia in via Titov,
che cessò tuttavia pochi momenti
dopo le lacrime e le parole dette?
Tu questa pioggia non rammenti!
Rammenti che restammo
un’ora tra i cespugli gelati,
e svogliati ci guardavano i tram
coi loro occhi assonnati?
I tram assonnati guardavano intorno,
e l’acqua dai loro musi colava.
Cosa ancora, Irina, non so,
ma di certo una musica sonava.
Cantavano violini invisibili,
o altro che puoi immaginare,
con due amanti in un viale deserto,
la musica non può non sonare.
Starò sulla soglia un po’ di tempo,
poi per sempre salperò a un tratto,
senza musica, percorrendo la strada
che per venire qui abbiamo fatto.
E poiché il cuore non ha scordato
il tuo sguardo, bisogna anche ricordare
di dire grazie per tutto ciò che è stato,
perché non c’è niente da scusare.
2000
Non abbandonarmi
Non abbandonarmi, quando
la stella di mezzanotte brilla,
quando in strada e in casa
tutto va a meraviglia.
Senza un perché, senza ragione,
ma solo così e intanto
lasciami, quando provo dolore
va’ via, lasciami con me soltanto.
Che si svuotino i cieli.
Che i boschi abbiano un cupo colore.
Che prima di addormentarmi
io chiuda gli occhi con terrore.
Che l’angelo della morte, come in un film,
versi un veleno nel vino,
sconvolga la mia vita
e getti croci sul lino.
E tu rimani in disparte –
del ciliegio più bianca, e piano,
senza toccarmi, ridi,
tendendomi la mano.
2000
Non serve niente, neanche la gioia
Non serve niente, neanche la gioia
d’essere amato,
neanche una calda compassione,
il melo in giardino piantato.
Né tristezza di donna, né tristezza,
amarezza, vergogna che avrai.
Con una smorfia – nel fango, e non tornino
mai e poi mai.
Non portavano l’ubriaco a letto.
Ecco il mio verso:
senza di me salpate, basta
– nuvole, cielo, universo!
Lagnatevi, leggete e compatite,
scaldandovi presso un falò,
leggete ad alta voce, ridete, piangete.
Senza di me però.
Niente occorre davvero,
ogni cosa tu possa nominare:
né l’altrui giardino di mele,
né l’amore che un altro può dare,
ciò che ti sostiene dolcemente,
per non lasciarti cadere.
Meglio terribilmente, senza speranza,
meglio col muso nel fango rimanere.
2000
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