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Jan Lechoń – Il musicista della parola

8 Giu

 

jan lechon

 

Jan Lechoń  –  Il musicista della parola

 

   Esattamente sessanta anni fa, l’8 giugno 1956, moriva in esilio a New York il poeta polacco Jan Lechoń, saltando dalla finestra della sua stanza al dodicesimo piano dell’Hotel Hudson. Questo infelice skamandrita che mi è particolarmente caro è già presente da tempo nel mio blog. Oggi voglio di nuovo ricordarlo insieme con la poetessa Anna Kamieńska (v. nel mio blog), che alla notizia della morte di Lechoń scrisse la struggente poesia “In questa patria”, da me tradotta ora per l’occasione.

 

Anna Kamieńska

 

In questa patria

                                 Alla notizia del suicidio del poeta

                                 Jan Lechoń a New York

 

In questa patria così amara, che ugualmente soffoca

L’ignoranza di essa o la conoscenza perfetta,

In questa patria ordinaria come un tram affollato,

La quale si batte il petto – cuculo molesto,

In questa patria che non si può dimenticare,

Che un tuono ti rammenterà o una veemente parola,

O una sola nota nel grido d’un sobborgo straniero

E prenderà alla gola, e farà cadere gli occhiali,

E accecato ballerai come ubriaco –

Dal dolore; in questa patria dove a Sieradz

Fioriscono i prati, nella patria dov’è la Vistola e la Warta

Di questa lingua, in cui scorrono tutti i nostri ritmi,

In questa patria tetra come i resti dell’incendio

Dell’amata casa, quando senza di noi rimossi,

Sotto la sabbia fresca non celano alcun ricordo –

In questa patria – ci sia almeno la polvere sollevata

Sul prato, almeno un granello di soffione

Che vola in un piccolo aeroplanino, almeno la ghiaia

Che scivola sul fondo del torrente, almeno – una lacrima…

 

(C) by Paolo Statuti

Stanisław Baliński

15 Gen

 

Stanisław Baliński

Stanisław Baliński

 

Stanisław Baliński, poeta, prosatore, saggista e diplomatico polacco, nacque a Varsavia il 2 agosto 1898. Studiò filologia polacca all’Università di Varsavia e teoria e composizione musicale presso la Scuola Superiore di Musica a Varsavia. Nel 1920 entrò a far parte del celebre gruppo poetico Skamander, i cui membri sono tutti presenti nel mio blog: Antoni Słonimski, Kazimierz Wierzyński, Jan Lechoń, Julian Tuwim e Jarosław Iwaszkiewicz. Fu diplomatico in Cina, Brasile e Persia. Nel 1939, allo scoppio della guerra, era a Parigi, e successivamente si trasferì in Gran Bretagna. Negli anni 1940-45 lavorò presso il Ministero degli Esteri del governo polacco in esilio a Londra. Durante la guerra scrisse questi due versi: “La mia patria è la Polonia Clandestina,/che lotta oscura, sola e peregrina”. Negli anni ’50 collaborò con le radio Europa Libera e Voce dell’America. Scrisse 5 raccolte di poesie, due di racconti, saggi e numerosi feuilleton. Benché lo desiderasse tanto, non gli fu concesso di tornare in Polonia. Restò in esilio come Lechoń e Wierzyński. Morì il 12 novembre 1984 a Londra in miseria e in solitudine.

Scrive lo scrittore, poeta, traduttore ed editore Paweł Hertz (1918-2001) (1) nel suo commento alla raccolta poetica Peregrynacje (Peregrinazioni) di Stanisław Baliński, edita nel 1982 dalla casa editrice PIW di Varsavia: “Tra i poeti della sua generazione, Baliński è rimasto forse il più fedele al compito della poesia, che rievoca per noi ed estrae dal fondo del tempo trascorso immagini e pensieri, forme e ombre, colori e suoni, li salva dalla morte e dall’oblio e, presentandoli di nuovo, fa sì che ricordando ciò che è passato in modo diverso, più saggio e più vero, vediamo ciò che è e prevediamo ciò che sarà. La poesia così intesa non crea nuovi mondi, ma è un saggio commento del mondo reale, mentre esso ad ogni istante muta nella nostra memoria. Il poeta dunque, fedele al compito così inteso della poesia, fa sì che esso duri. Risponde a questa attività il classico, capiente ed ampio andamento del verso, e soprattutto la lingua limpida e comune, attinta dalle forme pure, organicamente legata alla storia e alle sorti della comunità che di essa si serve. La poesia di Baliński non teme la commozione né la riflessione, a volte essa rasenta perfino i confini dai quali così superstiziosamente si guardano i parvenu della modernità, e di proposito tratta di cose e questioni per così dire banali e sentimentali. Ma sia le cose che le questioni in Baliński non appaiono mai né banali né sentimentali, come accade quando esse escono da una penna rozza e maldestra, da una mente piatta e fredda. Nelle poesie di Baliński ciò che è piccolo e ciò che è grande, ciò che è importante e ciò che è apparentemente futile, ha in sé il pregio della profondità ed esprime il vero sentimento, comune a noi tutti esseri mortali, limitati dal nostro proprio destino”.

(1) Vedi due sue poesie nella mia versione in “Caleidoscopio di poeti polacchi” (musashop.wordpress.com)

 

Poesie di Stanisław Baliński tradotte da Paolo Statuti

 

Flirt serale

Nel mio paese romantico, musicale,

E’ rimasto uno stagno, ove le ballate non muoiono,

Avvolto da vaporose betulle,

Circondato da un triplice ontaneto.

 

Lungo la riva dello stagno chiari calami

Si arrampicano verso l’ondulato sentiero,

Dove due ombre, occhi non spenti,

Ancora oggi corrono, per incontrarsi ancora.

 

In mezzo allo stagno, coperta dai vimini,

Una vecchia barca scorre sicura,

Dove due ombre, incrociando due remi

Ancora oggi pensano che l’amore dura in eterno.

 

Cala la sera. Anche le viole annegano

Nello stagno, come lacrimose dumki.

E due ombre tra scuri ranuncoli

Ancora oggi sussurrano: buonanotte per sempre.

 

Torno di notte lungo lo stagno e l’edera,

Come in sogno vago dalle stelle ai mattini,

Ascoltando se l’acqua non scroscia,

E se non incontrerò nuovi amanti.

 

Ma là è silenzio. Il verde si secca,

Gli alberi tarlati biancheggiano come ossa,

L’acqua tace e chiude gli occhi,

Fedele alle ombre e al primo amore.

 

L’altro nome della solitudine

 

Com’è bello a volte allontanarsi dalla gente

E accogliere la solitudine tra meste riflessioni,

Quando vicino, con la casa, ci sono amici e parenti,

Dai quali si può tornare, se la solitudine stanca.

 

L’hanno cantata i poeti di quasi tutti i tempi

E hanno scelto per essa i più sottili rasi,

E la gente, toccando queste parole rasate,

Chinava il capo commossa dalla loro bellezza.

 

Ma c’è un’altra solitudine, senza pianto e sentimento,

Quella che non conosce spettatori e pietà,

Che il mondo come abisso senza scopo scopre,

Affinché tu ti specchi in essa. La solitudine vera.

 

In un albergo straniero, a uno dei piani,

Una lettera sopra un rozzo tavolo: interno di deserto.

La notte copre intorno il senso vero della vita,

E l’unica sua voce è il sussurro degli infelici,

 

Che fluisce dagli interminabili confini della sofferenza,

Eternamente uniti all’enigma dell’esistenza.

“Aiuto” – gridi, meravigliato della tua parola

E afferri la cornetta. E la posi di nuovo.

 

Perché non c’è chi chiamare, né perché chiamare.

Ah, non c’è neanche a chi la tua miseria celare

E non c’è come destarsi, come assopirsi,

Salvo col passare del tempo respirare e spegnersi.

Ed ecco in tali notti senza Padre né Spirito

Qualcuno si ferma sulla porta e bussa tre volte

E lentamente apre la porta, e resta sulla soglia.

Proprio lei è venuta: brutta, non più giovane.

 

La guardi, il polso lacerato dal timore.

Sorella minore della morte – è il suo nome.

 

Il destino

 

Camminava un romantico in ritardo, con una valigia di versi.

La valigia si frantumò

E tutti i versi si rovesciarono…

 

Il vento li sparse, la nebbia li pianse

Come turbine atmosferico –

Versi di rivolta contro di sé e il mondo,

Versi di confessioni con fiori e senza fiori,

Versi che dovevano essere fama,

Un tempo eroici, oggi maledetti,

Un tempo semplici, oggi incomprensibili…

Tutto si frantumò, si disperse

E si smarrì, come dissenso

Che batte sulla vita.

 

Calava la notte, e all’indomani all’alba

Rimase sulla strada una sola, unica

Metafora scampata:

Era a forma di rametto

Di lillà, che dormiva sulle foglioline del verde.

Qualcuno lo trovò. Se lo mise in tasca.

 

 

 

 

Addio

                                     Alla memoria di Stefan Napierski (2)

 

Addio, luce rosata di serate che si spengono,

E tu, stella, che brilli in un sonetto ispirato,

E tu, cuore, che ami per tua propria scelta,

Per la quale ogni uomo ti fu patria nel mondo.

 

Addio, meditazione del saggio che nella notte scura

Ti sporgevi dalla finestra, dove fiorivano le rose,

E cercavi nei cerchi della tua segreta scienza,

Come prolungarci la vita di una notte almeno.

 

Addio, pallida melodia dell’età trascorsa,

Che cantavi la libertà e l’amore delle nazioni,

E nel brusio della città e nel silenzio dei giardini,

Cercavi, instancabile, la verità sull’uomo.

 

Ci chiniamo su di voi come sulle bellezze,

Che sono state elevate, onde abbatterle poi,

E sono state chiamate nuvola e canti,

Per unirle alla sofferenza e calpestarle col fango.

 

Ma chi si dissetò con la forza dell’ispirazione,

E adesso deve contare sconfitte e ferite,

Appartiene alla schiera dei deboli e invincibili,

E le tenebre e il silenzio più non teme.

 

Le tenebre non lo tradiranno, e il silenzio ascolterà,

Andrò con lui sul sentiero dei fratelli immortali

E gli daranno un giorno, trascorsa la fonda notte,

Tutto ciò cui anelava, tutto ciò che ha perduto.

 

All’orizzonte della notte frusciano gli alberi neri,

Cui hanno messo nelle radici le spine dell’odio,

L’ombra degli amici morti ti dice addio e canta

Con voce più quieta del sussurro di foglie dimenticate.

 

(2) Stefan Napierski, poeta, traduttore e saggista polacco, nato a Varsavia nel 1899, e ucciso in una esecuzione di massa dai tedeschi nel 1940.

 

 

Sull’Oceano Atlantico

 

O stella nel cielo scuro, cosa stai cercando?

Da dove vieni, misteriosa, e dove sei diretta?

Sento il tuo trepido respiro, la tua ansia ascolto,

Che mi penetra nel cuore e nelle vene scorre.

 

Reggendomi alla ringhiera del cielo sulla nave sorda,

Avvolto nel nero mantello dell’atlantica notte,

Navigo dietro a te lentamente, aspetto lo scongiuro,

Il segnale, che tranne noi nessun altro udrà.

 

Prima che l’alba col primo soffio sfiori la volta

E ti spenga, o stella, come fioco lumino,

Rispondi, cosa cerchi? – Cosa cerco, – mio caro? –

Baluginò la stella – io cerco il mio nome.

 

 

Ninnananna da cortile

 

Gli abiti estivi di mia sorella, bianchi abiti estivi,

Prendono aria sul balcone – ringhiera del cielo,

Il vento di primavera li sfiora dolce e mesto,

Quasi fossero nuvolette da sollevare.

 

Alla finestra siedono i genitori. Il profilo severo

E gli occhi offuscati dal lungo vegliare,

Guardano i bianchi serti intrecciati per mia sorella,

E guardano i bianchi abiti per lei acquistati.

Il vento scorre sul balcone. Il sogno ruota

E sventola come mussola stesa ad asciugare…

Ma mia sorella non c’è. Mia sorella viaggia.

Gli abiti li ha dimenticati. E mai tornerà.

 

Illusioni

 

Quando il crepuscolo fluisce adagio alla finestra,

E spegnendo la luce del cielo, le lampade accende,

C’è un istante in cui si desta l’amore impulsivo,

Per sussurrare che ben presto sparirà.

 

Se la melodia della vita sfugge alla vita,

Il crepuscolo sfugge alla notte e proprio quest’attimo

Si china su di me come riflesso di speranza,

Per sussurrare che si spegnerà all’istante.

 

Fermato alla finestra in quel minuto morto,

La pagina del giorno giro verso la notte,

E mi dico che tornerò alle luci,

Ma non torno.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Jan Lechoń

2 Nov

 

 

Roman Kramsztyk (1885-1942): Ritratto di Jan Lechoń (1919)

Roman Kramsztyk (1885-1942): Ritratto di Jan Lechoń (1919)

   Jan Lechoń (Leszek Serafinowicz) nacque il 13 giugno 1899. Debuttò a 14 anni con la raccolta Na złotym polu (Nel campo dorato), seguita un anno dopo da Po różnych ścieżkach (Per differenti sentieri). Studiò filologia polacca all’Università di Varsavia e fu co-redattore della rivista Pro arte et studio, co-fondatore del cabaret letterario Pikador (1918) e uno dei creatori del gruppo poetico Skamander (1916).

   La raccolta di versi Karmazynowy poemat (Poema cremisino, 1920) gli portò la celebrità, consolidata quattro anni dopo dalla raccolta Srebrne i czarne (Argentato e nero).

   Negli anni 1930-1939 svolse l’incarico di attaché culturale presso l’ambasciata polacca a Parigi. Dopo la capitolazione francese, si recò in Spagna, Portogallo, Brasile, per trasferirsi poi definitivamente a New York nel 1941. Negli anni 1941-1947 assieme a Kazimierz Wierzyński e Józef Wittlin collaborò a diverse riviste letterarie dell’emigrazione polacca.

   Irena Lorentowicz (1908-1985), pittrice e scenografa, scriveva del poeta: “Vivevano in lui differenti nature. Era arguto e cinico, assai loquace e disperatamente solo. Era l’uomo più socievole che conoscessi e al tempo stesso il più infelice”.

   La sua omosessualità non era un mistero per gli amici, tuttavia egli non ne parlò mai, soltanto in modo assai velato essa trapela dalle sue annotazioni relative alla “carissima persona”.

   Nell’agosto del 1949 cominciò a scrivere il suo Diario, inteso come una specifica terapia contro le frequenti depressioni. Il 30 maggio 1956, pochi giorni prima del suicidio vi annotò: “Non si può descrivere ciò che ho provato oggi… Sono tornato a casa tardi e mi sembrava che fosse tutto nella mia immaginazione, che mi fossi creato dei problemi inesistenti…So che è soltanto stanchezza…Si può sempre trovare nella propria intelligenza e volontà, nel proprio cuore qualcosa che ci aiuterà nella lotta con la vita, con la gente. Ma per la lotta con se stessi c’è solo la preghiera”.

   Nel suo libro Szkice i portrety literackie (Schizzi e ritratti letterari) Kazimierz Wierzyński scrive nel suo commiato dall’amico poeta: “…Caro Leszek, addio…ci ha lasciati un poeta che ha avuto e avrà sempre un posto privilegiato nell’arte della parola polacca…Aveva diciotto anni quando scrisse il Poema cremisino, e già allora ci stupiva la sua maturità. Oggi, a distanza di tanti anni, possiamo dire con certezza che egli apparve come un genio. Scriveva meno di quanto avremmo voluto noi tutti amanti della sua poesia parsimoniosa e controllata, che tra differenti emozioni sceglieva le più importanti e cercava per esse espressioni monumentali…”

   Per Lechoń la poesia era qualcosa ai confini tra letteratura e musica. La concepiva come “poesia pura”. La musicalità doveva distinguere la poesia dalla comune letteratura, darle unicità e irripetibilità.

   Jan Marx, critico, saggista e traduttore, nel suo libro Skamandryci  (Skamandriti), scrive: “Scopo della poesia non è la scoperta della verità, perché essa non esiste. Tutto, specialmente nella sfera dei sentimenti, è un mistero. Scopo della poesia è dunque mostrare il mistero. Ci riescono soltanto i grandi poeti. Penso che Lechoń fosse capace di mostrarlo. Erano soprattutto misteri tribali e la sua poesia è in questa dimensione, è là dove il poeta affronta la tematica nazionale, come continuazione della grande poesia romantica”.

   Nel 1991, dopo la caduta del regime comunista fortemente osteggiato da Lechoń, la salma del poeta venne esumata dal cimitero di New York e riportata in patria. Ora giace nel cimitero di Łaski, vicino Varsavia, assieme ai suoi genitori. Del resto in una sua poesia dell’esilio egli aveva espresso questo desiderio:

 

Ciò che è così difficile credere,

Un giorno può diventare realtà.

Perciò ho pensato: vorrei giacere

Là dove mio padre giace già.

 

 

 

Poesie di Jan Lechoń tradotte da Paolo Statuti

 

Preghiera
Oh! Signore sopra le piogge e sopra la calura!
Seminatore di lune e di stelle nell’etere sospese,
China i cieli verso di noi e dissetaci col silenzio,
Confrontaci stanchi con le taciturne distese.

Oh! annegaci nel vasto abisso dei Tuoi mondi,
Inargentaci come stelle, diluiscici come il mare,
Versaci con l’aria nell’azzurro spazio sconfinato,
Accordaci come eco e ascolta come scompare.

Facci pallido mattino che nel cielo sorge,
Nuvola che scorre pigramente a mezzodì,
Velo della cupa notte che la terra ricopre –
Liberaci dall’anima e da noi salvaci altresì.

 

*  *  *

Mi chiedi cos’è per me del mondo l’essenza?

Ti dirò: amore e morte – senza differenza.

Temo gli occhi azzurri d’uno – dell’altra i mori.

Son queste le mie due morti e i miei due amori.

 

Per il cielo stellato, nella notte nera,

Essi spingono il vento nella stratosfera –

Quel vento che ha costretto la terra con furia

A cedere l’uomo al dolore e alla lussuria.

 

Nella macina si frantumano le ore,

Scaviamo cercando la verità assoluta –

E una sola cosa sappiamo. E niente muta.

Dall’amor difende la morte, e dalla morte l’amore.

 

1922

 

 

 

 

 

 

 

L’incontro

 

Oggi in questa notte, insonne e abbandonato,

Tra i raggi lunari, spinto da un soffio strano…

Non so come a Ravenna mi son ritrovato

E ho visto ciò che da tempo sognavo invano.

 

Le note d’un flauto da una finestra vicino,

La brezza che porta un profumo inebriante –

Ed io come tra mistici fiori cammino,

Sotto la celeste cupola scintillante.

 

“Sarà pago chi beve alla divina fonte!”

Ho chiuso gli occhi come chiamato da Dio –

Udivo solo del fiume lo strano brusio,

Più tardi, più tardi ho visto Dante sul ponte.

 

“Sei tu, Tu, mio maestro! Bianco come un giglio,

Perché mai Ti brucia questo strano sconforto?

Svelami, Ti prego, il segreto del Tuo volto.

Non so niente. Mi son perso. Dammi un consiglio”.

 

Egli disse, o disse l’acqua, oppure la luna,

Caddi in ginocchio, coprendomi il viso triste:

“Non c’è inferno, né cielo, non c’è terra alcuna,

C’è solo Beatrice. E proprio lei non esiste”.

 

                                            dedicata a Maria Bogdzińska

1922

 

 

 

 

 

Il cielo

 

Ho sognato il cielo: l’ho riconosciuto subito

Dal profumo del trifoglio e dal canto del merlo,

Dal cri-cri nell’erba, dal prato che ondeggiava,

E so che era presente Dio, pur senza vederlo.

 

Non vedevo gli angeli, ma le cicogne frusciavano

Con le bianche ali sopra i campi di frumento,

E c’erano anche i platani gli aceri e i faggi

E sonavano come un organo nel brusio del vento.

 

E più tardi come una lucciola gigante

L’argentea luna illuminò l’Acropoli in rovina,

Sulla quale in alto vedevo Paweł Kochański

Che sonava l’”Aretusa” in quella quiete divina.

 

Romanticismo

 

Già la notte d’autunno l’incendio di foglie d’oro spegne

E i levrieri nel vecchio arazzo si addormentano,

Le bisnonne nei ritratti e i sovrani di Polonia

Scompaiono nel buio. Triste è questo momento.

 

Sull’acqua il vento piega dei gobbi salici i bracci,

La bufera e la strada-pantano dietro le finestre.

Misero colui che non può credere alle ondine,

Né agli spiriti, ai presagi, né in Dio Onnipotente!

 

 

 

 

 

 

 

Roma

 

Piove a Roma come un nastro incessante.

Sono un pellegrino. Ma non sono qui per l’Anno Santo.

Sono solo. E un pensiero soltanto come piombo mi pesa:

Sarebbe troppo facile. Non per te è il conforto della chiesa.

 

Ho un pensiero grande e solo a Dio rivolto,

Di capire te, o città, con la tua grandezza rigonfia,

Quella mite mano con cui Aurelio accoglie in Campidoglio,

E la cupola di Pietro,

E quel rododendro che a Villa Borghese germoglia.

 

Il poeta fuori moda

 

Mi dicono: „Non tornerà il tempo andato,

presto dalla mente dei giovani sparirà.

Riprendi gli arredi del tuo vecchio teatro,

perché ora un nuovo dramma si reciterà.

Berrò una fiasca di nettare del lontano

passato di tanti giovanili banchetti.

Con la luna sotto il braccio e una rosa in mano

esco, lasciando il resto ai nuovi addetti.

 

(C) by Paolo Statuti 

Leopold Staff

13 Ago

 Leopold Staff nacque il 14 novembre 1878 a Lwów e morì il 31 maggio 1957 a Skarżysko Kamienne. Debuttò nel 1901 con la raccolta di versi “Sny o potędze” (Sogni di potenza). Seguirono: “Dzień duszy” (Il giorno dell’anima, 1903), „Ptakom niebieskim” (Agli uccelli celesti, 1905), „Gałąź kwitnąca” (Il ramo in fiore, 1908), “Uśmiechy godzin” (I sorrisi delle ore, 1910), “W cieniu miecza” (All’ombra della spada, 1911), “Łabędź i lira” (Il cigno e la lira, 1914). Nelle prime raccolte del giovane poeta troviamo non solo “silenzi, ricordi, sospiri”, come egli scrive in una poesia, ma anche un’intera collezione di motivi e immagini del modernismo. Conformemente alla moda dell’epoca, Staff cantava la tristezza del mondo e dell’anima. Il paesaggio dell’autunno e della notte parlava del mondo interiore dell’uomo, del “mare tenebrarum” dell’anima. Le visioni delle “città buie”, dei “tetri boschi”, dei temporali, delle tenebre, dicono che la vita del subcosciente non è armonia, ma caos, è scontro di istinti che si contrappongono. Scaturisce da queste immagini la coscienza della imperfezione, della disarmonia e addirittura la “bassezza” e la “bestialità” dell’uomo. Ma l’importanza e il posto di Staff nella poesia polacca non furono determinati da questa esperienza malinconica e crepuscolare, ma bensì dalla sua successiva rinuncia a queste immagini e stati d’animo convenzionali che egli stesso del resto aveva coltivato. Un nuovo eroe lirico prende il posto del decadente rassegnato. L’amore per la vita diventa il principale postulato, la nuova parola d’ordine delle nuove tendenze. Dopo il rifiuto del Nirvana e della Morte, Staff – come una notevole parte degli scrittori del tempo, tra cui Żeromski, Brzozowski, Berent, Korczak, si assume il compito di creare nuovi valori esistenziali, un nuovo modello di uomo, un nuovo “mondo di elementi”, rifiutando la debolezza umana e la “paura del mondo”. Tutto ciò trova particolarmente espressione nel poema filosofico “Il maestro Twardowski”, e in alcune liriche famose, come ad es. “Il fabbro”, in cui il protagonista forgia il suo “temprato, valoroso, forte e fiero” cuore, o “Il cavaliere” che si batte per il suo destino umano, o ancora il poema “Adamo” del 1914, in cui l’eroe oltre a lottare per la trasformazione del suo mondo interiore, lotta anche per la trasformazione di quello esteriore.

   Nella raccolta “Ścieżki polne” (Sentieri di campagna), uscita nel 1919, e in molti altri versi scritti dopo la guerra, Staff crea figure ancora più indipendenti, come l’eroe-viandante e l’eroe-artefice, mostrando come nel lavoro-lotta l’uomo conquista la fierezza, l’orgoglio, raggiunge l’armonia e la pienezza della vita.

   Staff portò nella poesia della “Giovane Polonia” – movimento letterario nato alla fine del secolo e durato fino al 1914 circa – una nota di ottimismo, di vitalità che ne ravvivò l’atmosfera decadente. Egli inoltre “tenne a battesimo” i poeti dello “Skamander” – Iwaszkiewicz, Lechoń, Wierzyński, Słonimski e Tuwim, cioè i poeti di quella corrente letteraria che si svolse dopo il 1919 e il cui contributo fu decisivo per la rinascita della poesia polacca dopo l’indipendenza riconquistata nel 1918.

   Nel 1927 uscì la sua raccolta “Ucho igielne” (Cruna d’ago) e nel 1932 – “Wysokie drzewa” (Gli alberi alti). Nel 1936 apparve il volume “Barwa miodu” (Il colore del miele), di cui fa parte la lirica “Ars poetica” che può essere considerata come un compendio del programma poetico di Staff in quel periodo della sua creazione.

   Pur traendo ispirazione anche dal movimento simbolista, Staff mantenne di fronte ad esso la sua indipendenza, affermando che la parola non doveva essere soltanto il mezzo per suggerire un’immagine o una impressione, ma anche il mezzo per raggiungere una piena comprensione tra lettore e poeta. Su quest’uso della parola, più vicino alla concezione propria ai classici, Staff ha eretto l’edificio della sua poesia. Il suo classicismo si nutre ugualmente dei poeti francesi del XVI e XVII secolo, ch’egli ha tradotto. L’architettura di Roma, Venezia, Firenze, la scultura antica, Michelangelo e la pittura del Rinascimento si fondono nella sua poesia con il paesaggio polacco. L’espressione poetica di Staff andò continuamente evolvendosi: egli si compiace di creare nuove parole, rime preziose. “I poeti – ha scritto Mieczysław Jastrun – di solito si fossilizzano nelle proprie abitudini e predilezioni formali, perfezionando la maniera iniziata nella giovinezza. Staff invece ha sempre cambiato, rinnovato i mezzi d’espressione, ha arricchito la sua tematica assieme alle nuove generazioni di poeti”.

   La cultura di Staff fu vasta e veramente europea. Egli compì anche magistrali versioni da varie letterature – dall’italiano ad es. tradusse i Fioretti di san Francesco, prose di Leonardo e poesie di Michelangelo.

   Nel 1946 uscì “Martwa pogoda” (Tempo morto) e nel 1954 “Wiklina” (Il vimine). La sua ultima opera “Dziewięć muz” (Le nove muse) fu pubblicata postuma nel 1958. Soprattutto la raccolta “Il vimine” fu per gli amanti della sua poesia un’autentica sorpresa per la diversità dello stile e della visione del mondo. Ecco cosa scrisse in proposito il poeta Mieczysław Jastrun: “Il mondo di Staff, finora così sicuro, incastonato nella tradizione umanistica, comincia a vacillare. Attraverso i veli squarciati e le forme infrante si vede un più autentico autoritratto del poeta , come se egli avesse rivoltato il suo abito di gala, senza spaventarsi del fatto che proprio lui, che sembrava scolpire il marmo, ha iniziato a intrecciare comuni ceste di vimini e che in quelle ceste ha cominciato a trasportare pietre”.

 

 

Poesie di Leopold Staff tradotte da Paolo Statuti

 

 

 

 

 

Ars poetica

 

Un’eco dal cuore sussurra:

“Prendimi prima ch’io languisca,

Che diventi diafana, azzurra,

Che impallidisca, che sparisca!”

 

Come una farfalla l’afferro,

Non già per sbalordire il mondo,

Ma per render l’attimo eterno,

Perché tu comprenda a fondo.

 

E il verso che viene dal bardo,

Vestito di suoni e d’arcano,

Sia limpido come uno sguardo,

Sia come una stretta di mano.

 

1932

 

Gli alberi alti

 

Oh, degli alberi alti che c’è di più bello,

Forgiati dalla sera nel bronzeo tramonto,

Sul rivo che prende i colori d’un vanello,

E che il verde riflesso fa sembrar più fondo.

 

L’odore dell’acqua, glauco all’ombra, oro al sole,

Nel senzavento assonnato ondeggia a stento,

Mentre i grillini dalle campestri dimore

Tritano la quiete con forbici d’argento.

 

Poi tutto tace, la solitudine affoga,

Già scuro diventa degli alberi l’ombrello,

Dal quale come spettro l’anima si snoda…

Oh, degli alberi alti che c’è di più bello!

 

1936

 

* *  *

Quando il vento a dicembre è più acuto e freddo,

Quando già gozzovigliano le bufere,

E la terra irrigidisce sotto la neve

E la vita e la morte vanno a braccetto;

 

Quando la notte la sua vetta ha toccato

E tutto il mondo grida il suo dolore:

A un tratto sentiamo – noi Iperbòrei –

Quel grido incredibile: “Il Signore è nato!”

 

 

Oh, prodigio! Sempre Dio quando è dicembre

Nasce! Ma è poi vero, nasce realmente,

Se questa voce si rinnova ogni anno?

 

Infelici! ciechi! sordi! In verità

Il Dio eterno nasce dall’Eternità,

E può il mondo generarlo – senza affanno?

 

1927

 

Giordano Bruno
Come possiamo onorare Giordano Bruno
E la sua opera così preclara,
Per questo ci vorrebbe un fulmine,
Che desse al mondo la scossa necessaria.
Considerate se anche voi avete
Nel cuore e nella voce il suo fuoco,
Perché lui si onorò con le fiamme,
Con le quali si rivestì sul rogo.
1954

 

*  *  *

Ultimo della mia generazione,

Gli amici diletti ho seppelliti.

Ho visto come cambia la vita e come

La vita sono cambiato anch’io.

 

Ho guardato al futuro con serenità,

Ho amato l’uomo e la natura,

Ho venerato la franchezza e la libertà

Fratello delle nubi alla ventura.

 

No, non mi hanno adescato gli osanna,

La fama, una statua marmorea.

Resterà di me una deserta stanza

E una quieta, taciturna gloria.

 

1957

 

Uomo

Leggo la storia

E vedo cosa hai fatto

Per millenni, o Uomo!

Hai ucciso, hai ammazzato,

E continui a meditare

Come farlo meglio.

Mi domando se sei degno

D’essere scritto con la maiuscola.

 

1957

 

 

 

Julian Tuwim

3 Ago

 

 

Julian Tuwim

Poeta rinnovatore e stregone

 

   Nacque il 13 settembre 1894 a Łódź. Lì terminò il ginnasio e pubblicò la maggior parte delle sue opere giovanili. Negli  anni 1916-1918 studiò diritto e filosofia all’Università di Varsavia, collaborando al tempo stesso alle nuove riviste “Pro arte et studio” e “Pro arte”, dedicate a problemi artistici d’avanguardia e a diffondere la conoscenza della poesia moderna. Fu uno dei fondatori del cabaret letterario “Pikador” e del movimento “Skamander”, nel cui manifesto si diceva tra l’altro: “Crediamo profondamente nell’oggi di cui tutti ci sentiamo figli…Vogliamo essere i poeti di oggi, in ciò è la nostra fede, il nostro programma…” Facevano parte di questo movimento anche Lechoń, Wierzyński, Słonimski e Iwaszkiewicz, e ad esso si deve la rinascita della poesia polacca dopo l’indipendenza riconquistata nel 1918. Tuwim ne divenne il rappresentante di maggior spicco.

   Così il poeta Adam Ważyk descrive l’impressione destata allora dalle opere di Tuwim: “Nei crocchi della gioventù studentesca da poco rinata alla libertà si rumoreggiava, ci si agitava. Gli anziani chiedevano se quella era poesia o non piuttosto impertinenza. I suoi versi – come una ventata d’aria fresca – spazzavano via le anticaglie simboliste. Ci si spogliò dei costumi per uscire vestiti in abiti qualunque, si finì di riposare in “giacigli”, e d’ora in poi si dormì e ci si ammalò semplicemente a letto, e i poveretti che non l’avevano – in terra. Il mondo reale entrò nella poesia, con i suoi veri dolori, le vere gioie, le vere tristezze”.

   Effettivamente Tuwim portò per la prima volta nella poesia, su vasta scala, la vita delle grandi città moderne, con i loro contrasti sociali e i loro abitanti, l’atmosfera triste e sonnolenta delle cittadine di provincia, che la letteratura nobiliare aveva finora ignorato.

   Attaccando e deridendo la capitalistica caccia al denaro e la grettezza piccolo borghese, Tuwim descrive contemporaneamente il semplice uomo qualunque della periferia, delle botteghe, delle officine, mostrando solidarietà con il destino degli umiliati e degli sfruttati.

   Nel patrimonio poetico di Tuwim occorre ricordare soprattutto le raccolte liriche pubblicate negli anni tra le due guerre, come “Czyhanie na Boga” (Agguato a Dio, 1918), “Sokrates tańczący” (Socrate danzante, 1920), “Siódma jesień” (Il settimo autunno, 1922), “Słowa we krwi” (Parole nel sangue, 1926), “Rzecz czarnoleska” (L’opera di Czarnolas, 1929), “Biblia cygańska” (La Bibbia degli zingari, 1933), “Treść gorejąca” (Argomento ardente, 1936). Un’altra parte importante e significativa della sua creazione è costituita dalle opere satiriche, parzialmente riunite nel volume “Jarmark rymów” (La fiera delle rime, 1934). Tuwim pubblicò anche diverse raccolte di bellissime poesie per bambini, come “La locomotiva”, “L’elefante Trombetti”, “Sofia faccioditestamia”, nonché numerose traduzioni includenti Puszkin, Gogol, Whitman, Rimbaud.

   A nuovi temi corrispondono nella creazione di Tuwim nuovi mezzi di espressione, primo fra tutti – la lingua, che egli studiò profondamente e spesso creò, giungendo a impadronirsi di ogni sfumatura del polacco antico e moderno. Pochi poeti hanno saputo unire all’immagine quella intraducibile magia della parola, per la quale egli paragonò l’opera sua a quella di un alchimista o di uno stregone.

   Alla scoppio della guerra Tuwim, che era di origine ebrea, lasciò la Polonia. Si recò dapprima in Francia, quindi dopo il crollo di quest’ultima – in Brasile, e più tardi negli Stati Uniti. Durante il suo soggiorno in America scrisse il poema “Kwiaty polskie” (Fiori polacchi) – un’opera di vasto respiro, smagliante, piena di lirismo e di digressioni, in cui dominano la nostalgia per la terra dell’infanzia e i sentimenti patriottici. E’ una sintesi di quasi tutti i generi poetici sperimentati da Tuwim, dalla lirica personale e dall’oratoria patriottica, all’epica, al pamphlet e alla satira. Nel 1946 il poeta tornò in Polonia, dove tre anni dopo il poema fu pubblicato, guadagnandosi subito una enorme popolarità.

   Tuwim morì improvvisamente il il 27 dicembre 1953 a Zakopane, tre settimane dopo un altro grande poeta polacco – Konstanty Ildefons Gałczyński.  La figura di Tuwim è stata diversamente considerata e apprezzata, e benché nessuno neghi il suo grande talento, c’è discordanza di pareri e di giudizi sulla sua creazione. Alcuni sono affascinati dal Tuwim appassionato e sentimentale, altri dal Tuwim patetico o sarcastico e arguto. Altri ancora vedono in lui anzitutto il poeta del grande stupore metafisico. Già questa stessa possibilità di scelta e di molteplici interpretazioni conferma la ricchezza della sua eredità poetica.

 

Julian Tuwim tradotto da Paolo Statuti

 

Suum cuique

A chi il lustro lontano,

A chi il sole italiano,

E ancora altri portenti,

A me un tavolino,

La birra dopo il vino

E il lesso sotto i denti.

 

A chi le sinfonie,

Louvre e filarmonie,

Città da capogiro,

A me una cantina,

Una vodka vicina,

Uno sguardo e un sospiro.

 

La pioggia grigia abbraccia

Gli steccati e l’erbaccia.

La strada è una fiumana.

Tempaccio ormai spossato!

Scambiarti non è dato

Solitudine umana!

 

1929

 

E fu così…

 

E fu così: nell’atra notte

Da un ramo sbucò un fiore in boccio.

All’alba s’aprì con gli uccelli;

Sospirai. Era il primo approccio.

 

Quasi un’ora divenne un fiore,

Dormivegliando pigramente.

Lo tolsero dal nido vischioso

Gli uccelli con fruscìo crescente.

 

Quasi un’ora mise le piume,

Cercando tinte nel giardino.

Lo tolse al soffice calice

Il venticello del mattino.

 

Guarda come per te lottano,

Riunendosi in suoni iridati:

Gli uccelli sempre più teneri,

I fiori sempre più odorati!

 

In due meraviglie un creatore

Te senza nome ha ripartito,

E sotto ti trema turbato

Il ramo che t’ha partorito.

 

Dunque chi? Dunque come? Il fiore?

L’uccello? Tace la natura;

Nel cuore del mondo strarìpa

Del viver la folle paura.

 

Allor lo colsi dal rametto –

Dell’albero il primogenito:

Emana un aroma assai dolce,

Canta versi con un gemito.

 

1936

 

 

Venticello

 

Sulle acque trepidi fatti:

Soffia un venticello.

Sulle acque un grande silenzio.

Sono solo.

Di nuovo non vivo, di nuovo non so

Cosa avviene,

Immobile, assorto,

Resto.

Così è già stato. Ansia e speranza

Che conosco da tempo.

 

Qualcosa succederà sulle acque.

La forza trema.

Così è già stato – prima dell’enorme

Primo giorno.

Sugli abissi un volto appare.

Soffia un venticello.

L’eternità torna come sogno

Non tutto sognato.

Non sapevo come ho iniziato la mia storia.

Adesso so.

 

 

Dal poema: “Fiori polacchi”

 

O fiume, che fedele nei tuoi flutti

Le stelle di Varsavia ripetevi

E ogni alba e ogni tramonto,

Come si ripete un bel racconto

(Scorrendo e tremando – di tanto in tanto

Per l’emozione la voce si spezza

Come luce nell’acqua d’un torrente,

Ma con più leggiadria, con più dolcezza

Si svolge allora assieme al pianto),

Oh, fiume, che a memoria sapevi

Del cielo gli immensi azzurri poemi

E strofe di nuvole prese a caso ,

E dell’Iliade le inquiete saghe,

E la Bibbia dello spazio stellato –

Finché, grigia cantante, ti è toccato

Infiammarti con la tua capitale

E ululare, quando l’ululo udisti

Di Varsavia, città-Giobbe polacca!

Quando su di te il soffitto s’è schiantato,

Scorrevi nei bagliori vermigli

Con la stessa imperturbata corrente,

Scorrevi orgogliosa e liberamente,

E le case della città, come torce,

Ma rivolte all’ingiù funereamente,

Ti percorrevano in rosso corteo…

Torneremo, o Vistola, per quel rosso,

Fedelmente riposto sul tuo fondo,

Porteremo un turbine, di sdegno armato,

E un nuovo mattino, con fede vibrante…

Quel turbine – leverà la nostra mano,

Un bagliore, un grido, una strofa e il sangue!

 

 

Litania

 

Ti prego, mio Dio, con fervore,

Ti prego, mio Dio, con tutto il cuore:

Per quelli che sono umiliati,

Per quelli che sperano tremando,

Per l’eterno addio dei morti,

Per la stanchezza dei moribondi,

Per la tristezza dei non compresi,

Per quelli che supplicano invano,

Per quelli derisi, per gli offesi,

Per gli stolti, i gretti e i malvagi,

Per quelli che corrono affannati

Al più vicino ambulatorio,

Per quelli che dalla grande città

Tornano a casa col batticuore,

Per quelli rozzamente trattati,

Per quelli fischiati a teatro,

Per i noiosi, i brutti, gli inetti,

I deboli, i percossi, gli oppressi,

Per quelli senza un sonno sereno,

Per quelli che temono la morte,

Per quelli che aspettano in farmacia

E per quelli che hanno perso il treno,

– PER TUTTI GLI ABITANTI DEL MONDO,

Per i loro guai e i loro affanni,

Le sofferenze, i crucci, i pensieri,

Per le loro ansie e dolori,

Sfortune, nostalgie, dispiaceri,

Per ogni più piccolo palpito,

Che non sia felicità e gioia,

E che essa in eterno a questa gente

Illumini la via benevolmente –

Ti prego, mio Dio, con fervore,

Ti prego, mio dio, con tutto il cuore!

 

 

In regalo alla donna

 

Poiché Dio l’ha creata e satana l’ha stregata,

E’ da sempre e per sempre peccatrice e beata,

Tradimento e fedeltà, perfidia ed incanto,

Delizia e sconforto, sorriso e pianto…

E’ angelo e demonio, miracolo e fantasma,

E vertice sulle nubi e abisso senza fondo.

E’ il principio e la fine del mondo…

(C) by Paolo Statuti

 

Di Julian Tuwin ho tradotto anche due famose poesie per bambini – “La locomotiva” e “Radio uccelli”, inserite nel mio blog nel post “Poesie per bambini”, nonché la famosa poesia “A un uomo semplice” (v. in questo blog).

 

 

 

Kazimiera Illakowiczowna

2 Ago

 

 

Kazimiera Illakowiczowna

   Nacque a Vilno il 6 agosto del 1892 e morì a Poznań il 16 febbraio del 1983.  Fu uno dei principali protagonisti della letteratura polacca del XX secolo. La sua creazione è considerata una delle più alte conquiste della lirica polacca. Nel 1905, all’età di 13 anni, pubblicò la sua prima poesia sulla rivista “Settimanale illustrato”, mentre la sua prima raccolta di versi uscì a Cracovia, sotto il titolo “Voli di Icaro”, nel 1911. Nella sua lunga vita scrisse più di 30 raccolte di poesie. Negli anni 1915-1917 prestò servizio come infermiera nell’armata russa. Nel 1922, assieme a Iwaszkiewicz, Lechoń, Wierzyński, Słonimski e Tuwim, entrò a far parte del gruppo Skamander, il cui contributo fu decisivo per la rinascita della poesia polacca dopo la riconquista dell’indipendenza nel 1918. Negli anni 1926-1935 fu segretaria del maresciallo J. Piłsudski. Trascorse il periodo della II guerra mondiale in Romania e dal 1947 visse a Poznań. Si distinse anche come traduttrice, soprattutto di Tolstoj, Goethe e Dickinson, e ricevette molti premi nazionali e internazionali. Dotata di forte personalità e d’ingegno vivace, fu una donna affascinante, spesso anche volubile, difficile e imprevedibile nelle relazioni umane. Sincera credente, sentì sempre un saldo legame con la spiritualità cristiana.

   Come poetessa rivela una originale e magica immaginazione, uno spiccato spirito di osservazione, capacità di descrizione pittorica e dinamica, uno straordinario senso del ritmo del verso. La ricchezza delle situazioni liriche, dei temi trattati, consente di considerare l’intento letterario della poetessa come una continua trasposizione della vita nella letteratura. L’incessante ampliamento delle tematiche e la contemporanea presenza di motivi storici, di un certo peregrinare attraverso successive situazioni liriche – determinano lo sviluppo della sua poesia. I soggetti personali si mescolano a quelli storici, i presentimenti catastrofici con lo scetticismo, ma anche con la poesia impegnata. Ampio spazio nella sua poesia occupano i motivi folcloristici, i temi religiosi, le liriche interpretazioni della mitologia e della Bibbia, gli oroscopi astrologici. Tutta la creazione di Kazimiera Iłłakowiczówna si compone in un quadro di nobiltà umanistica, espressa nei valori sociali, politici e individuali.

 

Kazimiera Iłłakowiczówna tradotta da Paolo Statuti

 

Tra il cuore e una foglia d’acero…

Tra il cuore e una foglia d’acero c’è un filo,

lungo il quale il pensiero scalzo cammina,

e dopo il suo passaggio o prima del suo arrivo

danzano sul filo dorato la vespa e la mosca cavallina…

La mosca corpulenta e la vespa nel suo tigrato manto:

sono un tantino orrende, ma le puoi prendere – con un guanto.

Tra il cuore e la foglia la finestra dev’essere aperta,

la foglia dev’essere fresca e il cuore non squarciato,

e non bisogna temere la mosca, né la vespa,

né temere il ronzio o le ali sulle gote…

E allora il cuore può uscire dal petto e con scarpine dorate

danzare lungo il filo-sentiero, nell’aria come sull’erba.

 

Oh autunno, autunno

Che tutto si rinnovi, che cambi!…

Oh autunno, autunno, autunno…

Che in una notte profondamente limpida

nuove stelle nascano o girino,

che si compia ciò che non cambierà,

sia pure un torto, o un dolore smisurato,

inauditi per il cuore sacrifici,

rabbia o amore, vita o trapasso,

pur che presto qualcosa cambi!

Oh, autunno…autunno!…autunno.

Voglio una tempesta, perché in me con forza

di nuovo il cuore arda e batta,

perché la vita mi travolga tutta

e come un giunco nell’abbraccio spezzi!

Non tenetemi, non siatemi di ostacolo,

già tanti freni si sono dispersi…

Io voglio felicità e dolore, e le ali

e continuare così non posso, non posso!

Che tutto si rinnovi, che cambi!…

Oh autunno…autunno…autunno.

 

Pastorale

Gesù trema nella culla nato d’inverno;

una frotta d’angeli veglia trepida sul Bambinello;

Maria

come un giglio

nella veste avvolge suo Figlio.

 

Un angelo i minuti conta

un altro a quello è legato,

un terzo intona un lieto canto,

il primo tocco dei secoli è scoccato

agli uomini in dono

sull’orologio

da Dio fattosi Uomo.

Bagliori dalla luce, dalle stelle, dalla neve bianca.

Lascia che scaldino il Figlioletto, Maria, Vergine santa.

Si scansino gli angeli con le armature e i canti gioiosi,

e vengano a scaldare il Bambinello gli animali pietosi,

perché fuori si muore dal freddo!

E voi, cari pastorelli, nella capanna entrate in fretta,

portategli vicino il bue e l’asinello,

perché ormai è spento il tenue focherello.

Il gelo mostra i denti,

il Bambino giace fragile sulla paglia

e china sulla culla Maria è sempre più pallida.

Dalle vesti, dalle armature, dalle tese mani bianche

attorno alla capanna – nell’aria un cerchio lucente e trepidante.

E dall’interno al gelo verso il cielo stellato

fluisce dei caldi respiri il pennacchio biancopiumato,

i sussurri pietosi, il pianto che non c’è più

e la “Ninna, ninnananna, o amato Gesù”.

 

Morti…conosciuti…amati

Vengono da me soltanto sui viburni,

sui pruni, sui violacei mirtilli,

i morti, conosciuti, amati.

Vengono da me soltanto sui fruscii

impigliati tra  vortici ansanti:

“Tu qui?…Ah, che tempo…”

Per le brine – le sopracciglia grigie,

le giovani ciglia stranamente pesanti…

E li accarezzo benché sappia che – non vivono…

i conosciuti…quelli che amavo:

Jaś, bruciato col suo aereo,

e Kazio, che morì più tardi,

Pawełek coperto dall’oceano,

Tadzio fucilato dai banditi…

Giovani, pensosi, sprecati,

vengono da me, vengono sui viburni

i conosciuti, i morti, gli amati.

 

Non c’è la vecchiaia

Non c’è la vecchiaia! C’è solo il fiore e il frutto,

e il nuovo seme, e il germoglio e tutto inizia da capo.

Perché lo stesso angelo – nella brina, o all’inizio di primavera –

tende le ali sempre giovani…E cresce, cresce, cresce!

 

Spensieratezza

I bianchi gabbiani portavano sulle ali la nostalgia,

la tristezza si gettava dalla riva nell’azzurro abisso.

Profumano le tuie, le rose tea nei giardini fioriscono…

Andrò lontano, forse la felicità prenderò per le ali.

 

Ritorno

Come un così grande amore a un tratto dalla tormenta

                                                                      [portare a casa!

…Disordine, le scarpe sul tappeto, libri da per tutto,nastri,

                                                                 [cose piccole e futili…

Come salutarlo?!…Accanto – qualcuno sbadiglia…Un forte

                                                           [odore di cavolo altrui…

Cosa dire? Cosa chiedere?…”Dove sei stato?…Ogni sera qui

                                                                        [ti hanno atteso…

…Pensando a te cominciava il giorno…il cuore grondava

                                                   [sangue, e gli occhi – lacrime…

…Tranne te – non c’era niente, niente sotto le stelle!

Dove sei sparito? Quando ti divertivi lontano, qualcuno

                                                          ha preso la tua messe

ed essa non tornerà!…Guarda, i tuoi capelli – sono bianchi…”

1922-1925

 

Qualcosa deve accadere

Ancora il tuo cuore si chinerà sul mio,

e ancora parleremo tra di noi

della grande città distesa sull’acqua,

con le nere barche piene di fiori,

dove ogni sera il sole cela il capo

dietro invisibili boschi di corallo,

dove, basta solo che piova un tantino,

ed escono alla luce mostri marini.

 

Ancora sotto la luna ce ne andremo

coi neri remi sull’onda scrosciante

nel folto dei canali, sotto i ponti,

dove come serpi spiano le alghe,

e quando la vuota allegria ci prenderà,

conteremo le stelle e le lanterne,

perché sotto la luna e nella corsa

nessuno distingue un raggio da una stella.

 

Ancora in me l’amore s’infocherà…

A volte taceremo faccia a faccia

o avremo colloqui frammentati,

con timore scostando da noi le teste

e badando, con un fremito segreto,

che lo sguardo non incontri lo sguardo,

che salutandoci o ringraziando

troppo a lungo non si tocchino le mani.

 

Ancora l’ultima fiamma si accenderà.

Presi insieme nella trappola mortale,

uniti – poi strappati a noi stessi,

nel più fondo inferno – nel più alto cielo,

turbati da mille opposti sentimenti,

colpiti dal freddo, bruciati dal calore,

perfino nel momento più sublime,

come dannati ricolmi di nostalgia,

sullo stesso rogo inchiodati alla croce,

presi da eterno desiderio e mai saziati!

 

 

 

 Si seccano

I miei fiori si seccano d’inverno

In un angolo buio, nella ressa, nella polvere e nel fumo,

I miei fiori il cui nome è Felicità.

 

Felicità, Primavera, Amore, Tempo Sereno…

Nessuno darà loro né acqua né luce,

Nessuno dirà: “Sono appassiti…Che peccato!”

 

Guardano gli occhi vuoti come orbite:

“Oggi questo, domani quello stelo – sarà nudo.

Le foglie secche ci cadono sui tavoli”

In un angolo buio, nella polvere, nella ressa e nel fumo.

 

 

 

 

 Marta e Maria

 

Come Marta io bevevo l’amarezza quotidiana,

ma tu avevi la dolcezza di Maria con la sua anima.

Io non trasformavo il mondo in gocce di miele,

ma tu quand’era il tempo ogni bacca schiacciavi

e con amore coglievi  forme e colori,

mentre inseguiva me una fame improvvisa e una

                                                       [fretta di conquista.

 

Percorrevi una strada spianata sotto l’azzurro,

mentre il sole mi bruciava come stella di brame,

e la luna – che essa fosse tonda o a due punte –

era come un nemico sulla testa, stolto, ma possente.

 

A braccia aperte tu accoglievi l’amore,

mentre io conquistavo la felicità con la forza,

e l’amore che avvelena, e la fiamma che deforma,

io portavo come spade nel mio cuore.

 

 

 E di nuovo, di nuovo…

E di nuovo, di nuovo l’amore più assurdo di tutto

per i campi piatti e inzuppati, per le stinte foglie di betulla,

per qualche siepe, che sulla strada ondeggia,

per gli occhi grigioazzurri senza lacrime né speranza.

 

C’era un essere umano libero come l’aria e solo come una

                                                                                       [nuvola,

sopportò tutto ciò che dovette, e niente poteva più succedergli.

 

Diventò insensibile all’affetto, cessò di provare tristezza,

andava spedito e vigoroso, pensava in modo chiaro e deciso.

 

Adesso tutto l’inevitabile di nuovo in un cerchio si chiude:

la cenere delle ossa arse si attacca alle scarpe,

ogni stelo – è pesante di ricordi, ed ogni pietra – di torti…

Mi avvince la tenerezza polacca e mai più mi lascerà.

 

Ciò che non si conosce

 

Ancora in me non tutto mi è noto,

vivo in un atrio, come in un cortile assolato:

o miei colombi, o aiole di gialle begonie,

o rose…rose…

C’è la casa e i corridoi bui e nascosti,

e l’orologio, che freme come il cuore e come il cuore suona,

e i ballatoi, che guardano con gli occhi dei morti,

e – Dio, che è in ogni luogo, che è là, dove io non sono.

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

Antoni Slonimski

20 Mag

Antoni Słonimski

 

   Poeta e prosatore, commediografo, umorista, brillante saggista –Antoni Słonimski rappresenta nella letteratura polacca il tipo della creazione impegnata e satura di contenuti umanistici. Era nato il 15 ottobre 1895 a Varsavia. Terminato il ginnasio studiò pittura e storia dell’arte a Varsavia e a Monaco.

   Debuttò come poeta nel 1918 con un ciclo di Sonetti. Nel 1920, assieme a Jarosław Iwaszkiewicz, Jan Lechoń, Julian Tuwim e Kazimierz Wierzyński, fu uno dei fondatori del celebre gruppo “Skamander”. Tra le sue raccolte poetiche uscite nel ventennio tra le due guerre, ricordiamo: “Czarna wiosna” (Nera primavera, 1919), “Parada” (La parata, 1920), “Godzina poezji” (L’ora della poesia, 1923), “Droga na Wschód” (La strada per l’Est, 1924), “Okno bez krat” (Finestra senza grata) – uscita nel 1935, nella quale è inclusa la nota poesia “Ai Tedeschi”. Quest’ultimo volume di versi rappresentò nella lirica polacca di quel periodo – una delle più potenti voci di protesta contro l’ondata di fascismo, sviluppatasi nell’Europa degli anni ’30.

   Antoni Słonimski va ricordato non solo come poeta, ma anche quale autore di pungenti e arguti feuilleton, come ad esempio le celebri “Cronache della settimana”, pubblicate dal 1927 al 1935 sulla rivista liberale “Informazioni letterarie” e trattanti tutte le questioni di attualità di quegli anni. Scritte con grande coraggio, esse costituiscono una straordinaria fonte d’informazioni sulla vita culturale del ventennio, sugli umori, gusti e sui problemi che travagliavano l’intellighenzia del tempo. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, queste cronache incantano per la loro verve polemica e l’arguzia dell’autore.

   Słonimski si cimentò brillantemente anche in campo teatrale, e le sue commedie: „Wieża Babel” (La torre di Babele, 1927), rappresentata per la regia di Leon Schiller,  “Murzyn warszawski” (Il negro di Varsavia, 1928), “Lekarz bezdomny” (Il medico senzatetto, 1930), “Rodzina” (La famiglia), furono rappresentate sulle scene polacche nel periodo tra le due guerre. Particolarmente “La famiglia”, una commedia che si burlava delle  teorie razziste dei fascisti, messa in scena a Varsavia nella stagione teatrale 1933/34, cioè nel momento in cui Hitler era salito al potere in Germania, riscosse molto successo.

   Durante gli anni della II guerra mondiale Słonimski soggiornò all’estero: dapprima in Francia e, dopo la disfatta – in Inghilterra, dove dal 1942 al 1946 diresse il mensile letterario “Nuova Polonia”, favorevole alla concezione di una Polonia democratico-popolare, libera dalle tendenze totalitarie degli anni ’30.

   Nei primi anni dopo la guerra il poeta fu direttore dell’Istituto di Cultura Polacca a Londra, e rappresentò la Polonia all’UNESCO. Tornò a Varsavia nel 1951 e da quel momento svolse un ruolo di primo piano nella vita culturale del paese. Negli anni 1956-59 fu presidente dell’Unione dei Letterati Polacchi e membro attivo di molte altre istituzioni e organizzazioni culturali, come ad esempio il Pen-Club.

   Negli anni ’50 e ’60 pubblicò tra l’altro le raccolte poetiche “Wiersze wybrane” (Poesie scelte) e “Rozmowa z gwiazdą” (Colloquio con la stella). A cominciare dagli anni ’60 appoggiò numerose iniziative di opposizione alle autorità comuniste, come ad esempio la “Lista 34” nel 1964 – una lettera di protesta sottoscritta da illustri scrittori e studiosi, indirizzata al primo ministro Józef Cyrankiewicz, per chiedere un attenuamento della censura e una maggiore disponibilità di carta, e il “Memorial 59” – lettera aperta degli intellettuali per protestare contro le modifiche della costituzione e soprattutto per l’inserimento in essa del ruolo guida del PZPR (Partito Unificato Polacco dei Lavoratori).

   Quella di Słonimski è una poesia estremamente matura, lirica, a volte ironica, a volte amara, ma che non perde mai la fede nella vittoria del pensiero umano. Vi troviamo sempre più spesso note di cupa tristezza, di delusione e dolore, molte meditazioni sull’inesorabile trascorrere del tempo, e l’inquietudine per le sorti della cultura umana.

   Liberale e pacifista, Słonimski ebbe numerosi, accaniti avversari sia a destra che a sinistra, ma ebbe anche moltissimi ammiratori, che egli commoveva con la sua lirica rivolta ai sentimenti e divertiva con il suo spirito arguto.

   Fino all’ultimo restò un uomo votato alla lotta e alla polemica: beffardo, ostinato, scomodo per coloro che non sopportano l’opposizione e la critica, paladino del coraggio, della rettitudine, della libertà di opinione.

   Morì il 4 luglio 1976 in un tragico incidente automobilistico e scomparve con lui non solo un grande scrittore, ma anche una delle più brillanti figure del mondo letterario polacco. Di Antoni Słonimski pubblico qui 5 poesie nella mia versione.

 

Antoni Słonimski tradotto da Paolo Statuti

Parole

Come un prete che più non crede, ma zelante

Usa ancor parole che gli furono sante,

E governa i suoi fedeli in adorazione

Non con lieta grazia, ma con triste ragione,

Così anch’io colgo parole che più non sento,

Quelle in cui da piccolo credevo, rammento.

Scrivo: fede, e nei codici, nei sacri testi

Leggo la coscienza come tanti riflessi.

Scrivo: progresso, e vedo come ognor fluisce

E muta il corso degli eventi e poi finisce.

Scrivo: vita, e vedo la materia vibrare

E quell’onda che si avvicina, poi scompare.

Scrivo infine: ragione e amore, e dietro queste

La quiete cerco ma sento solo tempeste.

E voglio invano placare il loro frastuono,

E ho per arma una parola sola: uomo.

 

Tutto

A Tolosa o Ankara,

in Italia o a Dakar,

a Lisbona o nel cuore dell’Asia

o nell’umida Londra,

trascinati dall’onda

ci perdiamo la strada di casa.

Che cos’è che sogniamo,

che cos’è che vogliamo,

quali gemme ci hanno rubate.

Non per la fama o gli agi

noi viviamo randagi,

ma per cose più nobili e sacre.

No non per il potere

ma bensì per giacere

con un libro all’ombra d’un pioppo,

con le voci dei campi,

le zanzare ronzanti,

e i cavalli lanciati al galoppo.

No non per comandare

ma bensì per tagliare

e dividerci il pane equamente,

per uscir sulla strada

nella notte stellata

e dormir sotto il cielo splendente.

Per guardare affacciati

i castagni spruzzati

dalla pioggia che sembra un tessuto,

e rifare al mattino

quello stesso cammino –

non è molto, eppure è tutto.

 

Ai Tedeschi

Mirando con orgoglio la città fumante,

Dal cortile un rozzo romano mise piede,

Con la daga arrossata, in casa d’Archimede,

Quando Marcello entrò a Siracusa trionfante.

Seminudo, impolverato, come un ossesso,

Irruppe immaginandosi un altro misfatto,

“Noli turbare circulos meos” – distratto

Disse Archimede, tracciando cerchi col gesso.

Sul cerchio, sul raggio e sul triangolo inscritto,

Come un ruscello vivente il sangue è piovuto.

Archimede, difenditi dal bruto!

Archimede che oggi verrà trafitto!

Il sangue è scomparso, ma il tuo spirito resta.

Ma no. Anch’esso perisce. Dov’è l’impronta?

I marmi della casa la vipera infesta.

E le rovine dell’Ellade il vento affronta.

1935

Lettera dal viaggio

Se dovrò morire in un viale italiano,

Tra i neri cipressi, all’ombra del caprifoglio,

Portatemi, vi prego, quanto più lontano.

Mantova è straniera. A Genova morir non voglio.

Non posatemi nelle vigne – troppo terso

E’ il cielo, lì la terra sotto il corpo cede –

Sotto il cielo nativo e piovoso sia messo,

Nel mezzo della città, sotto il marciapiede.

Tra tubi, fil di ferro, tra cavi e bulloni,

Trovi il mio riposo in un covo di topacci,

Su di me ruggisca il mulino dei demòni,

E la bestia con mille teste mi schiacci.

Col biancore delle ossa fenderò i flutti

Della folla, come fa un relitto incagliato –

Riportatemi nella patria, amici tutti,

Se morrò nella terra straniera che ho amato.

1922

Lirica

Lo so, andrò a piedi dalla stazione,

Anche se di sera era buio.

Difficile perdersi, seguirò i binari del treno

Lasciando le due acacie a sinistra.

L’odore del tabacco in fiore,

Il concime equino che profuma di miele

E lontano il fischio della vaporiera

Lungo, mesto, che si spegne pian piano.

Così come altre volte ho già sognato,

Riconoscerò la tua voce che chiederà: “Chi è?”

E mi prenderanno alla gola

Del ritorno la paura e la felicità.

“Chi è là?” – chiederai. Dirò: “Io – Antonio,

Sono qua.” Ancora un passo, mezzo passo.

E la mano tremante sentirò sulla  tempia

E il battito del cuore nell’oscurità.

“Non pensavo di spaventarti così!

Non accendere la luce, restiamo al buio.

Perché guardarci negli occhi non più nostri,

Se i cuori battono come nella giovinezza?”

“Perché sei tornato? Qui va male.” “Lo sapevo,

Ma per me conforto non c’era più,

Ho lasciato qui tutto ciò che avevo,

I nostri comuni sogni di gioventù.

1945

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Kazimierz Wierzynski

14 Apr

Prosatore, saggista e soprattutto uno dei maggiori poeti polacchi del

XX secolo

   Nacque a Drohobycz, nella ex Galizia appartenente all’Austria, il 27 agosto 1894, vale a dire due anni dopo e nella stessa città dove nacque e morì Bruno Schulz, l’autore delle note raccolte di racconti e saggi Le botteghe color cannella e Il sanatorio all’insegna della clessidra.

   Negli anni 1910-1912 fece parte di una organizzazione patriottica clandestina della gioventù ginnasiale polacca e nel 1912 si iscrisse alla facoltà di filosofia dell’Università Jaghellonica di Cracovia. Dal 1913 al 1914 studiò slavistica e letteratura tedesca all’Università di Vienna. Partecipò alla prima guerra mondiale e trascorse due anni e mezzo in un campo di prigionia a Riazań, dove imparò la lingua russa. Il 6 dicembre 1919 a Varsavia si svolse una serata letteraria nel corso della quale venne proclamata la nascita del gruppo poetico Skamander. Oltre a Wierzyński ne entrarono a far parte: Julian Tuwim, Antoni Słonimski, Jarosław Iwaszkiewicz e Jan Lechoń. Egli fu uno dei pilastri di questo gruppo, che esercitò un’influenza determinante su tutta la poesia polacca contemporanea, e che postulava, tra l’altro, la semplificazione del linguaggio poetico: “non vogliamo grandi parole, ma vogliamo una grande poesia; allora ogni parola diventerà grande”.

   Nel 1923 il poeta sposò l’attrice Bronisława Koyałłowicz. Negli anni 1924-1926 i Wierzyński visitarono più volte l’Italia e soprattutto Roma, dove viveva la sorella della moglie del poeta. Nel 1933 si separò dalla moglie e l’anno dopo effettuò un viaggio in Germania, registrando le sue impressioni in una serie di reportage pubblicate sulla Gazeta Polska.

   Nel 1938 entrò a far parte dell’Accademia Polacca della Letteratura, al posto del defunto poeta Bolesław Leśmian. Nel dicembre dello stesso anno sposò Halina Sztompkowa, che gli sarà compagna premurosa e fedele fino alla morte. Nel mese di settembre del 1939 i coniugi Wierzyński lasciarono la Polonia e si stabilirono a Parigi. Nel 1941 si trasferirono negli Stati Uniti, dove restarono fino al 1964. Gli ultimi anni della sua vita li trascorse visitando assai spesso l’Italia in compagnia della moglie. Morì a Londra il 13 febbraio 1969.

   Nel 1919, l’anno della riconquistata indipendenza della Polonia dopo 123 anni di schiavitù, il venticinquenne poeta debuttò con la raccolta Wiosna i wino (La primavera e il vino). Fu uno stupefacente successo letterario perché portava qualcosa di assolutamente nuovo, dopo gli umori nostalgici e pessimistici della Giovane Polonia: l’elogio estatico della vita e dell’amore per il mondo, un’esplosione di gioia travolgente. Il poeta è il signore del mondo, il suo disarmante candore e il suo fascino gli aprono tutte le porte. A che servono i soldi se il poeta ha le stelle? A che gli serve una casa se ha la tenda del cielo d’estate, e così via. Due anni dopo uscì, come la prima a Varsavia, la raccolta Wróble na dachu (Passeri sul tetto), di tono e contenuto analoghi alla precedente. Della creazione poetica tra le due guerre la più nota è Laur olimpijski (Il lauro olimpico, Varsavia 1927), premiata con la medaglia d’oro al concorso letterario della IX Olimpiade (Amsterdam 1928). Essa fu subito tradotta in varie lingue, tra cui l’italiano.

   Negli anni trenta la raccolta più rappresentativa è Wolność tragiczna (La tragica libertà, Varsavia 1936), pubblicata dopo la morte di Piłsudski. Essa si può definire un tentativo di presentare la Polonia del tempo attraverso il retaggio insurrezionale-indipendentistico e il testamento spirituale di Piłsudski, il quale era considerato da Wierzyński come un’incarnazione dell’eroe romantico. Va sottolineato che il poeta era ideologicamente legato alla corrente politica di Piłsudski, e ciò influì sulle sue scelte durante e dopo la guerra.

   Nel 1946 uscì a New York la raccolta Krzyże i miecze (Le croci e le spade), che si può definire il manifesto del dissenso di Wierzyński per l’ordine europeo seguito agli accordi di Jalta, che avevano sacrificato l’indipendenza della Polonia. Il poeta valuta la fine della seconda guerra mondiale dalla prospettiva della fedeltà agli ideali del ventennio, agli obiettivi dell’Armata Nazionale (Armia Krajowa) e dal punto di vista degli emigrati polacchi. Mette ripetutamente a confronto l’aspirazione polacca alla libertà e il limpido sacrificio del sangue con il gioco degli interessi e l’ipocrisia della politica. Le croci sono le tombe dei caduti, la spada è il simbolo della lotta, ma essa è simile alla croce e insieme creano un altro senso: di fede e speranza, di convinzione che l’eredità spirituale della lotta e il messaggio di libertà non saranno dimenticati. Wierzyński non aveva alcun dubbio su ciò che succedeva e sarebbe successo nel paese. Il suo ritorno in patria era impossibile e la raccolta Le croci e le spade aveva suggellato questa impossibilità.

   Subito dopo la guerra il poeta vive un periodo molto critico. Rifiutando la nuova Polonia si trova di fronte a una difficile scelta. Resta nell’emigrazione ma tace, gli è impossibile scrivere, attraversa una fase di depressione psichica. Fortunatamente nel 1946 l’allora direttore dell’Orchestra di New York, l’americano di origine polacca Artur Rodziński, propose al poeta di scrivere un libro su Federico Chopin. Wierzyński accettò la proposta, lasciò New York e in un ambiente di grande serenità, a contatto con la natura americana riacquistò la forza di scrivere. Il risultato fu il libro Vita e morte di Chopin (New York, 1949), pubblicato per il centenario della morte del grande compositore polacco con una introduzione di Artur Rubinstein, e la raccolta di poesie Korzec maku (Uno staio di papavero, Londra 1951).

   E’ forse la più bella raccolta di Wierzyński, dal tono più sereno, piena di immagini della natura americana e di riflesso anche di quella polacca. Assistiamo a un cambiamento della forma poetica, alla rinuncia della tradizionale rima. La composizione del verso viene avvicinata al ritmo del linguaggio naturale. La poesia diventa più universale. Wierzyński scopre che il nocciolo del linguaggio poetico è la parola e il difficile contatto di essa con la realtà. Le promesse della raccolta Uno staio di papavero furono brillantemente confermate dalla successiva Tkanka ziemi (Il tessuto della terra, Parigi, 1960). Nella poesia La quinta stagione dell’anno l’autore torna alle stagioni della sua creazione:

 

Un uccello mi è volato attraverso, un uccello,

E ha lasciato la porta aperta,

E la sera stessa al crepuscolo

Sono calate in me le stagioni dell’anno

Vive e morte.

La prima giovanile, allegra,

Ancora la sogno, ancora mi chiama

(Ah, vuote risate, assurdità!),

La seconda fervida, ardente,

Con il rosso labbro ancora mi tocca,

La terza autunnale, la quarta invernale

E la quinta: morte ed eternità.

(Versione di Paolo Statuti)

 

   Negli anni ’60, dopo essersi stabilito in Europa per sempre, il poeta girava “inquieto come una rondine” tra Londra, Parigi e Roma. Le questioni del paese lo assorbivano completamente. La nostalgia per la patria aveva un effetto paralizzante, viveva di ciò che avveniva in Polonia e si rendeva conto della propria impotenza di fronte alla costrizione e al male cui soggiacevano i suoi connazionali. Testimonianza letteraria di questa lotta interiore fu la raccolta di poesie Czarny polonez (La polacca nera), pubblicata a Parigi nel 1968. E’ una dura critica della realtà della Polonia Popolare, dove il poeta non era mai stato. Più volte lo avevano invitato, ma non si era mai deciso ad andare, dicendo che “nel suo paese non si va in visita, si torna o non si torna”. Andarci per un po’ di tempo col passaporto americano e gli inevitabili contatti con i funzionari comunisti sarebbe stato per lui una commedia difficile da recitare. Eppure egli era prossimo al ritorno. Soltanto l’aggravarsi della situazione politica polacca verso la fine degli anni ’60 allontanò la sua decisione in modo irrevocabile. La sua ultima poesia la dedicò a Jan Palach e porta la data 25 gennaio 1969, giorno del funerale del giovane a Praga.

   Tymon Terlecki, storico della letteratura polacca e critico teatrale, afferma: “Wierzyński è stato uno dei lirici polacchi più universali, uno dei più grandi che abbia mai avuto la Polonia. La sua creazione si presenta come storia, come ininterrotta sequenza di slanci rigeneranti. C’era in lui una costante tensione spirituale, una capacità di rinascita, di nuove incarnazioni”.

                                                                             Paolo Statuti

 

Altre raccolte di Kazimierz Wierzyński:

Wielka Niedźwiedzica (L’Orsa Maggiore, 1923)

Gorzki urodzaj (L’amaro raccolto, 1933)

Kurhany (Tumuli, 1938)

Siedem podków (Sette ferri di cavallo, 1954)

Kufer na plecach (Il baule sulle spalle, 1964)

Sen mara (Sogno incubo, 1969)

   

Di Kazimierz Wierzyński vi invito ora a leggere dieci poesie nella mia versione:

Il salto con l’asta

Già s’è staccato, già vola come un portento!

Si stende sull’asta come bandiera al vento,

Giunge alla sbarra e con battito repentino

Si slancia in avanti, come uccello e felino.

Fermatelo, che raggeli come una pietra,

Che butti indietro l’asta – inutile faretra,

Che così rimanga da una nube sommerso,

Come una lieve piuma – nell’aria disperso.

Non perderà le forze, né l’impeto in volo,

Oltre ogni limite si alzerà tutto solo,

E come un’eco risponderà soltanto,

Che il suo traguardo è il cielo – ch’è il nostro vanto.

(da: Il lauro olimpico)

 

Elegia

La lupa correva di qui vorace e indoma,

L’acquedotto passava sugli archi di Roma.

Ponti dietro Cesare e legioni fluenti,

Verbena nei campi, nelle arene – serpenti.

Si snodava, bivaccava una folle immane:

Oggi tocco una pietra di ciò che rimane.

Prendete la mia maschera rosa dal vento,

Fissatela a un teatro come ornamento.

Che dall’orbite vuote una lacrima scenda,

Forse la vista riavrò e farà ch’io comprenda.

Forse sussurreranno ancor le labbra immote

Come per Roma perivo in età remote.

(da: Uno staio di papavero)

 

Poesia scritta per consolazione

Torno da New York sfinito,

Rotto, arrabbiato, stordito,

Alla mia tana, ai boschi e alle rocce.

Per quattro ore,

Per la strada intera,

Sogno una cosa soltanto:

Dormire fino a stasera.

E arrivo ma  prender sonno non posso.

 

Chiudo gli occhi e mi sento: nessuno,

In qualche deserto sperduto,

E non so perché mi viene in mente

La città di Stryj

Sull’omonimo fiume.

 

Ho ancora negli orecchi quel frastuono,

Ma già sento in via Verde

Le cornacchie sugli alberi gridare primavera!

D’estate la festa dei ferrovieri a Olszyna

Coi coriandoli negli occhi mi scorre,

E scorrono le vacanze, la neve sui monti è stesa,

E presso il ginnasio batte l’orologio della chiesa,

E penso: eppure qualcuno da lì mi chiama,

Chi è? Il tempo? Mi guardo dietro: sul campanile

Si vede chiaramente che è un quarto all’una,

Le frecce hanno il profilo di Dante,

La taccola nera ondeggia su di esso

E non so perché scrivo tutto questo:

Per consolarmi che in questa misera poesia,

Qualcosa, malgrado tutto, è ancora mia?

 

(da: Uno staio di papavero)

 

La pittura

 

Ecco la mia frutta:

Le verdi mele di Cézanne,

Aspra giovinezza,

Dura gioia,

Forte rugiada

Di sera e di mattina.

 

Ecco il mio mezzogiorno:

Lugubre requiem,

Si sono accesi i girasoli

Sulla testa

Di san Van Gogh.

 

Ecco i miei sogni:

L’arlecchino rosa di Picasso

Pensoso, come Eudimione,

Mentre sull’architrave greco

Pascola le pecore.

 

Ed ecco il mio tutto:

Guardo quei colori e attraverso essi

Sento sussurri musicali,

Come Chopin

Nella galleria di Dresda.

 

(da: Uno staio di papavero)

 

Le donne che tessono

 

Campigli ha dipinto quattro donne,

Quattro tranquille, pensose donne,

Che siedono e tessono,

Tessono e guardano,

Guardano e vedono,

Qualcosa molto lontano

Dietro il quadro, dietro la cornice,

Nel dodicesimo, tredicesimo secolo,

Nei dimenticati, vecchi pittori,

Che sono morti tanto tempo fa e giacciono

Nei cimiteri sgretolati,

Giacciono e guardano,

Guardano e vedono

Qualcosa molto lontano

Nel disperato ventesimo secolo,

Nello studio parigino dell’Italiano,

Dove quattro dipinte donne

Siedono pensose dietro la cornice,

Siedono e tessono,

Tessono e guardano,

Guardano e vedono

Le stesse cose.

 

(da: Sette ferri di cavallo)

 

Cosa faccio?

 

A marzo:

Sollevo nella neve i capolini agli anemoni,

Accelero la primavera e il bel tempo

Perché al più presto fino alle ginocchia

Erompa l’erba incredibile,

Voglio una cosa nuova

E giovane.

 

A giugno:

Frequento gli uccelli,

Perché – non lo so.

Ciò mi calma.

Cammino nei boschi,

Dicono che i galli forcelli

Amano le uova di formica.

 

A ottobre:

Rastrello le foglie nel giardino,

Le porto nella carriola alla forra.

Mi troverai, Laura, di sera

Sotto l’acero stabilito,

Nella selva del buio bar.

 

A dicembre:

Spalo la neve davanti casa,

Perché arriva fino alla finestra

E si ghiaccia su di essa,

Spargo la cenere sul marciapiede

Perché si scivola e i marinai

Tornano dalla città

Ubriachi.

 

Sempre:

Sto in piedi davanti alla finestra.

Guardo il barometro,

Guardo un funerale,

Guardo la gente nella folla,

Guardo di fronte l’orologiaio

Che con la lente all’occhio pulisce il meccanismo,

Guardo e m’impegno come posso,

Guardo attentamente,

Guardo a lungo

Tutto questo,

E non capisco.

 

(da: Il tessuto della terra)

 

Sul ramo

 

Nessuno grida di gioia per essersi svegliato

Soltanto gli uccelli all’alba, gli uccelli dietro la finestra,

Tutti temono ciò che il giorno porterà loro,

Soltanto noi sul ramo no.

 

Nessuno vuole rinunciare a ciò che possiede

E nel folto letto si aggrappa ai resti del sonno,

Tutti vivono come se dovessero vivere in eterno,

Soltanto noi sul ramo no.

 

(Da: Il baule sulle spalle)

 

Il baule

 

                                              A Maria Dąbrowska

 

In soffitta dorme il mio ritorno,

La valigie, il baule con le borchie di ottone,

Tutta la mia patria,

I passaporti, le cittadinanze,

I visti dell’emigrazione.

 

Il baule, la mia grande proprietà,

Che qui devo custodire,

Normale inizio dell’infelicità

E demente fine.

 

Baule di vecchi bambini ranciditi,

Pronti a rimbambirsi e incretinire ancora

E tra cianfrusaglie che non servono a niente

La selvaggia solitudine, l’amarezza della nostalgia,

Il ciarpame più disperato.

 

L’ululo dei cani oltre la mia terra carpatica,

Il singhiozzo che mi vergogno di confessare –

E trasloco dopo trasloco,

Dall’America in Europa,

Dall’Europa in America,

IL baule sulle spalle,

Le scale scese,

La patria.

 

Tale è il bagaglio. Tale il viaggio,

Tale il mio orario:

Tutti i lati del mondo aperti

E l’uscita da nessuno.

 

Tale è la trappola. Né cosa prendere da qui

Né con che giungere alla fine:

Soffitta mia e ritorno,

Perdizione e amore,

Che non so uccidere

Nè custodire.

 

(Da: Il baule sulle spalle)

 

Detto con un sussurro

 

Se fosse possibile entrare come Claudel

Un giorno in Notre Dame

E uscirne come altro uomo.

 

Potrei incontrare là mia madre,

Mi darebbe la mano raggrinzita,

Direbbe con un sussurro:

Capisco, è la più grande intimità,

Capisco, è l’agghiacciante timidezza,

Intuisco la vergogna

E non chiedo del timore.

 

Ma in fin dei conti cosa fai tu di diverso

Da me, che non ci sono più?

Esci dall’uomo, per vederlo meglio,

Un oscuro profilo tracci sull’abisso del tempo,

Vuoi intuire lui e te stesso,

Più oltre vai, tanto meno c’è ritorno.

 

La ragione dell’uomo non gli ha mostrato il bene,

Il genio non ha scelto ciò che dovrebbe scegliere,

Diciamo umanesimo, pensiamo speranza

E nessuno eleverà mai

La perdizione al di sopra della salvezza.

 

Cosa fai tu di diverso da me?

Vuoi essere testimone di idee non spente,

Vuoi essere la guida di un eterno processo,

Lo sconforto riempi di vana invocazione,

Cerchi soccorso e me

Come io cerco te,

Tu che non sai ma sei

Ed io che so ma

Non sono.

 

(Da: Sogno incubo)

 

 

 

Sento il tempo

 

Soltanto di notte sento il tempo,

Chiedo dove mi sospinge

Attraverso tanto mondo, tante città,

Continuamente cambio indirizzi,

Smarrisco appunti e manoscritti,

Non so dove abito

E non so quanto a lungo,

Perché tutto questo frattanto

Tutto nel frattempo,

In questa bastarda parola,

Ma come saggia

E come crudele,

Nel frattempo dall’inizio,

Nel frattempo fino alla fine,

E tanto è della mia parola

E oltre ad essa

Ormai il vero tempo.

 

Lo sento di notte,

Guardo nel buio e vedo

Come passo tra parentesi,

Dalla nascita alla morte,

Ad ogni indirizzo,

In ogni abitazione,

Nell’enorme mondo,

Tra appunti smarriti

E le timorose parole

Della mia interesistenza.

Invano lo interrogo,

Esso non mi sospinge,

Aspetta tranquillamente,

Niente mi dirà

E se sento qualcosa

E’ soltanto nelle orecchie

Un vuoto fruscio.

 

E’ il tempo in cui non posso entrare,

Cui non posso oppormi,

Cui non appartengo

E che è tutto.

 

(Da: Sogno incubo)

 

Mi sveglio di notte…

Mi sveglio di notte, freddo di paura,
Mi sollevo in pallone,
Vedo la mia vita in basso distesa
E sparsa come vuoti campi di stoppia.

Vedo chiaramente di notte, al buio,
Il treno arriva fumante,
La stazione s’illumina, e sulla banchina
Vedo mio padre e mia madre
Defunti.

Vedo al buio le dimore di Varsavia,
Le dimore di Parigi e l’amore,
Tutto è minuto, bianco,irrigidito,
Come chicchi di riso.

Mi sollevo in pallone sui dintorni
Così ben conosciuti,
Sulla propria impronta.
Conto tutto ciò che è trascorso
E ancora trascorre,
Per estinguersi.

Mi sollevo in pallone su me stesso
E vedo il mio buio nella luce.
Il treno fuma nella stazione.
Freddo di paura, svegliato di notte,
Calcolo tutto ciò non calcolato,
Mi alleno a morire.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti