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Georgij Viktorovich Adamovich

15 Nov

Georgij Viktorovič Adamovič

     Poeta, critico letterario e traduttore. Nacque a Mosca il 7 aprile 1892, dove trascorse i primi nove anni della sua vita, frequentando il Secondo Ginnasio. Suo padre, di origine polacca, col grado di maggiore generale era direttore dell’ospedale militare di Mosca. Il poeta ricorderà: «C’erano troppi militari in famiglia, i miei due fratelli maggiori prestavano servizio nell’esercito. Di me, mio padre disse: “Non c’è niente di militare in lui, quindi lasciamolo ai civili”, e così sono rimasto civile».

     Dopo la morte del padre la famiglia si trasferì a San Pietroburgo, dove il poeta entrò nel Primo Ginnasio della città. Nel 1910 si iscrisse alla Facoltà di Storia e Filologia della locale Università. Mentre era ancora studente si avvicinò agli Acmeisti. I suoi primi lavori appartengono interamente all’età d’argento. Nel 1916 uscì la sua prima raccolta di poesie Nuvole. Gumiljov, pur avendo notato una evidente dipendenza da I. Annenskij e A. Achmatova, la giudicò così: «Buona scuola e gusto controllato…Non gli piace il freddo sfarzo delle immagini epiche, cerca un atteggiamento lirico nei loro confronti e per questo tende a vederle illuminate dalla sofferenza… Questo suono di una corda tintinnante è ciò che c’è di meglio e di più originale nelle poesie di Adamovič».   La seconda raccolta Purgatorio, sotto forma di diario lirico, uscì nel 1922 con una dedica a Gumiljov, che allora non era più in vita e che Adamovič considerava il suo mentore. La riflessione e l’introspezione aumentarono notevolmente, apparvero motivi legati all’epopea greca antica, medievale e dell’Europa occidentale.

     Dopo la Rivoluzione d’Ottobre tradusse Baudelaire e Voltaire, poesie di T. Moore e J.G. Byron, e poi in esilio J. Cocteau e A. Camus.

     Nel paese in cui divampava la guerra civile, temendo di restare vittima del terrore rosso, il poeta nel 1923 decise di emigrare. Non fu difficile, perché a Nizza, in una villa di proprietà della zia, vivevano la madre e la sorella. Pensava di restarci qualche mese e poi tornare in Russia, ma non tornò più. Anziché per San Pietroburgo, partì per Parigi.

      Adamovič, ritenuto un letterato “estremamente esigente con se stesso”, in tutta la sua vita ha pubblicato meno di centoquaranta poesie. All’estero la sua creazione è cambiata: per lui la poesia è diventata, in primo luogo, un “documento umano” – sulla solitudine, mancanza di radici nel mondo, ansia esistenziale, come principale caratteristica dell’autocoscienza dei contemporanei. Nell’emigrazione pubblicò due raccolte, con la mente rivolta al passato, alla Russia ricoperta di neve che è una “terra ghiacciata”, ma anche un “paradiso ghiacciato”, alla sua amata  San Pietroburgo, i cui ricordi “annegano in una gelida foschia”. Scrive di essa: «C’è una sola capitale sulla terra, il resto sono solo città”.  

     A Parigi divenne il custode della letteratura russa in esilio e pian piano si guadagnò la fama di “primo critico dell’emigrazione”. Dal 1928 scrisse regolarmente  numerosi articoli, saggi e recensioni per le riviste Ultime notizie e Legami, e fu  uno dei principali collaboratori della rivista Numeri. Non si occupava solo di letteratura, ma anche di teatro, balletto e cinema, divenuto sonoro negli anni ’30.

     La vita letteraria ribolliva a Parigi negli anni ’20 e ’30, e i due critici principali, Adamovič e Chodasevič discutevano su come la letteratura dovrebbe svilupparsi in futuro, quale percorso dovrebbe scegliere e come dovrebbe essere la poesia. Chodasevič predicava la massima aderenza ai canoni, in sostanza il neoclassicismo con precisione e rigore. Secondo Adamovič invece, a prescindere dalla perfezione formale richiesta da Chodasevič, nei versi doveva riflettersi in primo luogo la personalità dell’autore, che non trova più sostegno nelle tradizioni spirituali e artistiche del passato, e contrappone la “chiarezza” di Puškin all’”inquietudine” di Lermontov, che è più in sintonia con lo stato d’animo dell’uomo moderno.

     In esilio Adamovič ebbe una forte influenza soprattutto sui poeti novizi. Grazie a lui si formò il gruppo cosiddetto della “nota parigina”, caratterizzato dall’ascetismo nella scelta dei mezzi espressivi e dalla ricerca della ”verità senza abbellimenti”. Lo storico e filosofo G. P. Fedotov definì questa “ricerca” di Adamovič – “peregrinazione ascetica”.

     Nel settembre 1939 si arruolò come volontario nell’esercito francese e dopo la sconfitta della Francia fu internato. Nel 1951 partì per Manchester, dove per dieci anni insegnò letteratura russa all’Università.

     Nel 1967 fu pubblicata l’ultima raccolta poetica di Adamovič Unità. Al tempo stesso uscì l’ultimo volume dei suoi articoli critici Commenti – saggi letterari pubblicati regolarmente dalla metà degli anni ’20.

     Morì a Nizza il 21 febbraio 1972.

Poesie di Georgij Adamovič tradotte da Paolo Statuti

 Conosco il prezzo delle mie poesie…

Conosco il prezzo delle mie poesie.

Ahimé, per esse è tutto ciò che sento.

Ma il trionfo di altre poesie

Io considero come un tradimento.

Attraverso digressioni, ripetizioni,

Senza tinte, senza quasi parola alcuna,

Una sola, un’unica visione,

Come dietro le nuvole – la luna.

Ora scompare, ora balena,

Ora si offusca leggermente,

Ora rischiara con luce serena,

E immutabile si concilia

Con la lingua impotente.

1915

L’unica cosa che amo è il sonno…

L’unica cosa che amo è il sonno.

Che piacere, che pace ogni giorno!

Le campane si sentono appena,

La nebbia blu immobile intorno…

Oh, poter sapere di sicuro,

Che la vita è una e un’altra non avrai,

Che nell’eternità dormiremo per sempre,

Che nessuno ci sveglierà mai.

1915

*  *  *

Per la parola che un tempo ricordavi

E poi per sempre hai dimenticato,

Per tutto ciò che nei fuochi del tramonto

Tu cercavi e non hai trovato.

E per la disperazione del sogno,

E il gelo che cresce nei petti,

E il morire lentamente,

Quando più nulla ti aspetti,

Per il bianco suono della salvezza,

E dell’amore l’oscuro suono,

Per tutte le colpe e i reati

Tu riceverai il perdono.

1917

Non è te che amavo, ma il sole, la luce…

Non è te amavo, ma il sole, la luce,

Lo stridìo delle cicale, l’azzurro mare.

Io amavo ciò, di cui in te non c’è traccia.

Io in un spazio che non si può immaginare

Amavo. Io la delizia solare

Amavo. Tu cosa puoi sapere?

Cosa puoi raccontare

Ai venti, ai lampi, alle comete, alle bufere?

Sì, a me girava la testa

Per il cielo, l’amore, per questo uliveto…

Ebbene sì, sono parole.

Ebbene sì, è letteratura…Più concreto? –

C’era un giardino al buio e la brezza dall’alto,

Due o tre stelle, – cosa non è facile in questo?

C’era una voce lontana : “No, solo

Chi ha conosciuto…”* – in risposta a me stesso.

“No, solo chi…”  Capisci, io non posso essere

Più chiaro, facendo degli ultimi sogni a meno,

Io sto salpando, io sto sulla riva

Di un altro mare, non un mare terreno.

Io non te amavo. Ma se là

Dove tutto nasce e decede,

Tu a nuove pene, a nuovi cieli

Umile, pian piano…no, non succede…

Ma se tuttavia…non sarà, menzogna…

Da una incarnazione all’altra tu tornerai,

Ombra tremenda, irriconoscibile,

E davanti a me un giorno passerai,

Dal profondo dei secoli io griderò: sì!

Da milioni di anni, come questo momento,

Come sole dell’eternità, oh, per sempre,

Con tutta la vita e tutta la morte: rammento!

1931

*Sono parole di una celebre romanza di Čajkovskij su testo del poeta e drammaturgo Lev Mej (1822-1862). Questa è la prima strofa della poesia in questione, tratta da Goethe:

Solo chi la sete dell’incontro

Ha conosciuto,

Capirà come io soffro

E come soffrire ho dovuto.

O vita! Che mi aspetto da te, – non so

O vita! Che mi aspetto da te, – non so.

Si è placata la tristezza della prima età.

Ma di tediarsi così, come ora io mi tedio,

Dio alla gente giammai ingiungerà.

E se da qualche parte vive e respira

Qualcuno datomi per sempre dalla sorte,

Perché non viene da me, perché non sente

La mia voce che risuona ancora forte?

Due enormi occhi neri e offuscati

E due enormi funebri ali soltanto,

Hanno steso un’ombra dall’azzurro Caucaso

Sulla mia vita e su ciò che io canto.

*  *  *

Ascolta – e in vaghe congetture non mentire.

La notte è vicina, quale non puoi presagire!

Bisogna incontrarla con rispetto,

Per quanto il tuo cuore si sia stretto.

Ascolta te stesso, non ascoltare la gente.

La musica del mondo sempre meno si sente.

Cosmo, voli, entusiasmi, guerre da fare, –

La vita, dicono, deve cambiare.

(Sì, è così…Ma voi non avete capito:

“Non essere notato, non essere sentito”).*

*Letteralmente in russo: “Più quieto dell’acqua, più basso dell’erba”.

Di tutto, di tutto grazie. Per la guerra…

Di tutto, di tutto grazie. Per la guerra,

Per la rivoluzione e per essere esiliato.

Per un paese indifferente e luminoso,

Dove ora “vivacchiare” ci è dato.

Non c’è destino più dolce che perdere tutto.

Non c’è sorte più lieta che vagabondare,

E al paradiso questo è il posto più vicino esistente,

Stanco di annoiarmi, stanco di respirare

Senza forze, né soldi, né amore,

A Parigi…senza niente.

1931

Quando in Russia torneremo, quando…o Amleto d’oriente? –

*  *  *

Quando in Russia torneremo, quando…o Amleto d’oriente? –

A piedi, con centigradi di gelo, per strade divelte,

Senza cavalli, né trionfi, senza osanna, appiedati,

Solo per sapere che ancora in tempo ci saremo trascinati…

Quando in Russia…ondeggia la gioia nel delirio…in ospedale…,

Come se “Quanto glorioso”* sonassero in un giardino del litorale,

Come se attraverso le bianche pareti, nella nebbia del mattino,

Vacillassero esili candele nel gelido e assopito Cremlino.

Quando… basta,  basta.  Lui infermo, esausto e spogliato.

Su di noi sventola il tricolore – vessillo spiantato,

Qui c’è troppo odore di etere, si soffoca, è troppo caldo.

Quando in Russia torneremo…ingombra di neve… quando?

È ora di prepararci. Albeggia. È ora di metterci in marcia.

Due monete di rame sugli occhi. Sul petto incrociate le braccia.

1936

*Inno scritto nella primavera del 1794 dal compositore Dmitrij Bortnjanskij

su versi di Michail Cheraskov, ampiamente eseguito come inno non ufficiale dell’impero russo. Musica  meravigliosa e toccante che consiglio di ascoltare in YouTube.

Il proprietario dietro il banco guarda come sempre, assonnato

Il proprietario dietro il banco guarda come sempre, assonnato,

Il cameriere presso un tavolino sta scrivendo il conto.

Incessanti, importuni, turbolenti

L’uno con l’altro – fuoco e fumo – un continuo scontro.

Non per amore amare, non di vino essere ubriachi.

Cosa sa un uomo che se stesso non resta?

Egli ride sul bicchiere svuotato,

Egli dice qualcosa, dondolando la testa.

Per ciò che non è avvenuto, per trent’anni solo,

Per la sera che presso il fuoco stava,

Ancora per l’angelo… e quegli altri suoni…

A mezzanotte…oltre il cielo volava!

Egli ha perso la partita, di essa ha risposto,

E’ ora di tornare a casa. Nessuna speranza.

– Spietatamente bianco e luminoso

In una striscia di ghiaccio il giorno avanza.

*  *  *

E perfino la notte insieme con Čajkovskij

Nel suo silenzio cantava tristemente

Che tutto è condannato,

Che non c’è un limite per niente.

Alla memoria di Marina Cvetaeva*

Parliamoci almeno adesso, Marina!

In vita non ci fu dato. Tu non ci sei ora.

Ma sento chiara la voce di un cigno,

Messaggero di sventure e di gloria.

In vita non ci fu dato. Non per colpa mia.

La letteratura è come all’inferno entrare,

E io con gioia entravo, non lo nascondo,

Là da dove nessuno può tornare.

Non per colpa mia. Quanta pena nel mondo.

Ma sai, neanche io ti incolpo di qualcosa.

Tutto è solo per caso, tutto è involontario.

Vivere è bello. Vivere è una cattiva cosa.

*In vita i due poeti furono in disaccordo e si criticarono reciprocamente. Questa poesia, scritta dal poeta poco prima della sua morte, è un toccante ricordo e un sincero omaggio alla grande poetessa russa.

(C) by Paolo Statuti