
Marzanna Bogumiła Kielar
La poetessa Marzanna Bogumiła Kielar è nata a Gołdap l’8 febbraio 1963. Si è laureata in scienze sociali e insegna pedagogia presso l’Accademia Cristiana di Teologia a Varsavia. I suoi versi sono stati tradotti in 23 lingue e inseriti in circa quaranta antologie. Ha scritto 5 raccolte di poesie, la prima delle quali Sacra conversazione è uscita nel 1992. Ha vinto diversi premi, tra cui nel 1993 quello intitolato alla poetessa Kazimiera Iłłakowiczówna (1888-1983). Un critico l’ha definita la nuova “Saffo polacca”, dopo la prima “Saffo” Maria Pawlikowska-Jasnorzewska (1891-1945), e questo appellativo non è infondato. La sua poesia infatti evidenzia chiaramente il punto di vista femminile, e la stessa Kielar nelle interviste sottolinea la diversità del modo di scrivere della donna.
Nei suoi versi si avverte la contemplazione della natura, il fascino delle aurore e dei tramonti, l’amore per tutto ciò che merita di essere amato. E’ una poesia di riflessione filosofica e immaginazione erotica, ed è ricca di suggestive metafore. La poetessa si guarda intorno e scopre ciò che senza l’aiuto del verso è per noi una semplice quotidianità – come il vento, le nuvole, come l’aria cosparsa di gelo. Scrive il poeta e critico Wojciech Kuczok: “Un lago, un bosco, la convivenza di donna, uomo e natura, lontana dalla chiassosa civiltà – qui Kielar ha la sua “vita nel bosco”, ma più bella del Walden di Thoreau, perché in essa c’è anche l’amore e ciò che è necessario per vivere in due, “…in armonia con la vita, senza idee, senza desideri”. Tutto il sottile erotismo della lirica di Kielar si realizza nella duplicità – in questo che è il più bello dei plurali, che basta per l’intera umanità. I confini del mondo sono i confini di un giardino; se vi appare l’uomo, è solo come giardiniere che ha cura delle piante o anche della propria unione amorosa, coltivando erbe e amore con pari dedizione.”
Quando penso alla poesia – dice la poetessa – è come se mi trovassi faccia a faccia con cose innominate. Per me la poesia è un tentativo di assimilare ciò che mi sembra definitivo. Io cerco di dargli un nome – per me stessa.
Poesie di Marzanna Bogumiła Kielar tradotte da Paolo Statuti
Sacra conversazione
nel silenzio della sera,
come mai la tua improvvisa presenza, tremante e fiduciosa?
Il morbido convolvolo del tatto, come prima di un viaggio
e la sua inevitabilità, come mai?
Come profumo vicino
che alletta la coppa della mano, quando fra tutte
le cose, buone e cattive,
della loro raffinata, effimera abbondanza
ne scegli una senza fretta: una manciata di neri mirtilli
e mi chiudono la bocca
i mirtilli
* * *
come morirai, così legato a te stesso, con il sole
tra gli aghi di pino, o luminoso giorno? Con questa
abbagliante luce negli specchietti della vettura
quando entro nella strada del bosco; con la rossa sfera
sopra l’oscura terra arata
dietro gli stagni, sul solco sensibile al tocco dei piedi.
Quando il vento apre il cielo – e nessuna traccia
è nelle chiome degli alberi. O giorno –
con l’ortica che ingiallisce sul sentiero che porta
all’acqua, con la zanzara, imprudente, sul mio polso
– morirò?, così legata a te
e alla notte, all’amore; il cielo come tronco senza scorza
schiacciato nelle zolle sulle colline.
Sotto di lui le acetose forate si accalcano in un umido fascio.
Lo sguardo si aggrappa a una nuvola, al grigiore
e al suo bordo acceso e spiegato.
Nudità
i rami rivestiti di bianco e di rosa scuro,
di ronzio delle api;
l’ala del giorno si distende al sole,
nel vento lieve, nei profumi dell’erba falciata
e della lunga matricaria .
La riva dello stagno riparata che si oscura.
La tua mano nei miei capelli e sul collo, soave,
morbida. Tutta la sua fragilità (e il tremito?).
La nudità delle foglie che si schiudono, dei verdi
ora più densi, le dita che fanno scivolare la spallina.
Soffione, bile solare
Soffione, bile solare
sotto il cielo tranquillo e infiammato
trasparenza di un attimo che fa scorgere
come respira la terra, con quale leggerezza;
la perfetta forma sferica, da cui nulla deriva
– appena un po’ di bellezza, la fioritura del soffione
e del bianco trifoglio sui ripidi prati, come ora
nell’aria soffice e azzurrina.
E il sangue, la notte aperta e affamata.
E se è amore, è di rado, malvolentieri
e in qualche modo accanto a noi.
All’alba
svegliarti, all’alba: con un peso sulle dita semiassopite,
precedendo la sveglia, prima del viaggio; prima
che la sala d’aspetto della stazione, i marciapiedi
s’impadroniscano di noi, ci avvolgano in una fodera metallica,
nel freddo. La luce solo adesso monta i suoi impianti,
dal buio estrae abiti abbandonati, libri – e il sale
dell’alba marina
si spande sul davanzale interno. Le nubi sempre più forti,
complicate: lenti giri
di un gravoso tragitto – sulle ali dei gabbiani;
la carta millimetrata della memoria trattiene le inezie.
Innervate come lobo di orecchio, gonfiore di labbra; il gesto,
il modo in cui slacci il cinturino dell’orologio e lo togli
dal polso – è adesso la scatola nera ritrovata
nella secca della notte. Nei trucioli
del sonno; il tocco come aprire
una sillaba, strascicarla in un sussurro…
(Svegliarsi, ascoltare) –
come si strappano i tendini di quelle ore, e i minuti tornano
e conducono, ormai privi di cronologia
una vita autonoma (vibra l’ago magnetico:
la memoria)
il lago nella grazia di un bagliore di grafite
il lago nella grazia di un bagliore di grafite, prima
del crepuscolo, sul finire di una torrida giornata;
un molteplice gioco di ombre e colore,
e la luce soltanto cala; si addensa il buio
dalla linea del bosco sulla riva opposta
colmando l’aria di un freddo fumo di nebbia;
il nero è sempre più denso
e si chiude il paesaggio
come sesso – per subito cedersi, schiudersi morbido
e abbracciarci, occupati con noi stessi,
sugli asciugamani da bagno distesi sull’erba
o rametto oscillante del sole
o rametto oscillante del sole,
come paesaggi di viaggio stesi in un chiaro spazio
mi insegni ad amare: non possedendo;
fiorisci nel mio guardare,
nel bianco silenzio della parete, incorporeo;
le labbra di chi sono in te, accese dal grido,
quando muori sulle anche, intrecciato in alto,
imprendibile?
Quando scorro come prato sotto l’ala del falco,
con chi scorro? Sotto il cielo inclinato,
aperto come eco;
e dove scorro?
In giardino, a piedi scalzi
scuoto una formica dal piede
e guardo che ne farà della vita donata,
di questa sua goccia di tempo.
Nella gialla luce del sentiero rincorre le altre,
che uccidono un insetto, vivaci, ingorde.
Ignara della mia breve esitazione.
Presso una calda pietra, in un rovescio di sole,
di pesanti frutti
solo questo vedi occhio a quanto pare penetrante,
occhio cieco del poeta:
soltanto questo fiore rapace dal bel nome greco
/tanathos/, come si apre e si chiude.
E non puoi capire ciò né verificarlo in qualche vivo
modo. Ciò che anche a te una volta per sempre
verrà dato; quasi nere, dolci
le visciole colte sanguinano sulla mia mano.
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