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Il Petrarca e la Musica

28 Apr

 

Andrea del Castagno: Francesco Petrarca

Andrea del Castagno: Francesco Petrarca

Adolf Mucha: La Musica

Adolf Mucha: La Musica

Adolf Mucha: La Poesia

Adolf Mucha: La Poesia

 

 

Con vero piacere pubblico oggi nel mio blog questo testo di Carlo Culcasi (1883-1947), insegnante di lettere, preside, poeta e saggista, inserito nel suo libro Musica e poesia (prima edizione Istituto Editoriale Cisalpino, Varese 1936). L’autore vuole indurci a rileggere i versi del Petrarca quasi fossero una spartito, anche se non sappiamo leggere le note musicali? Proviamo, ascoltiamo le immortali strofe del Canzoniere come se uscissero da un liuto, dalla gola di un uccello canterino, da un ruscello che scroscia tra le rocce, e scopriremo che Petrarca non fu solo un grande poeta, ma anche un grande musicista della parola. Ecco uno dei miei sonetti preferiti:

 

Solo et pensoso i più deserti campi

vo mesurando a passi tardi e lenti,

et gli occhi porto per fuggire intenti

ove vestigio human l’arena stampi.

 

Altro schermo non trovo che mi scampi

dal manifesto accorger de le genti,

perché negli atti d’alegrezza spenti

di fuor si legge com’io dentro avampi:

 

sì ch’io mi credo ormai che monti et piagge

et fiumi et selve sappian di che tempre

sia la mia vita, ch’è celata altrui.

 

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge

cercar non so ch’Amor non venga sempre

ragionando con meco, et io co’llui.

 

 

 

 

Il Petrarca e la Musica

 

 

Se Dante, poeta austero e profondo amò la musica, tanto più doveva amarla il Petrarca, per le disposizioni stesse del suo spirito, aperto a tutte le effusioni soavi, per il carattere della sua poesia così delicata e armoniosa.

Messer Francesco sortì dalla natura tutte le doti che sono necessarie a un musico: ebbe un senso squisito dell’armonia e del ritmo, ebbe dolce e canora la voce, possedette, insomma, il genio della musica.

Il Boccaccio, che gli fu amico e lo conobbe da vicino, scrisse che il Petrarca: «In musicalibus vero, prout in fidicinis et cantilenis, et nondum hominum, sed etiam avium, delectatus ita ut ipsemet se bene gerat et gesserat in utrisque».

Filippo Villani, che gli fu contemporaneo e ne scrisse la vita in latino, così parla di lui: «Petrarcha doctus insuper lyra mire cecinit, unde labores studii modeste levabat… Fuit vocis sonorae atque reduntantis, soavitatis tantae atque dulcedinis, ut nescirent etiam doctissimi ab eius collocutione discedere».

Oltre a questi, parecchi altri biografi, tutti contemporanei o di poco posteriori al Petrarca, concordano nel dire che egli si dilettava moltissimo di musica, e che aveva una singolare attitudine e disposizione per le cose musicali.

Che poi il Petrarca possedesse qualche strumento, si ricava con certezza da una notizia che ci dà egli stesso nel suo testamento, dove lasciò scritto: «A maestro Tomaso Bambasio lego il più buono dei miei liuti, onde si valga suonandolo non ad usi profani, ma in lode di Dio».

E se possedeva parecchi liuti, se aveva una bella voce, e suonava e cantava, non può dubitarsi che conoscesse anche la musica.

                                                                                 * * *

Il Petrarca cantò per tutta la vita; chè il suo lungo esercizio poetico può considerarsi come un canto continuo, ispirato e soavissimo. Se non si fosse tanto dilettato di musica, di armonie di corde e di liuti, egli non sarebbe stato il poeta che fu. Egli trasfuse nel Canzoniere tutto il suo entusiasmo per la musica, e fece sì che la poesia fosse materia di suoni e d’accordi, di numeri e di cadenze musicali. Nella sapiente architettura delle strofe, nell’accorto uso della lingua, nella scelta delle parole, nella stessa disposizione delle sillabe nel verso, egli si palesò, più che poeta, musicista di rarissimo talento.

Egli, grazie al suo squisito sentimento dell’armonia e del ritmo, non solo perfezionò lo strumento della lingua, liberandola d’ogni suono duro e aritmico, d’ogni scoria arcaica e plebea, raffinandola e nobilitandola, ma la rese anche snella, flessuosa, trasparente, come una musica viva e pulsante, rispondente ad ogni voce interna, ad ogni moto dell’anima.

Il Petrarca diede molta importanza all’elemento musicale che è insito nelle parole, e fece sì che esse esprimessero, per la virtù stessa del suono, molto più di quanto significano nel linguaggio ordinario e comune. Infatti, nella melodia strofica del Canzoniere, le parole son così disposte che acquistano spesso una individualità tutta nuova ed assumono una significazione che, se è vaga ed imprecisa, desta una infinità di echi maliosi e suggestivi, indefinibilmente dolci e soavi, che sembrano quasi imitare le voci e i suoni della natura: il canto degli uccelli, il mormorio delle acque, il sussurro delle fronde. Il Petrarca ci fa sentire più di quanto dice, ci desta delle sensazioni nuove e imprevedute che non sappiamo spiegarci e sono dovute a una parola, ad un verso, ad una semplice successione di vocali e di consonanti, le quali, così disposte, assumono un valore più alto, e prendono una significazione nuova, che trascende quella abituale, e ci commuove e suggestiona, e non sappiamo come, e non sappiamo perché.

L’acquisto di questa forma, così bella e varia, così perspicua e melodiosa, costò molto al Petrarca. La politezza del Canzoniere è dovuta ad un lungo lavorìo di pazienza e di amore, di cui ci danno testimonianza sicura le numerose postille che il sapiente artefice appose nei suoi manoscritti. Egli lavorava, come si dice, di cesello, con cura minuziosa e sottile, faceva e rifaceva i suoi versi parecchie volte, leggendoli ad alta voce, cantandoli a suon di liuto, fin quando avesse raggiunto quella perfezione che il suo fine senso estetico gli additava. In fine, contento, scriveva la formula sacramentale: Hoc placet.

   E in questo suo Canzoniere, così martellato e tormentato, quanta ricchezza di lingua, quanta fluidità ed armonia, quale abbondanza di rime, di assonanze, di allitterazioni! Il musicista vi si appalesa ad ogni passo: certe canzoni son così bene armonizzate nelle varie parti, che fan pensare, più che a un componimento poetico, ad una sinfonia dalle linee belle e grandiose. Parecchi sonetti hanno, direi quasi, un’andatura musicale, c’è in essi qualcosa per cui somigliano ad una sonata piccola e dolce, dotata di uno straordinario potere suggestivo. In alcuni sonetti c’è quasi lo spunto d’una melodia, d’una romanza soave e melanconica, che potrebbe essere di un Marcello o di un Pergolesi. In alcuni altri, in quelli per esempio che incominciano: Io canterei d’amor sì nuovamente – Se amor non è, che dunque è quel che sento, vi è una così sapiente disposizione di rime in ale e in ento, in ente e in ivi, da far pensare ad una arietta metastasiana, musicata da un mellifluo maestro del settecento.

Non per nulla i poeti che vennero dopo, quelli specialmente più dolci e musicali, dal Poliziano al Metastasio, tennero sempre gli occhi rivolti al Petrarca, considerandolo come il vero e l’unico modello da imitare, come l’artista impareggiabile, che aveva creato il più soave eloquio della poesia, e aveva fatto del patrio volgare la lingua più melodiosa e musicale del mondo.

 

                                                                                       Carlo Culcasi

Primavera

21 Mar

 

Paolo Statuti: Primavera

Paolo Statuti: Primavera

 

 

La primavera nella poesia Italiana dell’ottocento e del novecento

 

   Nel 1943 Carlo Culcasi, nato a Erice nel 1883 e morto a Milano nel 1947, insegnante di lettere, preside, poeta e saggista, pubblicò con Garzanti una Antologia della lirica italiana (ottocento e novecento). Nella prefazione egli scrive: “…Dei singoli poeti, maggiori o minori, fioriti negli ultimi cento anni, ho prescelto quelle liriche che mi sono sembrate più belle e significative, senza lasciarmi affatto influenzare dal nome e tanto meno dalla sigla che portavano, avvalendomi sempre d’una imparziale e disinteressata libertà di giudizio, ed appellandomi soltanto al mio gusto personale, buono o cattivo che sia, ed essendo unicamente mosso dall’onesto e sincero intento di ben servire la causa della Poesia…”

Da questa Antologia ho tratto le poesie dedicate alla primavera. Oggi quasi tutti i loro autori sono sconosciuti, ma posso assicurarvi che trascrivendo i loro versi ho visto l’incanto fiabesco di questa stagione e ne ho sentito il fresco e delicato profumo. E’ come se ci fossimo incontrati per caso oggi, e avessimo deciso di fare una passeggiata insieme, ammirando la leggiadra eleganza e freschezza, e ascoltando la risvegliata musica della primavera. Ascoltiamo dunque insieme la voce di questi poeti.

 

Ugo Betti (1892-1953)

La primavera

Quando il cielo ritorna sereno

come l’occhio d’una bambina,

la primavera si sveglia. E cammina

per le mormoranti foreste,

sfiorando appena

con la sua veste

color del sole

i bei tappeti di borraccina.

Ogni filo d’erba reca un diadema,

ogni stilla trema.

 

Qualche gemma sboccia

un po’ timorosa

e porge la boccuccia color di rosa

per bere una goccia

di rugiada…

Nei casolari solitari

i vecchi si fanno sulla soglia

e guardano la terra

che germoglia.

 

La capinera prova una canzonetta

ricamata di trilli

e poi cinguetta

come una scolaretta.

I grilli

bisbigliano maliziose parole

alle margheritine

vestite

di bianco. Spuntano le viole…

 

A notte le raganelle

cantano la serenata per le piccole stelle.

I balconi si schiudono

perché la notte è mite,

e qualcuno si oblia

ad ascoltare quello che voi dite

alle piccole stelle,

o raganelle

malate di melanconia!

 

 

 

 

 

 

Luigi Fallacara (1890-1963)

 

Primavere invisibili

 

Posso anch’io vedere i coralli

della primavera che deve venire,

anche se, sotto cristalli

di gelo, la terra sembra dormire.

 

Nella trasparenza di vetri rudi,

vedo le gemme, come chiusi occhi,

sognare sui rami nudi

il raggio che le trabocchi.

 

Fioriscono dentro la scorza

i petali chiusi del melo;

vivono la vita della forza

che li aprirà nel cielo.

 

Tempo d’aprile, proteso

oltre la soglia del futuro,

come giardino conteso

da un costeggiato muro,

 

sei in questo sole che appare dai vani

delle nebbie senza raggera,

e che sospende nei cieli lontani

la sua chiara primavera.

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe Lipparini (1877-1951)

 

L’albero e la primavera

 

Vedi quell’esile tronco che trema sul dorso del colle?

Qui nella valle è freddo, è buio; ci opprime Scirocco

umido, greve; le cose son piene di fango e di nebbia;

grondano i rami di brina, i muri hanno odore di muffa.

Pure, lassù, non la vedi? là dietro quell’albero solo,

s’apre una striscia di cielo, e l’albero gracile oscilla

verso il turchino perché lontano, lontano ha veduto

lungo le prode dei fiumi sopraggiungere la primavera.

 

Giovanni Marradi (1852-1922)

 

Dopo la neve

 

E al sole or brilla, fredda primavera,

un fiorir bianco d’orti e di giardini,

e i monti, in giro, splendono argentini

al mite sol che nell’azzurro impera.

 

E tutta a lui, dalla sua bianca faccia,

ride la terra un riso d’oro. O sole,

scalda col raggio tuo gl’inverni crudi.

 

E tu, provvida neve, i germi schiudi

per cui sudaron tante braccia umane,

sì che la terra pia maturi il pane

alla prole dell’uom, che attende e spera.

 

 

 

 

 

Sebastiano Mineo (1885-1955)

 

Primavera in corte

 

Coi primi passi smarriti,

è venuta fin qui, stanotte,

Primaverina: a guardare,

con le due stelle degli occhi,

dentro il buio della corte.

Fu la frustata di un lampo;

fu il brontolio minaccioso

venuto dal fondo del cielo,

che le mise sgomento

e la fece fuggire?

Su quel tetto ha lasciato

un filo verde

dei suoi capelli d’erba,

un tenero lembo

della sua camiciola di neve,

e un po’ di pianto

che ora sgocciola dalla grondaia,

si scava una piccola pozza

e la riempie d’azzurro.

 

Francesco Pastonchi (1877-1953)

 

Risveglio primaverile

 

Quante campane suonaron d’argento

schiette giulive al sole mattutino!

Tutta la gente si mise in cammino

per obbedire al lor comandamento.

 

Anche le suore uscivan di convento

a due a due col loro passettino,

anche i malati godeano il festino

e spalancavano i balconi al vento.

 

Anche la pietra non parea più muta,

ché sentiva un desìo d’esser leggera,

concorde al tremolar degli alberetti:

 

poi che ignuda e improvvisa era venuta

alfine l’aspettata messaggera,

colme le nivee braccia di fioretti.

 

Renzo Pezzani (1898-1951)

 

Primavera

 

C’è tra i sassi – ieri non c’era –

l’erba che trema come un verde fuoco!

l’ha perduta nel gioco

la giovane Primavera.

 

La pecorina vestita di lana

ora strappa le tenere foglie

e, per ogni ciuffo che coglie,

batte un tocco di campana.

 

A quel suono fiorisce il pesco:

si schiudono le finestrelle

e le rondini dal cuore fresco

giungono dalle stelle.

 

Ogni casa ha la sua festa

(poi che brilla come bandiere

il bucato alle ringhiere)

e le ragazze un fiore in testa.

 

L’acqua chioccia nella peschiera

rotonda come una secchia

e l’allodola dentro vi specchia

il suo canto di primavera.

 

Dammi la mano, bambino!

Si va dietro il ruscello

che batte gaio come un tamburello

e va nel fiume e muove il mulino.

 

Chi porta frumento e sudore

farina si prende che è pane;

poi, se dondolano le campane,

s’inginocchia e ringrazia il Signore.

 

Giuseppe Villaroel (1889-1965)

 

Primavera

 

Stanotte s’è messa in cammino

la Primavera nell’aria.

D’intorno, sul capo, le svaria

un velo di stelle turchino.

 

Il suo profumo è un sospiro

diffuso sui freschi giardini.

La terra non ha più confini,

il mare non ha più respiro.

 

L’alba sorride cogli occhi

dalle lunghe ciglia di cielo.

Vibra negli orti ogni stelo

come se una mano lo tocchi.

 

 

Le strade hanno tenui tremori

di verde lungo i fossati.

Gli alberi si sono svegliati

con bianche ghirlande di fiori.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti