Omaggio a Chodasevič
E’ sepolto nel cimitero di Billancourt, presso Parigi, il poeta che Maksim Gorkij considerava “il migliore che vanti la Russia moderna”. Vladislav Felicianovič Chodasevič, di origine polacca, era nato a Mosca il 29 maggio 1886. Nel 1922 lasciò la Russia per sempre, e dal 1925 fino al giorno della sua morte, avvenuta il 14 giugno 1939, visse costantemente a Parigi.
I suoi primi quattro volumetti di poesie furono pubblicati in Russia: Giovinezza nel 1908, La casetta felice nel 1914, Per la via del grano nel 1920 e La pesante lira nel 1922. I versi da lui scritti all’estero, e riassunti col titolo La notte europea, entrarono a far parte della sua raccolta del 1927. L’ultimo decennio di vita di Chodasevič fu più dedicato alla critica e alle rievocazioni letterarie, che alla poesia.
Non ebbe mai altri guadagni che quelli derivatigli dalla sua attività letteraria, visse sempre negli stenti, cadde spesso gravemente ammalato, ma ebbe amici cari e fedeli tra letterati e poeti, lettori e ammiratori, che non cessarono mai di amarlo.
Scriveva Gumilёv nel 1914, commentando la seconda raccolta di versi La casetta felice: “Non è possibile abituarsi né alla sua fantasia, né alle sue intonazioni – egli ci si presenta inaspettato, con nuove avvincenti parole, e non si trattiene a lungo, lasciando dietro di sé un piacevole inappagamento e il desiderio di un nuovo incontro”.
Per i loro tratti chiari e precisi e per l’immediata efficacia, i versi di Chodasevič incantano anche il lettore più “impoetico”. La loro forma classica è impeccabile, semplice, elegante. La sua concezione della vita è ironica e tragica al tempo stesso. Dalla sua poesia emerge con insistenza l’eterno tema dell’anima immortale e degli ostacoli che le frappongono la materia e la squallida banalità della vita. E’ un continuo alternarsi di estasi metafisiche e di minute inquadrature prosaiche, d’immersioni ed emersioni, di cadute negli abissi dell’esistenza e di slanci mistici.
Scrive R. Poggioli nel suo libro Il fiore del verso russo: “Uno dei procedimenti più cari a Chodasevič è proprio quello di assegnare una grandezza precaria a provvisoria a oggetti meschini o anche di ridurre le cose grandi alle dimensioni di quelli o al loro livello, ed è questo gioco fra il sublime e il minuscolo che gli permette di comprendere l’umanità di ogni oggetto e le lacrime delle cose”. A.M. Ripellino ha messo in risalto il lato “mordace e velenoso” della poesia di Chodasevič, il suo “mondo uggioso e grottesco, nel quale si aggirano personaggi meschini, idioti e mostri dall’apparenza fantomatica”, sottolineando inoltre il pessimismo del poeta, il clima di scherno, l’atmosfera grigia che aleggia nei suoi versi.
E’ vero: Chodasevič è un poeta spaesato in tanto squallore che lo circonda, ma mi sembra che il suo pessimismo, la sua tragedia trovino una via d’uscita, e la sua salvezza sia nel tono serio e pacato della sua poesia, nella sua attitudine a contemplare con un certo distacco i misteri dell’anima e dell’esistenza; la sua è un’ironia assai spesso feroce e maligna, ma sovente è anche serena, ricca di un humor leggero e immediato. La sua rabbia non lo fa tonare, ma lo spinge a riflettere, a partecipare delle altrui miserie, a sorridere lievemente subito dopo aver pianto.
In una lettera del 1 ottobre 1923 Gorkij scriveva al poeta: “I vostri versi An Mariechen sono belli e penetranti. Non so dire di più, ma aggiungerò soltanto che essi suscitano nell’anima il “freddo sibilo della bufera di neve” e nello stesso tempo sono irresistibilmente umani”.
Mi sembra che questo suggestivo giudizio di Gorkij possa essere la giusta insegna sull’incantato “bazar” del poeta Chodasevič.
Paolo Statuti
Poesie di Vladislav Chodasevič nella versione di Paolo Statuti
Meriggio
Come il viale è quieto, chiaro, assonnato!
Colta dal vento la sabbia vola via
E l’erba sfiora come un soffice pettine…
Con quale gioia or vengo in questo luogo
E a lungo siedo, semiassopito.
Mi piace, quasi svagato, ascoltare
Ora il riso, ora il pianto dei bimbi, e dietro un cerchio
La loro ritmica corsa sul sentiero. Che bello!
Che frastuono, così eterno e veritiero,
Come di pioggia, di risacca o di vento.
Nessuno mi conosce. Qui sono un semplice
Passante, un cittadino, un “signore”
In pastrano marrone e bombetta,
Niente di speciale. Ecco, una signorina
Mi si siede accanto con un libro aperto.
Un marmocchio col secchiello e la paletta
Si accoccola ai miei piedi. Imbronciato,
Si rigira nella sabbia, ed io così enorme
Mi sembro per questa vicinanza,
Che rammento,
Quando io stesso sedevo presso la colonna
Leonina a Venezia. Su questa creaturina,
Sulla testa nel berrettino verde,
Io mi ergo come pesante pietra
Secolare, sopravvissuta a molti
Uomini e regni, tradimenti ed eroismi.
E il marmocchio con zelo riempie
Di sabbia il secchiello e, presolo, me lo versa
Sui piedi, sulle scarpe…Che bello!
E leggero nel cuore io rivedo
Il cocente meriggio veneziano,
Il leone alato librarsi su di me
Immobile con il libro aperto tra le zampe.
E sopra il leone, rosea e tondeggiante,
Fuggire una nuvoletta. E più in alto, più in alto –
L’azzurro denso e cupo, e in esso scivolare
Minuscole, ma fiammeggianti stelle.
Ora esse ardono sul viale,
Sul marmocchio e su di me. Follemente
I loro raggi lottano coi raggi del sole…
Il vento
Inesauribile fruscia con le ondate di sabbia,
Sfoglia il libro della signorina. E ciò che odo,
Da non so qual prodigio è trasfigurato,
Così tenacemente s’imprime nel cuore,
Che più non mi servon né pensieri né parole,
Ed è come se mi specchiassi
In me stesso.
E a tal punto seduce la viva linfa dell’anima,
Che, come Narciso, io dalla sponda terrena
Mi strappo e volo là, dove sono solo,
Nel mio primevo mondo natìo,
Faccia a faccia con me stesso, smarrito un giorno –
Ed ora ritrovato…E da lontano
Mi giunge la voce della signorina: “Mi scusi,
Che ore sono?”
1918
Il pane
Oggi in cucina c’è una luce che abbaglia.
Col grembiule, cosparsa di farina,
Di tutte le Mignon tu sei la più bella
Con la tua bellezza genuina.
Ti svolazzano intorno coi cestini,
Con il bricco del latte e le fascine,
Spiumandosi le ali, i cherubini…
Tra le nubi, dalle colline
Prorompe la luce, e sulle pentole oziose
Come fasci di strali batte il giorno.
Sfacendosi somiglia a pallide rose
La legna che arde nel forno.
E i densi getti del futuro filone
Nel vaso d’argilla un angelo versa,
Giurandoci che son veri, come il sole,
L’amore, il lavoro e la terra.
1918
Il vizio e la morte
Vizio e morte. Quale tentazione,
E quante gioie in una parola godo!
Vizio e morte pungono allo stesso modo,
E sfuggirà il loro pungiglione
Solo colui che serberà nella coscienza
La segreta chiave di un’altra esistenza.
1921
Elegia
Del giardino Kronverkskij le fronde
Stormiscono ai venti rugghianti.
L’anima la sua gioia effonde.
Non le servono conforto e incanti.
Con occhi ardenti e temerari
Guarda i suoi millenni passati,
E vola con le sue grandi ali
Lungo sciami fuoco-alati.
Là tutto è sconfinato e canoro,
E ciascuno ha un’arpa in mano,
Come nubi, gli spiriti tra loro
Parlano un idioma dolce e arcano.
La mia esiliata con esultanza
Entra nella dimora cara
E la sua orgogliosa uguaglianza
Ai tremendi fratelli dichiara.
E mai più oramai le servirà
Chi sotto la pioggia che sferza
Nel giardino Kronverkskij qua e là
Si trascina con la sua pochezza.
E non coglie il mio povero udito,
Né la mente inerte e banale,
Qual spirito essa sarà in paradiso,
O nel tetro abisso infernale.
1921
* * *
Oltrepassa, oltresalta,
Oltrevola, oltre – ciò che vuoi –
Ma liberati: come sasso dalla fionda,
Come stella, caduta nella notte…
Ti sei smarrito – adesso cerca…
Dio sa che cosa borbotti,
Cercando le lenti o le chiavi.
1922
An Mariechen
Stai lì attaccata come una ventosa,
A servir birra dietro il banco.
Ci vuole una ragazza più briosa, –
Tu sei malata e il tuo volto è bianco.
Con quella rosa enorme sopra il petto
Che nessuno ancora ha mai baciato –
Mentre un serto funebre, anche il più gretto,
Sarebbe ornamento più indicato.
E’ così bello, così imperituro
Morire ancor prima di peccare.
Ma i tuoi cari ti troveran sicuro
Qualcuno che ti porti all’altare
Un uomo cosiddetto benpensante,
Una persona come si deve –
Sarà un fardello inutile e pesante
Per la tua vita debole e breve.
Meglio sarebbe – ignara e sorridente –
Solo a pensarci un fremito avverto –
Abbandonarti in preda a un malvivente
In un boschetto buio e deserto.
Meglio – in pochi istanti, senza illusioni –
Conoscer la vergogna e la morte,
E i due sfaceli, le due deflorazioni
Non separare da una stessa sorte.
Giacere in terra – l’abito sgualcito –
Sola, in quel bosco di betulla,
Un coltello nel seno illividito.
Nel tuo seno ancora di fanciulla.
1923
Povere rime
Per quattro soldi tutta la settimana
Deperire, affannarsi e trepidare,
Ogni sabato con la moglie befana
Su un boccale abbracciati sonnecchiare,
La domenica sull’erba non più verde
Recarsi in treno, stender la coperta,
E di nuovo assopirsi e testardamente
Trovare che tutto questo diverta,
E trascinarsi indietro nella dimora
La coperta, la moglie e la giacca,
E non sferrare mai, alla buon’ora,
Alla coperta e al mondo un pugno in faccia, –
Oh, in una tale legge senza scampo,
In una tal ferrea rassegnazione,
Le bollicine possono in alto in alto
Salire solo come nel sifone.
1926
Ballata
Siedo nella mia stanza rotonda,
Siedo, dall’alto rischiarato.
Guardo il sole da venti candele
Lassù nel cielo intonacato.
Intorno – come me rischiarati,
Il tavolo, i lisi divani.
Siedo – e nello sgomento non so più
Dove posare le mie mani.
Sui vetri silenzioso fiorisce
Un gelido bianco palmeto.
Nel taschino del gilè martella
L’orologio il suo toc inquieto.
Oh, della mia vita senza scampo
Inerte, misera povertà!
A chi confidare come io sento
Per me e per queste cose pietà?
Ed ecco comincio ad oscillare,
Tenendo serrati i ginocchi,
E a un tratto in versi a parlare prendo
Con me stesso, chiudendo gli occhi.
Sconnessi, appassionati discorsi!
Discorsi senza alcun costrutto,
Ma i suoni son più veri del senso,
La parola – più forte di tutto.
E musica, musica, musica
Al mio canto si avvince,
E sottile, sottile, sottile
Una lama allor mi trafigge.
Io emergo al di sopra di me stesso,
Mi erigo sulla morta esistenza,
I piedi nella fiamma nascosta,
La fronte negli astri scorrenti.
E vedo con occhi smisurati –
Con occhi, forse, di serpente –
Come il canto selvaggio ascoltano
Le mie tristi cose da niente.
E a un fluido ritmico vortice
Tutta la stanza si abbandona,
E qualcuno la pesante lira
Attraverso il vento mi dona.
E non c’è più il cielo intonacato
E il sole da venti candele:
Su nere rocce levigate
Orfeo poggia i piedi lieve.
1921
* * *
Arde una stella, vibra il cielo terso,
Si cela la notte entro le arcate.
Come non amar questo universo,
Le incredibilità da Te create?
Tu m’hai dato cinque sensi bugiardi,
Tu m’hai dato il tempo e la vastità,
Gioca col miraggio delle arti
Della mia anima l’instabilità.
Ed io creo dal niente, Signore,
I Tuoi deserti, i Tuoi monti e mari,
Del Tuo sole tutto lo splendore,
Che acceca gli sguardi temerari.
E a un tratto distruggo per trastullo
Tutta questa assurdità opulenta,
Come di carte un piccolo fanciullo
Erige una fortezza e poi l’annienta.
1921
* * *
O diletto quasi scordato,
O incanti della notturna ora:
Bevi un sorso – ti senti appagato,
Bevi un sorso – e ne vuoi ancora.
E la vita all’occhio ubriaco
E’ così profondamente nuda,
Come la flessuosa schiena ossuta
Della donna che mi siede allato.
Dell’esile spina dorsale
Io vedo gli anelli incalzanti,
Ad essi mi stringo un istante –
In bocca ho la cipria orientale…
Ride la spensierata creatura,
E collegare è un piacere
La conoscenza che non ristora
Con l’incanto di nulla sapere.
1928
Per la via del grano
Va il seminatore lungo i solchi diritti.
Il padre e il nonno han fatto gli stessi tragitti.
Luccica nella sua mano il grano dorato,
Ma nella nera terra dev’esser gettato.
E là dove il cieco verme avanza lento,
Morrà e germoglierà nell’arcano momento.
Così l’anima mia segue la via del grano:
Scende nel buio, muore – e rinasce pian piano.
E anche tu mia terra, anche tu, sua nazione,
Muori e rinasci sommersa in questa stagione, –
Poiché una saggezza sola conosciamo:
Tutto ciò che vive segue la via del grano.
1917
Così accade chissà perché:
Di notte, il sonno appare –
E il cuore a un tratto è come se
Volesse precipitare.
Ah! – eppure sono a letto.
Ma il cuore batte e batte.
Nella penombra – il dischetto
Incerto del quadrante.
Ma per quella caduta
Tu tremi tuttavia –
O leggera, caduca,
Cara anima mia!
1920
L’anima
L’anima mia – qual luna piena:
Fredda e lucente come un diadema.
Lassù nel suo splendore s’immerge –
E le mie lacrime non asterge:
E non l’addolora il mio sgomento,
Né delle mie passioni il lamento;
E quanto qui ho dovuto soffrire –
All’anima non serve capire.
1921
Intrighi in borsa, sforzi di stati.
Irruente la valanga avanza.
Ma sempre sotto le Procuratie
Resta viva la noncuranza.
E noncurante si è assopita,
Posate le scarpe accanto a sé,
La non turbata Margherita
Dietro la vetrina di un caffè.
E non senza dolore celato
Vado ed immagino talvolta,
Che Qualcuno, saggio e adirato,
Un dì guarderà a questa volta,
Di punto in bianco si rallegrerà,
Rischiarando il mondo col sorriso,
Lo scialle di una bella ammirerà,
Come me resterà stordito, –
E tutto sparirà in un baleno
Non nel purificante fuoco,
Bensì – nel frivolo e ameno
Veneziano vaniloquio.
(1924)
Il tappino
Tappino sullo iodio pungente!
Come presto ti sei decomposto!
Così l’anima invisibilmente
Ustiona e corrode il corpo.
1921
Là, sulle guglie semioscure,
Sui tetti delle autovetture,
Sul ferro della grondaia
La prima neve si sdraia.
Molte volte ho già visto questo,
Sono cose che ormai detesto,
Ma oggi la stessa scena
Sembra nuova e amena.
Proprio io l’anno passato,
Nei divini abissi piombato,
Per sempre il mondo ho rifatto,
Che il tempo non ha disfatto.
E in questo mondo nuovo e austero,
Intenso, rigido e severo,
La prima neve è caduta…
Una neve sconosciuta.
1921
Stanze
Accadeva di pensare: per l’istante –
Un anno, due, darei la mia vita…
Non conosce il valore il lestofante
Dei soldi avuti senza fatica.
Ora giorni diversi sono arrivati.
Già sul mio volto c’è qualche scavo,
I miei minuti sono rincarati,
Ora son saggio, austero e avaro.
Molto io vedo, molto so spiegare,
Mentre la mia testa incanutisce,
Io percepisco il moto stellare,
E sento come il prato fiorisce.
E ogni luce che a voi è preclusa,
Ogni fruscìo che a voi è negato,
Fan più ricca l’esperienza confusa
Della psiche, nel delirio piombata.
Oramai non imbroglio più me stesso:
Invecchio, m’incurvo, – eppur ammasso
Tutto ciò che soavemente detesto,
Tutto ciò che amo con sarcasmo.
1922
Non mia madre, ma una campagnola –
Elèna Kùzina mi ha allevato.
Sulla stufa mi scaldava la camiciola,
Mi proteggeva da un sonno agitato.
Non conosceva la fiabe e non cantava,
Ma sempre in una scatola di latta
Segretamente mi conservava
Ora una focaccia, ora una cioccolata.
Ella non mi ha insegnato a pregare,
Ma mi ha dato tutto ciò che poteva:
La sua maternità triste e amara,
Tutto ciò che di più caro aveva.
E il giorno che dal balcone son caduto,
Ma mi rialzai vivo (come lo rammento!)
Per il miracolo che avevo ricevuto
Un cero da un soldino accese al Sacramento.
Ed ecco, o Russia, “potenza reboante”
Tormentando con le labbra il suo seno,
Ho succhiato il diritto angosciante
Di amarti e di maledirti non meno,
Nell’onesta impresa, nella gioia dell’estro,
Che sempre io servo con dedizione,
Il tuo genio prodigioso – mio maestro,
La tua magica lingua – mio campo d’azione.
E di fronte ai tuoi figli ignavi
A volte io posso ancora esser fiero,
Di custodire la lingua degli avi,
Con amore più geloso e sincero…
Fugge il tempo. Il domani non occorre,
Nell’anima il passato è incenerito,
Ma il segreto conforto ancor mi soccorre,
Che tuttora anche per me esiste un nido:
Là, dove nel cuore, ormai verminoso,
L’amore per me serbando immutato,
Riposa accanto ad ospiti famosi,
Elèna Kùzina, colei che mi ha allevato.
1922
Come un’ape laboriosa,
Trillando e fremendo qual lira,
Tu, o pensiero, ti aggiri
Sull’anima – eterna rosa.
Al suo geloso calice
Con brivido profanatore
Ti stringi e suggi il nettare
Nella vita senza luce.
Ti getti giù a capofitto
In fragranti abissi – e di nuovo
Entri nel substellare mondo,
Di polline rivestito.
E alla tua bizzarra cella,
Semiubriaco torni volando,
Sovraccarico, accumulando
Per gli uomini – il miele, per Dio – la cera.
1923
Finestre sul cortile
Un povero grullo presso le fontane
Non fa che lamentarsi da stamane,
E non ho una scarpa superflua,
Da tirargli dritta sulla testa.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Risuonano pentole, piatti, pianini,
Cullan le balie gli urlanti bambini.
Alla finestra un sordo siede sorridendo,
Del suo silenzio estatico godendo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Un attore davanti a una specchiera opaca
Scrive una lettera e ritratti bacia, –
E provando la sua parte con onore,
Per l’ennesima volta muore l’eroe.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Un padre sta uscendo, saluta la moglie,
Ma torna indietro, bianco come un lenzuolo:
– Non gli piace la zuppa di cipolle!
Bisogna sculacciarlo quel figliolo!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Un vecchio non rasato il letto scosta,
Si accinge a conficcare un chiodino,
Ma a disturbarlo, neanche a farlo apposta,
Sta salendo le scale un inquilino.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tra i fiori un operaio giace sul letto.
Monete sugli occhi, le lenti sul panchetto.
Legate le mascelle, congiunte le mani.
Nel ghiaccio oggi, nel fuoco domani.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quel ch’è giusto è giusto! Possedere
Una fanciulla con la forza non puoi!
Devi prima leggerle dei versi, e poi
Offrirle anche da bere…
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’acqua dentro al muro s’è messa a guaire:
Dev’esser arduo nei tubi fluire,
Sempre nell’oscurità e nella strettezza,
In una tale strettezza e oscurità!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1924
Davanti allo specchio
Nel mezzo del cammin di nostra vita
Io, io, io. Che parola brutale!
Possibile che sia io – quello lì?
Davvero la mamma amava un tale
Semicanuto, giallolarvale
E saccente come una serpe?
Davvero il ragazzo che d’estate
Danzava ai balli di campagna, –
Son’io, quello, che con rimbeccate
Gialligne suscita nei vati
Ribrezzo, spavento e condanna?
Davvero quello che nelle questioni
Notturne dava tutto il suo ardore, –
Sono io, quello stesso che poi
Nelle tragiche conversazioni
Ha imparato a tacere e celiare?
Del resto – così è sempre a metà
Del fatale terreno vagare:
Da una futile causa – alla causa,
E guardi – sei sperso nel deserto, e là
Le tue impronte non puoi trovare.
Sì, non la pantera dalle sterpaglie
Mi ha spinto in un solaio straniero.
E non c’è Virgilio alle mie spalle, –
C’è solo la solitudine – nell’ovale
Dello specchio che dice il vero.
1924
Pinacoteca
Attraverso le sale nel torpore.
Disgusto di verità e bellezze.
Meraviglie mai viste finora,
In anticipo so ammettere.
Ed è arduo, e arreca pur dolore
Vivere d’anima – quanto, chissà? –
Nel paesaggio di un sognatore,
In un’ora guizzata tempo fa.
Batte il genio dell’uomo senza sosta:
In alto, in basso. Diciamo anche:
Di questo botta e risposta
E’ ormai lecito esser stanchi.
Ma sì! Basta! La testa scoppia via
Dinanzi a una fila di Madonne, –
Ed è una tale gioia che in farmacia
Si trovi l’aspro piramidone.
1924
Il fonografo
Dormiva il piccino, mentre il fonografo
Sbraitava incessante la Traviata.
Con quell’urlìo qual sonno soporifero
E’ entrato nella sua mente separata?
D’un tratto la madre solleva la membrana –
Il sonno è fuggito, il bimbo s’è svegliato,
Egli lancia un grido. Dalla sua buia tana
Tutto il silenzio in lui s’è riversato…
Oh, le nostre povere anime non straziare
Col tuo silenzio così terrificante!
Noi ti supplichiamo – il sonno non cessare
Per la notte eternale, troppo stellante.
1927
La scimmia
Faceva caldo. I boschi bruciavano. Il tempo
Non passava mai. Nella casa accanto
Il gallo cantava. Ho varcato il cancelletto.
Là, appoggiato alla palizzata, su una panca
Sonnecchiava un serbo ramingo, magro e nero.
Una grossa croce d’argento pendeva
Sul suo petto seminudo. Gocce di sudore
La rigavano. In alto, sulla palizzata,
Sedeva una scimmia con una rossa gonnellina
E foglie polverose di lillà
Avidamente masticava. Un collare di cuoio,
Tirato indietro da una pesante catena,
Le premeva la gola. Il serbo, uditomi,
Si destò, si asciugò il sudore, e mi chiese
Un po’ d’acqua. Con le labbra provò
Che non fosse fredda, – posò il piattino
Sulla panca, e allora la scimmia,
Immergendo le dita nell’acqua,
Con entrambe le mani afferrò il piattino.
Bevve carponi,
Appoggiata alla panca coi gomiti.
Il mento toccava quasi le tavole,
Sul cranio quasi calvo la schiena
Alta s’inarcava. Così, probabilmente,
Doveva stare Dario, cadendo
Su una pozzanghera, il giorno in cui
Fuggiva la poderosa falange di Alessandro.
Bevuta tutta l’acqua, la scimmia
Gettò in terra il piattino, si sollevò
E – potrò mai dimenticarlo? –
La nera mano callosa,
Ancora umida, mi tese…
Ho stretto la mano a belle donne, a poeti,
A capi di popoli – nessuna aveva in sé
Così nobili tratti! Nessuna ha stretto
Così fraternamente la mia mano!
E, Dio può dirlo, nessuno sguardo
Mi è parso mai così profondo e saggio,
Davvero – penetrando nella mia anima.
Le più dolci leggende di un tempo remoto
Quel mendico animale mi risvegliò nel cuore,
Della vita provai la pienezza,
E mi sembrò che un coro di astri e onde marine,
Di venti e sfere come musica d’organo
Entrasse nelle orecchie, risonando
Come un tempo, in altri immemorabili giorni.
E il serbo si allontanò tamburellando.
Seduta sulla sua spalla sinistra,
La scimmia dondolava ritmicamente,
Come sull’elefante un maragià indiano.
Un enorme sole rosso,
Privo di raggi,
Pendeva in un opale di fumo. Scorreva
Interminabile la calura sul gracile frumento.
Quel giorno fu dichiarata la guerra.
7 giugno 1918, 20 febbraio 1919
(C) by Paolo Statuti. Riproduzione riservata.