
Dopo il 1843 Taras Shevchenko, avvilito dalle recensioni di una parte dei critici e dai problemi con la censura zarista, smise di stampare le sue opere. Decise quindi di raccoglierle in un album non destinato alla pubblicazione, ma ad essere letto solo dagli amici fidati. Denominò questo album Tre anni. In esso inserì componimenti lirici, poesie di contenuto socio-politico e il poema Il sogno, al quale diede il sottotitolo di Commedia, cioè farsa, terminato l’8 agosto 1844.
Esso è una delle satire politiche più caustiche mai scritte. Nella prima parte il poeta descrive le condizioni in Ucraina. Nella seconda si sposta in Siberia, dove i carcerati lavorano duramente nelle miniere. Tra loro vede i rivoluzionari democratici Decabristi (il “re della libertà”). Poi la scena si svolge a San Pietroburgo. “La seconda al primo” è inciso nel monumento che l’imperatrice Caterina II eresse accanto al fiume Nevà allo zar Pietro I. Shevchenko rammenta i Cosacchi e i servi della gleba che furono impiegati nella costruzione della città sulle paludi, dove molti perirono. Egli descrive le loro anime come uno stormo di bianchi uccelli che volteggia sullo zar. La voce che il poeta sente è quella dell’etmano Pavlo Polubotok, imprigionato da Pietro il Grande nella fortezza dei santi Pietro e Paolo, dove morì nel 1724.
La prima volta il poema fu pubblicato a Lwów (Leopoli) nel 1865 e in Russia nel 1907. Non mi risulta che esistano altre traduzioni italiane oltre a questa mia.
Il sogno
(Commedia)
Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce.
(Giovanni 14:17)
A ciascuno la sua sorte
e il suo cammino:
chi erige, chi demolisce,
chi avidamente
cerca a destra e a sinistra
e s’impadronisce
di terreni per portarli
con sé nella tomba.
Un altro a carte spoglia
di tutto l’amico,
e un altro affila il coltello
per un suo fratello.
Uno silenzioso e sobrio,
timorato di Dio,
furtivo come un gattino,
aspetta un tuo giorno
sfortunato e affonda
le sue grinfie nel fegato –
non s’impietosisce
neanche se piange un bambino!
Uno le chiese erige,
munifico, prodigo,
tanto ama la sua patria
e soffre per essa,
tanto le succhia il sangue,
come fosse acqua!..
E i conoscenti tacciono
come pecorelle,
stralunando le pupille!
«Così sia, – dicono, –
così dev’essere perché
Dio in cielo non c’è!
Sotto il giogo voi cadete
e il Paradiso
qui in terra volete?
Sappiate che non c’è!
Pregate invano, rinsavite.
In questo mondo tutti –
principi e indigenti –
sono figli di Adamo.
Quello e quell’altro… Ed io?
Ebbene è presto detto:
io passeggio e banchetto
tutti i santi giorni.
Voi odiate, vi lagnate!
Ascoltarvi non voglio!
Io il mio sangue bevo,
non quello degli altri!
Una notte tornando brillo
da un convito,
strada facendo
io ciarlavo con me stesso.
Nessun bambino che strilla,
la moglie che non sgrida,
un silenzio perfetto,
ringraziando il Signore –
pace in casa e nel cuore.
Sono andato a letto.
E se un ubriaco dorme,
neanche a cannonate
egli si sveglierà.
E quella notte io feci un sogno
davvero straordinario –
il più astemio si sbronzerebbe
e il più avaro pagherebbe
per vedere quei prodigi.
Ma veniamo al dunque!
Ebbene ho visto una civetta
che volava su rive, cespugli e prati,
sopra una ripida vetta,
su campi sconfinati,
su fitte foreste.
E io volavo dietro a lei,
finché non lasciai il mio paese.
Addio, terra nativa,
paese di pianto,
le pene e la rabbia
celerò nelle nubi.
O mia Ucraina,
vedova infelice,
dalle nuvole volerò
da te per parlare.
Per parlare tristemente,
per farmi consigliare;
verrò da te a mezzanotte
coperto di ruguada.
Converseremo finché
non spunterà l’aurora,
finché i figli, ancora piccoli,
non si opporranno ai nemici.
Addio, amata Ucraina,
povero paese natio,
ripeti ai tuoi figli:
la verità è in Dio!
Volo e ammiro e, in un momento,
il cielo rosseggia,
un usignolo da un boschetto
va incontro al sole.
Silenzioso soffia il vento,
la steppa azzurreggia,
tra le rive, sugli stagni,
il salice verdeggia.
Lussureggiano i giardini,
i pioppi disinvolti,
dritti come sentinelle,
conversano coi campi.
Tutto nella terra amata
splende di bellezza,
si copre di verde e si bagna
con gocce di rugiada,
si fa bella lavandosi
per incontrare il sole…
Non ha fine né inizio
la sua grandezza!
Nessuno questa terra
distruggere potrà…
Eppure… anima mia,
tu sei così triste!
Perché invano piangi?
Di chi hai pietà? Non vedi,
non senti il lamento della gente?
Allora va’ e guarda, io volerò
in alto, oltre le azzurre nubi,
dove non c’è il potere né il castigo,
dove non senti risa né pianti.
E in questo Eden che io lascio,
tolgono a uno storpio anche uno straccio,
strappano la pelle per fare le scarpe
ai piccoli principi, e tormentano
una vedova che non paga il tributo,
e incatenano il suo unico figlio,
l’unica sua speranza! Guardalo!
A una siepe addossato,
è gonfio e muore di fame! E la madre
ora falcia il grano gratis.
E vedi là? O miei occhi!
Cosa vi tocca vedere!
Oh, meglio sarebbe stato perdere
per sempre le vostre lacrime!
Una giovane incinta si trascina
col bambino in seno,
i suoi l’hanno cacciata
e da tutti è respinta!
Anche un povero la scansa!!
Un signorino non conosce:
il moccioso già con venti
s’è ubriacato!
Vede Dio dalle nuvole
il nostro dolore?
Forse lo vede ma aiuta
come quelle alture
secolari e imbevute
di sangue umano!..
O mia anima martire!
Che tristezza con te.
Meglio un veleno beviamo,
e coperti di neve
la mente a Dio rivolgiamo,
e domandiamogli
per quanto tempo ancora
i boia regneranno??
Vola, anima mia, mio tormento,
porta via con te la miseria e il male,
tuoi compagni – con loro sei cresciuta,
le loro grevi mani ti hanno cullata.
Vola via nel cielo, l’orda disperdi.
Che nereggi o rosseggi pure,
che la fiamma dilaghi,
che il feroce drago la terra
di teschi ricopra.
Io il mio cuore intanto
nasconderò e lontano
cercherò il paradiso.
E sulla terra volerò
e di nuovo la lascerò.
E’ triste dire addio alla madre,
essere senza un tetto,
ma più triste ancora è vedere
rattoppi e pianto.
Volo, volo e soffia il vento,
dalla neve tutto è coperto,
intorno boschi e fango,
nebbia, ancora nebbia e deserto.
Non un’anima viva, nessuna
impronta umana.
Amici e nemici miei,
addio, da voi non tornerò!
Bevete e banchettate –
ormai più non vi sento,
da solo e per sempre
dormirò nella neve.
E finché voi non saprete
che esiste un paese
non coperto di lacrime e sangue,
io dormirò ignaro…
Dormirò… A un tratto sento
un suono di catene
sottoterra… e allora guardo…
O razza disumana!
Da dove vieni? Cosa fai?
Cosa stai cercando
sottoterra? Temo
che con voi non avrò pace
neanche in cielo!.. Che ho fatto mai
per soffrire così?
A chi ho fatto del male?
Quali mani hanno incatenato
l’anima al corpo,
il cuore hanno infiammato
e i pensieri come corvi
hanno disperso??
Non so perché puniscano
così duramente!
E quando questo mio castigo
finalmente finirà,
non vedo e non so!!
A un tratto il deserto vibrò.
Come se le strette tombe
i defunti lasciassero
per l’Ultimo Giudizio.
Ma no, non sono defunti
che aspettano il Giudizio!
No, sono esseri viventi
messi in catene.
Dalle viscere della terra
estraggono l’oro
per le insaziabili gole!..
Ma che hanno fatto?
Chiedilo a Dio, ma forse
neanche Lui lo sa.
Là vedo un ladro marchiato
che trascina i ceppi;
e là un bandito frustato
che digrigna i denti,
un compagno moribondo
vuole soffocare!
E tra loro, infelici,
anche lui in catene –
il re della libertà,
col marchio per corona!
Nel tormento non implora,
non piange e non geme!
Un cuore scaldato dal bene
giammai si fredderà!
Dove sono i tuoi pensieri sbocciati
un tempo? I tuoi nobili ideali
con amore e coraggio coltivati?
A chi la loro sorte hai affidato?
Forse nel cuore li hai sepolti per sempre?
Oh, no, fratello! Diffondili ovunque,
che giungano e fioriscano tra la gente!
Ancora tormento? O già sarà?
Sarà, perché fa freddo, il gelo
risveglia la mente.
Di nuovo volo. La terra annerisce.
La mente dorme, il cuore è intorpidito.
Vedo strade e file di case
e città con cento chiese
e nelle città, come gru,
si addestrano i soldati,
ben nutriti, gli scarponi
con i ferri inchiodati,
marciano… Guardo lontano:
in un terreno avvallato
vedo una città nel fango;
una nube di nebbia
nera la sovrasta… Ci arrivo –
la città è immensa.
Forse è una città turca,
o forse è tedesca,
o anche russa pare…
Chiese e palazzi,
signori panciuti,
e neanche un casolare.
Imbruniva… Tutto intorno
i fuochi avvampavano,
ero sbalordito… «Urrà!
Urrà!» – urlavano.
«Ehi, insensati! calmatevi!
Perché così allegri?» –
«Ah, eccolo l’Ucraino!
Non sa che c’è la parata.
La parata! Oggi anche lo zar
ha voluto assistere!»
«E dov’è questo incanto?»
«Là in quel palazzo».
Sono andato. Un compaesano
coi bottoni di ottone
mi è venuto incontro:
«Di dove sei?» – mi ha chiesto –
«Sono Ucraino». – «E perché
non sai parlare
la lingua di qua?» – «No – rispondo –
la so parlare,
ma non voglio». – «Sei un bel tipo!
qui sono di casa,
io lavoro qui, se vuoi,
ti farò entrare
nel palazzo ma, fratello,
siamo gente cortese,
dammi almeno mezzo rublo…»
Calamaio da strapazzo,
vattene… Sono diventato
di nuovo invisibile
e sono entrato nel palazzo.
Dio onnipotente!!
Che meraviglia! Parassiti
ricoperti d’oro, mentre
lui, alto, accigliato,
incede con la zarina
accanto, poveretta,
sembra una prugna secca,
esile, gambe lunghe,
e inoltre senza sosta
la testa tentenna.
E tu saresti la dea!
Fai piuttosto pena.
E io, sciocco, senza vederti
mai, ho creduto
ai tuoi poetastri.
Che sciocco! Come credere
ancora ai loro scritti
e a ciò che elogiano!
Dietro agli dei – gente ammodo,
in argento e oro,
come porci rimpinzati,
pance e facce gonfie!..
Sudano e si accalcano
per stargli più vicino:
forse dà loro un pugno,
forse li prende in giro,
o pizzica qualche naso,
ma non fa niente,
purché sotto il suo grugno.
Ora stanno allineati
e nessuno fiata,
soltanto lo zar borbotta;
la diva-zarina,
come airone tra gli uccelli ,
saltella rianimata.
Hanno camminato a lungo
come tronfi gufi,
parlandosi sottovoce –
non li sento, ma penso:
di patria, di mostrine,
o del nuovo addestramento!..
E poi la zarina
in silenzio si siede.
Lo zar invece si avvicina
al più anziano e gli assesta
un pugno sul muso!..
Si lecca il poveretto
e dà un colpo al vicino –
si è sentito!.. E lui
a quello accanto
morde un orecchio e quello
strapazza i subalterni,
e loro – i restanti,
che splancano le porte
e invadono le strade,
dove prendono a pedate
la gente qualunque,
e quelli a squarciagola
si mettono a gridare:
«Divertiti, nostro zar-padre!
Urrà!.. urrà!.. urrà! a-a-a… »
Ho fatto una bella risata,
ma anche me hanno pestato
ben bene. Prima dell’alba
tutti dormivano…
Solo gli ortodossi qua e là
piagnucolavano
e per la salute dello zar
il Signore pregavano.
Risate e lacrime!
Giro per la città.
La notte è come il giorno.
Palazzi e palazzi
sopra il fiume silenzioso;
e la riva è fusa
tutta con la pietra. Guardo
incantato!
Com’è potuto sorgere
da una palude
un tale prodigio?.. Quanto
sangue umano versato –
e senza una lama affilata.
La fortezza e il campanile
con la guglia aguzza –
una vista impressionante.
E il tic-tac dell’orologio…
Mi guardo intorno –
un cavallo frantuma
con gli zoccoli la roccia!
Il cavaliere, senza sella,
indossa un mantello
e una corona di alloro
cinge la testa nuda.
Il cavallo s’impenna, quasi
volesse saltare il fiume.
Il cavaliere ha il braccio teso,
come se il mondo
volesse conquistare. Chi è?
Mi avvicino e leggo
ciò che sulla pietra è scritto:
«La seconda al primo»
questo monumento ha eretto.
Adesso io lo so –
è il primo che ha oppresso
la nostra Ucraina,
e la seconda l’ha resa
vedova-orfana.
Boia! boia! cannibali!
Avete divorato,
rubato, e che avete preso
con voi nell’oltretomba?
Ho provato una stretta al cuore,
come se leggessi
la storia dell’Ucraina.
Resto lì affranto…
E in quel momento sottovoce
qualcuno invisibile
intona per me un canto:
«Dalla città di Glukhov
i reggimenti avanzavano
verso la linea del fronte,
e a me, ataman prescelto,
mandarono coi Cosacchi
nella capitale.
O Dio misericordioso!
O zar pagano!
Zar maledetto e infame,
aspide ingorda!
Che ne hai fatto dei Cosacchi?
Hai riempito i pantani
con le loro nobili ossa;
hai eretto la città
sui cadaveri martoriati!
E in una buia cella
io, libero ataman,
sono morto di fame
in catene. O zar! o zar!
Non ci separerà
neanche Dio. Incatenati
insieme saremo
nei secoli ogni istante.
Lasciare la Nevà non posso.
l’Ucraina è distante,
forse ora non c’è più.
Come vorrei rivederla,
ma Dio non lo consente.
Forse Mosca l’ha bruciata
e il Dnepr è scomparso
nel mare, ha oltraggiato
le nobili tombe –
nostra gloria. O Dio pietà,
abbi pietà di noi».
E tacque; allora vedo
una bianca nube
che copre il cielo grigio, e in essa
ulula una bestia.
Non una bianca nube ma un nugolo
di bianchi uccelli si levò
sul gigante di bronzo
con un canto dolente:
«Anche noi siamo incatenati a te,
cannibale e serpente!
Quando verrà il Giudizio
impediremo di vedere Dio
ai tuoi occhi rapaci.
Tu dall’Ucraina
ci hai condotti nudi e affamati
in terra straniera.
Ti sei fatto la porpora
con la nostra pelle,
cucita con le nostre vene,
e alla tua città
hai messo un nuovo manto.
Ammira i tuoi palazzi!
Rallegrati, boia nefando,
che tu sia maledetto!»
Tutto era svanito.
Il sole sorgeva.
Ero talmente stupito
e spaventato insieme.
Già i poveri al lavoro
si affrettavano,
già i soldati si schieravano
per l’addestramento.
Sui marciapiedi vedevo
fanciulle assonnate,
non da casa, ma verso casa! –
Dalle madri mandate
per un po’ di pane,
a lavorare di notte.
E io col cuore straziato
pensavo e immaginavo
com’era duro procurarsi
il pane quotidiano.
Vedo i funzionari statali
ai loro tavoli
per scribacchiare e spellare
il padre e il fratello.
Tra loro qua e là anche
i miei compaesani.
Voi ciarlate in russo, ma
rimproverate ai genitori
di non avervi fatto
studiare il tedesco – e ora
avete solo l’inchiostro!
Sanguisughe! Vostro padre
forse l’ultima mucca
ha venduto per farvi
imparare il russo.
Ucraina! Ucraina!
Ecco i tuoi figli,
i tuoi diletti germogli
macchiati d’inchiostro.
Dal belato moscovita
nei saloni tedeschi
assordati!.. Piangi, Ucraina!
Vedova infelice!
E ancora volevo vedere
che cosa avviene
nei palazzi imperiali. Entro,
gli anziani con la pancia,
ansimanti e allineati,
sbuffano tronfi
come tacchini e guardano
di traverso la soglia.
Ed ecco la porta si apre.
Come un orso sbucato
dalla sua tana, a stento
le gambe trascina.
Tutto gonfio e livido,
come dopo una sbornia.
Grida ai più panciuti
che di colpo sprofondano!
Poi sbarra gli occhi –
i restanti cominciano
a tremare; come un ossesso
ruggisce ai meno altolocati –
sprofondano anche loro!
Urla alla servitù – anch’essa
scompare nel nulla;
ai soldati e ai soldatini
che gemevano –
anche loro – come dissolti;
ecco il prodigio che ho visto.
Mi chiedo che altro succederà,
che altro farà mai? Sta in piedi,
a testa china, mesto,
poveretto!.. Dove hai perso
la natura di orso?
Sei come un buffo gattino;
e scoppiai a ridere,
lui mi sentì e mi sbirciò –
io mi spaventai
e mi svegliai… Ecco quale
strano sogno ho fatto.
Così bizzarro!.. un sogno così
lo fa solo un ubriaco.
Non vi meravigliate,
amati fratelli –
non vi ho detto ciò che ho visto,
ma ciò che ho sognato.
8 agosto 1844
Grazie
Bellissima, grazie.