Nacque a Piesienica il 19 agosto 1926. Quando debuttò sulla rivista “Nuova cultura” richiamò su di sé l’attenzione di molti critici, che all’inizio l’accusarono di superficialità, mediocrità dei mezzi espressivi e immaturità. Il volume “La brocca di argilla” tuttavia fu acclamato dalla Associazione dei Librai Polacchi come il miglior debutto dell’anno 1957. Le successive due raccolte poetiche “Preghiera al timo. Poesie erotiche” (1959) e “Gocce di sole” (1961) dimostrarono però che Małgorzata Hillar era una vera poetessa. La definirono la “nipote di Różewicz” (v. Articolo e poesie in questo stesso blog) e “principessa della fantasia”. Creò un suo proprio stile. Diceva: “Per scrivere una poesia a volte bisogna salire su un’alta scala appoggiata al sole…”. Scriveva con grande spirito di osservazione. Amava il finale a sorpresa e come sfondo delle sue confessioni liriche aveva scelto la natura. L’amore è il leitmotiv dei suoi testi.
Dopo la guerra si iscrisse alla facoltà di diritto e filosofia dell’Università di Varsavia, ma dovette interrompere gli studi per motivi di salute. Nel frattempo traduceva poeti cubani e russi. Tra gli ammiratori del suo talento c’era anche il critico e poeta Zbigniew Bieńkowski. Scrisse di lei in modo lusinghiero. Nacque l’amore. Nel 1960 la poetessa lo sposò, diventando la sua compagna nel bene e nel male. Seguì un altro successo letterario – “Aspettando Dawid”, dove emerge il suo femminismo maturo e il suo istinto materno, con la descrizione dei sentimenti che accompagnano la donna durante la gravidanza e il parto. Con l’andare del tempo però la temperatura dell’unione andò scemando. Andarono entrambi negli USA con una borsa di studio ottenuta dal marito, ma dopo il ritorno accadde ciò che la Hillar temeva più di tutto: la separazione, avvenuta nel 1970. Il marito aveva trovato la felicità al fianco di un’altra poetessa. Małgorzata è distrutta. Il suo ultimo respiro poetico è la raccolta “Poesie”, dove donne abbandonate, smarrite, ferite come soggetto lirico, vagano nel silenzio, pronte a tutto, perfino al suicidio. Come lei stessa. La depressione si aggrava. La sua vita non ha più senso. Vuole dimenticare l’intera biografia, lo sconforto e il mancato amore da parte delle persone più care. Sprofonda nell’alcolismo. Non si cura di niente, neanche di se stessa. Non scrive. Si sta distruggendo. Nel 1985 entra a far parte di un gruppo di Alcolisti Anonimi. Ricomincia a scrivere, sollecitata dagli amici di questa comunità. La prima poesia del periodo di astinenza appare sulla rivista “Integrazione”. Sogna di pubblicare una raccolta dedicata al figlio, dal titolo “Poesie per Dawid”. Scrive l’introduzione al volume “Pronta a risuscitare”, che uscirà dopo la sua morte avvenuta a Varsavia il 30 maggio 1995.
Małgorzata Hillar amò e soffrì molto. Dietro il velo della poesia celava la paura della solitudine e il bisogno di sicurezza emotiva. Dopo la separazione viveva come lontano dal mondo. Qualcuno l’ha definita “poetessa in fuga”. Viveva immersa nel suo dolore e nel caos spirituale, che voleva esprimere gridando, o distruggere completamente nell’ebbrezza dell’alcol.
“Poetessa-icona, leggenda della seconda metà degli anni ’50 e inizio ’60. La sua poesia “Noi della seconda metà del XX secolo”, diventò il manifesto della sua generazione e uno dei testi più popolari tra la gioventù. “Immergersi nella gioia spontanea, arrendersi ai tremiti del cuore, desiderare ardentemente e attendere la felicità – ecco gli elementi salienti della sua poesia. Amore, emozioni erotiche, maternità, spontaneità – tutto ciò costituisce il linguaggio di una poetessa che protesta contro le false barriere della cultura e della civiltà” – scrive il poeta e critico Aleksander Nawrocki.
Poesie di Małgorzata Hillar tradotte da Paolo Statuti
Io creatura selvatica
Io creatura selvatica
temo le parole
fredde dure indifferenti
Temo
i sorrisi acidi
le occhiate frivole
le alzate di spalle
Quando ero bambina
scrivevo le poesie in soffitta
perché non ridessero
Per ore e ore pensavo
come poter guarire
la zampetta malata di una rana
che sedeva nel fosso
Oggi come allora
chiedo mani che accarezzano
Parole calde e morbide
come lana di pecora
Lui non sapeva
Lo salutava
dal balcone
con la mano ardente
Correva
alla porta
Gli porgeva
il suo petto
Si addormentava
sulla sua spalla
Quando usciva
anche lei usciva
Quando tornava
anche lei tornava
Lui si stupiva
Si rallegrava
Non sapeva
che lei aveva paura
degli alberi uccisi
trasformati in mobili
e del pavimento
che la guardava
ironicamente con le fenditure
socchiuse
Noi della seconda metà del XX secolo
Noi della seconda metà del XX secolo
che disintegriamo l’atomo
che conquistiamo la luna
ci vergognamo
dei teneri gesti
degli sguardi amorevoli
dei caldi sorrisi
Quando soffriamo
storciamo
noncuranti la bocca
Quando arriva l’amore
alziamo sprezzanti
le spalle
Forti cinici
con gli occhi ironicamente
socchiusi
Soltanto a tarda notte
con le tende
ermeticamente tirate
ci mordiamo le labbra dal dolore
moriamo d’amore
Fragola di bosco
Se tu fossi vicino
ti darei
questa prima fragolina
Direi
prendi mio caro
questa è una goccia di sole
Tu sei lontano
e la fragolina ha la forma
di una lacrima
L’amore
E’ l’attesa
del crepuscolo del cielo
del verde dell’erba
di una carezza delle ciglia
L’attesa
dei passi
dei fruscii
delle lettere
del bussare alla porta
L’attesa
di un esaudimento
di una durata
di una comprensione
L’attesa
di una conferma
di un grido di protesta
L’attesa
del sonno
dell’alba
della fine del mondo
Il nido
Ogni notte
lei si addormentava
nel sicuro nido
delle sue braccia
che impediva l’accesso
ai rapaci uccelli
della solitudine
Lui la ritrovava
tra i neri rami
del sonno
per dire
che era
per lei
Nella notte
più nera
lei abbandonò
il nido sicuro
delle sue braccia
e si smarrì
nell’oscurità
Adesso
tra gli alberi notturni
alle taccole che dormono
i caldi nidi
invidia
Il gufo
Intirizziti
sotto la nicchia sulla strada
di notte
quando le viole tremano
dal freddo
si avvolgevano strettamente
nel calore delle proprie braccia
Il vento faceva cadere
dalle loro teste le stelle
che si erano posate
sui capelli come brina
Invidiavano la Madre di Dio
guardava ascoltava
uscì dalla nicchia
chiedeva loro di seguirla
andarono per fossi
pieni di gialle calte
attraverso recinti
di filo lunare
lungo il verde stagno
Fino al fienile
caldo e dorato
come paglia
La Madre di Dio
un gufo urlante
tolse dal tetto
Se ne andò sorridente
con il gufo indignato
sotto il braccio
Innamorata
Percorre la strada
come ballando
a un saggio di danza
Sorride
al bambino nella carrozzina
al passero
che ha perso la coda
Quei pallini sul vestito
pensa
hanno il colore dei suoi occhi
Dalla mattina ripete
il nome più caro
ed esce di casa
con una calza sola
Posso?
Dici
le parole non esprimono
Ti guardo
tristemente
Io conosco parole
che come l’atropina
dilatano le pupille
e cambiano il colore del mondo
Dopo di esse
non si può più andar via
Posso darti me stessa
se non sai
dire
cosa provi
quando ti dono la bocca?
Preghiera al timo
I giorni sono lenti
come formiche rosse
che portano sul dorso
l’afoso peso dell’estate
In basso sul terreno
arde
con una fiamma viola
il timo
Con la fronte premuta su di esso
prego
Non sfiorire ancora
Tra poco
egli tornerà
e fra i tuoi ardenti fiori
mi porgerà con le labbra
un mondo ondeggiante
Preghiera
Madre di Dio con la corona di carta
inquilina della fredda chiesa
Regina del silenzio d’argento
Fuga dagli sguardi curiosi
Protettrice di parole morbide come narcisi
Patrona dei nostri baci
Testimone dei giuramenti più belli
Ogni giorno vengo da te
benché sappia
che la nostalgia non attenuerai
la separazione non accorcerai
Che sai tu dell’amore
tu celeste e di gesso
che perfino tuo figlio
hai concepito in modo irreale
Pompea
Pensava
di sicuro farò in tempo a fuggire
Correva in via dell’Abbondanza
coi sandali ricamati
con un mazzo di chiavi
con un vaso d’argento
panciuto come il suo ventre
Così la sorprese
l’ardente diluvio
vestendola interamente
per molti secoli
con un abito di pietra infocata
Nessuna scultura renderebbe
con tale fedeltà
il tormento
del suo volto
lo spavento delle mani
che proteggono il ventre
Sua sorella
col bambino in grembo
nella città di Hiroshima
morì rapida
come la civiltà
del XX secolo
Di lei
nemmeno una traccia nell’aria
è rimasta
Nella città di Varsavia
contro l’insensato vulcano
contro il cieco atomo
porto avani
il pesante ventre
La torre della pazienza
Lei si trasformava
in torre della pazienza
nella cui ombra
lui riposava
in porta della saggezza
varcandola entrava
in un giardino di luce
Lei si mutava
in soffice pecora
per le mani di lui
in un grillo
che suona le ciglia
in una mela
per le labbra di lui
Lei era
il torrido vento
che attizza la fiamma
in cui lui si tuffava
il fiume impetuoso
che trascina cielo e terra
Lei si tramutava
in albero del silenzio
che genera il sonno
in dalia
che rischiara le tenebre
in uccello
che porta il giorno
Diventava uno specchio
perché lui vedesse
come era perfetto
un cestino
dove lui celava la solitudine
diventava la terra
per la quale lui andava
sulla luna
Quando lui partiva
lei si mutava
in se stessa
interamente coperta
con la pesante ombra di lui
Come il sole
Vivi in me
come in una cesta chiusa
nella quale non posso guardare
eppure io stessa
ti ho permesso di starci
Sei diventato indipendente
e intollerante
Per favore
trasloca
ho poco spazio con te
Rimani
contro la mia volontà
Mi spingi
coi piccoli talloni
coi piccoli gomiti
Mi trasformi
senza il mio permesso
senza la mia partecipazione
in un boccia panciuta
Di notte con timore
mi tocco il ventre
Dico
no
Grido
no
Sei come un’alluvione
inevitabile
Come un fuoco
indomabile
Come un terremoto
Come il sole
Grazie, o Signore
che mi hai dato
nella vecchiaia
il dono di stupirmi
che quando tocco l’albero
piantato sotto la mia finestra
non dico
non è che un comune castagno
ma sussurro incantata
è un miracolo
e quando si avvicina a me
una piccola creatura
non affermo
non è che una semplice bambina
la mia nipotina
ma penso stupita
è un miracolo
Vorrei
che guardandomi allo specchio
donna che invecchia
che così spesso non amo
potessi dire con gioia
è un miracolo che sono qui
Dici
Dici
Se stessimo insieme
la mattina ti porterei
i panini e il latte
Avremmo
in comune la porta
la luce
la notte
Ma ci dividono
le chiavi
le scale
le abitazioni
gli occhi di un uomo
gli occhi di una donna
perfino il salice piangente nel cortile
sotto il quale non possiamo baciarci
Dici
Sei per me
come il sole che sorge
per vederlo
volto le spalle alla gente
Girasoli
In un vaso nero
sul pavimento
sono come piccoli soli
Vengono per rischiarare
i cupi giorni della tristezza
quando se ne vanno
attraverso la bianca soglia
della brina
li desidero
sull’orlo
del vaso vuoto
Allora arriva
il rosso van Gogh
Se vivessi
dice
te li presterei
ogni inverno
Il ricordo delle tue mani
Quando ricordo
la carezza delle tue mani
non sono più una bambina
che si pettina tranquilla
sistema le pentole di coccio
sul ripiano di pino
Impotente sento
le fiamme delle tue dita
che accendono la nuca le spalle
Resto così a volte
a metà giornata
sulla bianca strada
e copro la bocca con la mano
Non posso mica urlare
Euridice
Risvegliava per lei la segala notturna
perché sfiorasse i suoi fianchi
La vestiva
di nero odore
di trifoglio
Mutava i suoi capelli
in fiamme
Quando la fecero sprofondare
nell’Ade
non le andò dietro
Fuggì
chiudendosi le orecchie
alla sua invocazione
di aiuto
Quando tornò
toccò i suoi capelli
Non si erano mutati in fiamme
Erano come erba morta
Disse
Non sei Orfeo
Sei un prestigiatore
che tira fuori i conigli
da un orecchio
Il sacco della vita
In esso
allega
il frutto del seno
Una grande prugna livida
umana
impigliata
in steli violacei
Elastico
si allunga
si allarga
si tende
come un arco semicircolare
come la volta
dei santuari romanici
S’ingrossa
di giorno
in giorno
Unica vera
fonte dell’infinito
Il sacco della vita
Attraverso epidemie
fame
guerre
porta in sé l’inizio del mondo
(C) by Paolo Statuti
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