E’ nata a Lublino il 14 agosto 1921, quest’anno ha quindi compiuto 91 anni. Il suo debutto risale al 1938, quando cioè aveva appena 17 anni. Prese parte alla II guerra mondiale come staffetta dell’Armata Nazionale. Al tempo stesso frequentò i corsi di filologia romanza e polacca presso l’Università clandestina di Varsavia. Negli anni 1947-1950 soggiornò in Francia, grazie a una borsa di studio del governo francese, lavorando nel contempo nell’Ambasciata polacca a Parigi. Nel 1954 sposò il poeta e scrittore Artur Międzyrzecki (v. articolo e poesie in questo stesso blog). Insieme a lui trascorse alcuni anni negli USA (1972-1974). A gennaio del 1976 sottoscrisse il “Memoriale101”, in segno di protesta per le progettate modifiche antidemocratiche della Costituzione polacca. Negli anni 1986-1991 fu membro attivo di “Solidarność”.
Questa poetessa, che il premio Nobel Czesław Miłosz definì “la grande dama della poesia polacca”, occupa un posto di primo piano e a se stante nella letteratura polacca contemporanea. Nei suoi versi arguti, raffinati, sempre tesi alla comprensibilità da parte del lettore, spesso alla gravità abbina l’ironia, allo sconforto – la gioia di esistere, alla tangibilità dei sensi – la visione onirica. Cos’è la poesia per Julia Hartwig? E’ la descrizione del mondo, è il prendere nota di esso. E’ dare un nome a ciò che si è visto: un volto scoperto nella folla, una persona (come quella vecchia donna notata una domenica pomeriggio su una panchina lungo l’East River). Un elemento del paesaggio ancora inosservato. I numerosi ricordi di viaggio: uno scoiattolo al Regent Park, un villaggio al confine spagnolo, dove sulla terrazza di una vecchia casa su un pendio “una ragazza con la cuffietta bianca serve succulente trote, una località in Portogallo, dove “in un caffè debolmente illuminato e con le pareti scrostate/gli scrittori sorseggiano il vino/nella vicina taverna qualcuno canticchia sul palco un fado/dalla scura collina si vedono le vacillanti luci di Lisbona”. E’ un prendere nota della realtà: con affetto, con una chiarezza lungi da esperimenti formali, anche se a volte ai limiti tra veglia e sogno. E’ un prendere nota con la speranza di scoprire qualche altro significato nascosto o non ancora capito fino in fondo.
Tra le sue opere ricordiamo in particolare le raccolte di poesie e di prose poetiche: Pożegnania (Addii, 1956), Wolne ręce (Mani libere, 1969), Dwojstość (Duplicità, 1971), Czuwanie (Veglia, 1978), Chwila postoju (Un attimo di sosta, 1980), Obcowanie (Compagnia, 1987), Czułość (Tenerezza, 1992), Zobaczone (Visto, 1999), Nie ma odpowiedzi (Non c’è risposta, 2001), Błyski (Lampi, 2002), Gorzkie żale (Amari lamenti, 2011); le monografie letterarie: Apollinaire (1962), Gérard de Nerval (1972); i diari: Dziennik amerykański (Diario americano, 1980) – un meraviglioso libro sull’America, Zawsze powroty. Dziennik podróży (Sempre ritorni. Diario di viaggio, 2001); le traduzioni della poesia francese (tra gli altri: Rimbaud e Apollinaire). Insieme al marito ha realizzato l’antologia di poeti americani Opiewam nowoczesnego człowieka (Canto l’uomo contemporaneo, 1992). Julia Hartwig ha scritto anche saggi e libri per bambini. Ha ricevuto diversi importanti premi letterari e i suoi libri sono stati tradotti in molte lingue, tra cui l’italiano. La poetessa è deceduta in Pennsylvania il 14 luglio 2017.
Poesie di Julia Hartwig tradotte da Paolo Statuti
* * *
Il bambino nella carrozzina tende le mani alle foglie che cadono fitte.
Ancora non sa che vanno a zigzag tra esse vaporosi defunti, vampiri, ragnatele di silfidi dell’estremo oriente portate qui in viaggio, innominati fantasmi dai molti occhi.
Attraversano a nuoto il giardino autunnale, tirandosi dietro una striscia di primi rigidi soffi.
Si riscaldano agli ultimi raggi, felici del calore.
Il prato
Voglio chiamare questo prato
senza parole prendete questo quadro da sotto le palpebre
sì e anche questo profumo prendete
e non sbagliate la musica
là c’era una sinfonia per archi di erbe
dei temi un giallo e lilla bouquet musicale senza pecche
eine kleine tagesmusik
delicata nei varchi del respiro
e passi passi come in sogno
e inoltre passi così lucidi
come se la testa fosse una bella calcolatrice
o una lucente tromba che un sensato sole suona
così cogliere i fiori di un amore impetuoso
così nel sorriso andare incontro
così dare in eterno questo inchino del monte
l’ombra che cade nella valle la scultura di un pendio
la bramosia il presentimento della fine
così morire nel profumo di trifoglio e di fieno
nelle apparenze delle nebbie negli incensi dell’umidità
asfissiata accecata dalle torture della luna
chiamo ma chi mi sentirà
colui che qui dopo di me morirà di ammirazione
dunque inutilmente voglio dare questo prato
un prato sempre diverso
un prato sempre diverso
ah
Tutte le volte che incontro
Cherubini e serafini, capisco. Ma da dove arrivano in giardino quei grassi corvi, sotto i quali il ramo si piega?
Mi meraviglia ogni passero che salta come su una molla, mi meraviglia ogni gatto errante.
Oh, misterioso mondo intermedio, dunque ancora duri?
Tutte le volte che incontro faccia a faccia un cane, che ritto a zampe larghe mi fissa con quello sguardo di attesa e insistente, non posso fare a meno di pensare che per il mio abuso del linguaggio, per le vanterie e il falso tono, è stato punito col mutismo.
Il mio proprio
E’ magro il mio angelo custode. Non vuole né mangiare né bere.
Mi cade di mano il cucchiaio, quando lo guardo, rovescio sul tavolo il tè.
E’ anche orribilmente vestito. Difficile mostrarsi in sua compagnia, semplicemente non sta bene.
E’ anche taciturno, e forse perfino analfabeta. Guarda con indifferenza la mia biblioteca, non fa uso del bagno.
A volte scribacchia qualcosa sulla parete, o fa rime senza senso, oppure salta, battendo la testa contro il soffitto e scorticandosi i ginocchi.
Ma è pur sempre l’angelo, il mio proprio angelo, quindi mi piace e non ne voglio un altro.
Essere
Essere nell’uccello che vola
Nello squalo quando porta una persona salvata
e poi col dovuto rispetto la risputa
Essere la scintilla che accende la chioma di una quercia
Essere gli occhi dell’acqua I diti della sabbia
Il flessibile braccio della fiamma
Accendendomi avendo freddo Avendo freddo riscaldare
Risuscitare ciò che abbiamo soffocato col proprio peso
Dal marciume tirar fuori l’immediata linea di un fiore
Disgregarmi in cenere Non dire addio
Il gatto Maurizio
Lo chiamano ladrone gangster lestofante e spillatore
discolo e attaccabrighe
Disturba durante i pasti salta sulla tavola
e fruga tra bicchieri e bicchierini
strappa i pacchi con il cibo porta nel musetto uno storno catturato
che voleva visitare a piedi il prato davanti casa
e ha pagato con la vita questa incauta passeggiata
Esige irrevocabilmente di entrare o uscire dalla stanza o dalla cucina
si azzuffa rabbiosamente coi gatti del vicinato
lanciando al tempo tesso spaventosi urli da belva della giungla
Non lusinga nessuno ed è inflessibile nelle sue voglie
indifferente agli ordini e alle carezze
sì alle carezze perché non considerando la sua natura
lo vezzeggiano e lo stringono al petto
incantati dalla sua armoniosa andatura e dagli agili balzi
gli danno i bocconi migliori e lo fanno dormire nei propri letti
Dunque non per le virtù e il carattere è un premio l’amore
e non per l’ubbidienza e nemmeno per la lealtà
ma per il fascino e l’arroganza
per la vita in se stessa in tutta la sua evidenza
Grande infatti è in noi il bisogno di amare
Invito
Distenditi accanto a me.
Come volpe con volpe, uccello con uccello,
quando echeggia il grido del gufo.
Ci invadi la saggezza del silenzio,
la saggezza del calore, la saggezza dell’addio
a lungo
prima dell’attimo di andarsene.
Giacendo vicini guardiamo nella notte.
Si chineranno a noi i quattro lati del mondo
e i viandanti dell’oscurità ci porranno davanti
i doni, i rimedi e i talismani tanto desiderati.
Semplicemente
Tutto arriverà al momento giusto
ma non il tempo della rinascita delle prime speranze
e dei primi amori
né il perdurare in parole di ciò che ti passa per la testa come vento
e a volte è il presentimento di qualche importante verità
ma fugge via veloce come per burla
Arriva tuttavia il momento irrevocabile
in cui a tua volta cominci a perdere tutto ciò che amavi
e tutti quelli che se ne vanno da qui
senza rivelarti se vanno via delusi
Arriva questo momento
e tu lo accogli senza vergogna né umiltà
ma così semplicemente
Novembre
Le gambe immobili dei salici sull’acqua
mentre i rami immersi vorrebbero scorrere via
qualcuno invisibile suona il flauto
ma sul ponte non si vede nessuno
A che scopo tornare qui dopo anni
e come sopportare questo equilibrio di bellezza
questo vasto cielo che sulle spalle reggono
le distinte case dell’Isola di San Luigi
Sul fiume naviga un battello con lieve ronzio
un acrobata prova un difficile salto sulla riva
vibra la pelle toccata dal sole
e un blando respiro dell’aria ti accompagna
attraverso novembre e la sua scia di foglie
Non parlare di ciò che qui hai lasciato
non parlare di ciò che ricordi
in questo fiume sono annegati migliaia di cuori
con la nebbia dei ricordi si potrebbe spartire un continente
Fedeltà
Altri conquistatori si uniscano a giovani maghi come
Ulisse con la seducente Circe.
Io esalto colui che seduto al capezzale di una paralizzata,
le canticchiava un motivo un tempo cantato insieme, sperando
che il suono svelasse loro uno spazio più chiaro nella melma dell’oblio.
Non ha dimenticato quando in ginocchio con un tremito baciava
la sua mano tesa, e lei gli stava davanti come un pioppo, con la testa
in una nuvola di capelli, mirabilmente assente e già allora congedandosi
da lui per sempre.
Il primo grado di pazzia
Gettare via tutto, diventare contadini,
cingersi di un bosco, attingere l’acqua del lago,
allontanarsi da mille logore parole,
attraverso le quali il senso scivola via come da un setaccio,
trovare un luogo vergine dai mattini affascinanti,
rinchiudersi in una bianca cella, ritrovarsi
o perdersi condannandosi forse
a ore di paralizzante accidia conventuale.
L’identità? Infischiatene.
Guardando indietro, ricordando le proprie convinzioni e i casi,
dillo anche tu – come si può parlare qui di identità.
(C) by Paolo Statuti