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Varvara Aleksandrovna Monina (1894-1943)

17 Mag

    Questa poetessa dell’epoca d’argento, praticamente sconosciuta anche agli specialisti, nacque a Mosca il 27 ottobre 1894. Si diplomò presso il ginnasio privato francese “E.E. Constant” nel 1914 ed entrò nella facoltà di Storia e Filosofia dei Corsi Superiori Femminili, ma per vari motivi, anche di salute, dovette lasciarla. La sua prima raccolta manoscritta risale al 1914 ed è intitolata Anemoni (simbolo cristiano della sofferenza. La macchia rossa sul fiore rappresenta il sangue di Cristo e la tripla foglia rappresenta la Trinità) ispirata dall’omonimo quadro del pittore polacco V.A. Kotarbinski (1849-1922), del quale la poetessa aveva una riproduzione.

     Amava particolarmente Lermontov. In gioventù era attratta dai temi del dolore e della morte. La ragione è da vedersi anche nella morte in guerra del fidanzato Jakov Gordon nel 1919. Appresa la tragica notizia Varvara disse alla  cugina e intima amica, anche lei poetessa, Olga Michalova: “Non mi ucciderò. Che melodramma sarebbe: la poetessa si è impiccata. Ma morirò, appassirò naturalmente, senza fare resistenza”. E così fu. Malata e sofferente, Varvara divenne l’ombra di se stessa.

    Non alta, esile, capigliatura vaporosa, occhi castani, un viso incantevole. Non aveva bisogno di abbellimenti. Estranea alla civetteria, poteva camminare con enormi stivali di feltro, indifferente al suo aspetto esteriore. Voce melodiosa, andatura elegante. “Cos’hai che ti rende così speciale?” – le chiedevano gli ammiratori, – “Niente, niente”, – rispondeva. Eppure era consapevole del suo fascino particolare.

    Aveva il culto del capriccio. “Io voglio fare di ogni esame un gioco. È terribile che non mi piaccia niente”.

    Era sposata con Sergej Bobrov (1889-1971), poeta, scrittore, traduttore e matematico, uno dei fondatori del futurismo russo. Con lui ebbe due figlie, Marina e Ljubov’. Il matrimonio durò diversi anni, malgrado i continui tradimenti del marito e una estrema povertà.

    Molte sue poesie sono apparse in antologie uscite nella seconda metà degli anni ’20 del secolo scorso. Esse erano bene accolte. Giudizi positivi furono espressi anche da Eduard Bagrickij (1895-1934) e Boris Pasternak (1890-1960)

    Durante la sua vita furono pubblicate le sue traduzioni delle poesie del lettone Jan Rainis (1865-1929). Ha tradotto anche i racconti di Jean Cocteau e le poesie di Charles Baudelaire.

    La cugina Olga Michalova (1898-1978), nelle sue memorie Compagni di Lettere scrive:

    …Ricordo una serata  in cui Varvara si esibì alla Casa Herzen e alcuni giudizi. “Se parlassi oggi, sarebbe puro patos”, – ha iniziato il suo commento il poeta Ezra Levontin. Il poeta e scrittore Ivan Rukavišnikov ha sottolineato i risultati formali. Qualcuno l’ha definita “la migliore poetessa dell’URSS”. Il poeta e critico Ivan Aksjonov ha trovato in Monina una indiscussa originalità, mentre Pasternak ha esclamato: “La cosa migliore di te è l’impressionismo”. Alle serate del poeta, prosatore e critico Georgij Obolduev, Varvara Monina aveva un successo personale costante. Il poeta Ivan Pul’kin ha detto: “ Ci sono molte parole calde nella poesia russa, ma questo calore è del tutto particolare”. Gli elogi, piacevoli, non le montavano la testa. Era sempre esigente con se stessa”.

    Quando iniziò la guerra non partì con le figlie, ma restò nella sua nativa Mosca, dove morì il 9 marzo 1943 di meningite tubercolare.

    Nel 2011 sono uscite a Mosca tre sue raccolte in un volume intitolato Brivido di naufragio lirico. Particolarmente apprezzata è raccolta Il grillo e la luna.

    Sfortunatamente non ho trovato nessuna sua fotografia.

Poesie di Varvara Monina tradotte da Paolo Statuti

Sia come nell’infanzia: calore e sopore…

Sia come nell’infanzia: calore e sopore,

E a guardia di fuori: la pacifica neve,

Che dissuade i ladri dal rompere il vetro,

E solo quando l’aurora spunta il sole riceve.

E di nuovo il cuore ricorderà i cantucci

E i palchetti sul pianoforte, e anche il piano,

E i sanguinari tiratori lettoni

A un tratto spariranno lontano.

Sia come nell’infanzia: i libri trascurati,

Le unghie sporche, i bucati rari,

Non sapere cos’è vivere e morire,

E chiudere, turbandosi, i diari.

luglio-agosto 1918

Delirio col Golgota

Noi non viviamo – noi litighiamo

Con Dio, con la terra, con le sparatorie,

Usando ogni gioia, ogni dolore,

Ogni sorte.

Hai confuso crudeltà e tenerezza, o Dio,

Il respiro, come argento, hai contato.

E un milite , – allora – simile a Te,

Con Te ci trafiggeva il costato.

Ma mi ricorderò di Te, morendo,

Di baciare il tuo respiro per ogni gente,

Perché a tutti la notte di fuoco

Balli sulla ruota nuovamente.

1919

Due conchiglie – le mie orecchie…

Due conchiglie – le mie orecchie,

Due coralli rosa sul petto,

Due tristi pesciolini rossi – le labbra,

E le lacrime – il sale degli amati mari.

Per me il vento ha mutato il rombo in voce

E ha vinto con una rete di fuoco,

Affinché l’uomo amasse la scorrevole figura

Della erede dei re marini.

Oh, occhi azzurri – giovane – fidanzato!

Come l’aria nella conchiglia, soffiami un verso,

Mi è dolce conoscere la musica terrena, –

Ma l’acqua era la mia patria,

La sabbia – il creatore. Con te per sempre.

E se no – che io diventi di nuovo un’onda…

1919

*  *  *

Sul sonoro corpo del pianoforte,

Dove un giaciglio di elegie è posato,

Tutto il cielo dal latrato della luna –

Dell’insonnia –  di un cane è frazionato.

Visibilmente aperto: il giardino

Nel pianto di betulle vaga,

Il giardino in rivoli, nel godimento,

Agli occhi delle ruote salta!

Visibilmente aperto: su sciocchezze,

Tenerezze, su certe mani, –

Agli occhi salta – lui stesso.

E a un tratto, cessata l’immortale

Pace, a un tratto, in movimento,

Tu tendi la mano alla prima

Tenerezza e –

                       Il mio amico

Michail Jur’evič Lermontov,

Il sogno attraversando,

Innervosito,

La pipa del Mašuk* accende.

*Montagna del Caucaso a forma di cono, ai piedi della quale sembra che  si svolse il duello mortale di Lermontov il 15 luglio 1841.

1923

Che sappiamo come, eccitata dall’odore…

Che sappiamo come, eccitata dall’odore,

L’erba cresceva. Che attraverso il lago

La primavera scorreva su quattro zampe

Di nebbie rosate. È poco per noi. Chiediamo

Ancora dirupi, avvallamenti, rami,

Cielo marino di coppe e boccali.

E mani non peggiori – no – le migliori

Per amicizia e tenerezza – le stelle del sud!

Oh, è solo nei sogni? Almeno sette giorni di mare,

Il corno Aj-Petri, il dorso del crepuscolo

A Gurzuf, cupa, vestita di bruno

(A Puškin piaceva così tanto?) – e il marmo,

Diffuso sul mare. E il fresco tremito

Del papavero della steppa. E il pensiero

Di un ramo di sughero. E il crepitio sul noce?

E la vita? La felicità? Salda. Serica.

1923

La luna, il canto del gallo e il grande deserto

Amico mio

Di oscurità e poesia –

Portello della luna –

Non lontano dalle separazioni

Della notte e del gallo.

Non semplicemente vuoto –

Amico mio,

Non tonando sull’abisso –

Amico mio,

Ma nutrendo di tuono,

Con l’ampia generosità

Dei deserti

Amico mio.

Dunque –

A domani!

Scusami.

1924

*  *  *

Butterò giù due parole con un’ala

Su cosa è caro e che più non resta,

Su cosa canta il ferro di cavallo,

Come arpa, sotto la finestra.

Su cosa in nome del cielo

Dei tuoi mari – delle notti –

Ci cantava la magica trottola –

Il grillo in scrosci di ciottoli.

Oh, il mio caro, caro grillo,

È più puro, più dolce del cuore!

Sull’asciugamano della luna –

Scivola e sii il mio cantore!

Asciugherà con un lembo di luna

Il viso spruzzato di fresco.

Ma tutto per me sono cascate –

Di silenzio grillesco.

1925

Non nei sobborghi…

Non come nei sobborghi,

Chiamando la luna dalla loggia,

Incontrando il rigido dicembre, –

Non come fanciulla – già promessa, –

Arrossire, passando

dalle guance alle labbra un sorriso!

– Ma come un rametto, incenerire

Pensierosa. Con flessibilità – rafia.

Come durezza dell’aria –

La pietra degli obelischi.

In raccoglimento, come cacciavite

La vita girerà –

E tu, tutto

Davanti a me, come succo

Sul palmo. Come quieta notizia,

Come sogno.

1925

*  *  *

O quieto scorrere del fiume,

Quando, respinte,

Le piogge ferrigne se ne vanno,

Come stretta di mano troppo evidente,

Rifiuto. Disperazione.

E altre afflizioni…

Capisci, capisci.

Tutto questo entra in un vortice:

Il suono di un ruscello

E una mano che scorre nel languore,

Placa il verso, placa.

Affinché insopportabilmente quieto,

Come scorrono le mani e un fiume,

Sia un sottile volume.

1925-1926

Neve. Casa. Cortile…

Neve. Casa. Cortile –

Blu. Di biancheria. Non oltremare.

La taccola incede. Sul tetto – un corvo

Come duro ferro.

Dall’arpa della veranda

Arrugginita – ardente – stretta

Dal profondo e levigato cortile, –

Del mio pensiero il consigliere?

Della mia altezza il consigliere?

Come fuoco di neve io dall’arpa della veranda,

Che mai

Dirai?

1926

(C) by Paolo Statuti