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Velemir Chlebnikov nella poesia di Gennadij Ajghi

11 Dic

 

 

Gennadij Ajghi

Gennadij Ajghi

Velemir Chlebnikov

Velemir Chlebnikov

  

 

Questa è la mia traduzione di un articolo del musicista e storico della letteratura russa Dmitrij Aleksandrovič Paškin, nato nel 1977. L’articolo è del 2002.

 

…Tra gli autori che hanno dedicato i propri versi a Velemir Chlebnikov troviamo anche Gennadij Ajghi, uno dei poeti contemporanei più interessanti. In occasione del centenario della nascita di Chlebnikov, nel 1985 egli scrisse un saggio, pubblicato in Russia soltanto nel 1994, dal titolo Foglie al vento della festa, inserendovi un ciclo di sette strofe basate su un tema unico, con una propria valenza creativa e una profonda autoanalisi. Fanno da contrappunto a questi versi l’immagine degli occhi azzurri: “…e risplende l’anima dagli occhi azzurri…”, “…innumerevoli e solitari – gli occhi di Velemir…”. Tutto il testo del ciclo si tinge di azzurro, fin dalla prima strofa. Una delle fonti di questa immagine la troviamo nella biografia di Chlebnikov: la maggior parte dei contemporanei, descrivendo i lineamenti del poeta, invariabilmente si soffermavano su questo dettaglio degli occhi azzurri; basta ricordare il famoso paragone di David Burljuk “occhi come un paesaggio di Turner…” Per Ajghi gli occhi di Velemir sono limpide stelle; questa comune metafora assume un accento sorprendente, quando il discorso cade proprio su Chlebnikov. Questa profondità, purezza, qualcosa di primordiale, gli era insito, come a nessun altro; persone così diverse tra loro come Nadežda Pavlovič, Anatolij Marienhof, Vadim Šeršenevič, Ivan Gruzinov, – tutti vedevano nei suoi occhi come lo splendore dell’eternità o, più esattamente, una certa atemporalità. V. Šeršenevič: “Chlebnikov fissa lo spazio con i suoi occhi abbagliati”; N. Pavlovič: “Era sorprendente. Proprio gli occhi di un bambino e di un chiaroveggente”…Ma in Gennadij Ajghi gli occhi costantemente si trasformano e assumono i lineamenti del volto…: “e sempre più luminosa è l’immagine, sempre più diafana…” Ciò che colpisce è che il volto di Chlebnikov risulta in qualche modo anche il volto di Ajghi. “In ogni sua pagina-quadro appare il volto del mondo, il volto di Dio…”, scriveva V. Novikov. E nella seconda strofa del ciclo dedicato a Chlebnikov, egli dice: “anch’io sono un po’ il volto!” – Ajghi guarda Chlebnikov e vede se stesso; il poeta a un tratto mostra non semplicemente l’affinità creativa o la comunanza delle concezioni, no, Ajghi vede in sé e in Chlebnikov lo stesso Volto: quello della Poesia, dell’Universo, l’immagine dell’infinito…In Ajghi troviamo un gran numero di richiami a concrete creazioni di Chlebnikov. Un altro refrain del ciclo è rappresentato dalle parole ripetute due volte: “ferito dalle pallottole assonnate di Chlebnikov”… La profondità dell’immagine si decifra soltanto attraverso un richiamo a un contesto storico. Ajghi come studioso era sicuramente a conoscenza della reazione di Majakovskij (riferita da Roman Jakobson), dopo aver letto un frammento del poema Sorelle-folgori di Chlebnikov: “Ah, se sapessi scrivere come Vitja!..” Per Majakovskij una confessione decisamente fenomenale, unica, assolutamente priva di analogie! E ciò fu detto a causa dei seguenti versi di Chlebnikov: “Dalla strada dell’alveare//Pallottole come api.//Vacillano le sedie…” Da queste pallottole risultò ferito anche Ajghi: egli fece esattamente eco alle parole sfuggite a Majakovskij, stendendo attraverso decenni il filo del riconoscimento e dell’entusiasmo per l’acutezza e la precisione della frase poetica di Chlebnikov. Ma il refren conduce oltre; nel finale del ciclo sono indicate le circostanze e il luogo dell’azione: la periferia di Mosca e la necessità di alzarsi il giorno dopo alle nove del mattino. Organizzando con questa indicazione un particolare cronotopo, Ajghi sposta il testo in una realtà del tutto diversa, nel mondo del sonno, gettando un ponte dalla realtà del lavoro notturno, finché è buio, al mondo ultraterreno e sonnolento dell’ispirazione poetica…

Il tema del sonno occupa nella poesia di Ajghi un posto del tutto particolare, è uno specifico stato della coscienza, è la chiave per capire tutta la sua creazione; egli stesso dice: “Il sonno per me è un genere…” Nel ciclo Foglie al vento della festa, non possiamo non rilevare la parola “дорози” (strade) dell’antico slavo, anziché “дороги” (strade) del russo moderno, usata da Chlebnikov nella sua poesia O Rus’, sei tutta un bacio nel gelo.. (1921) e ripresa due volte da Ajghi nella seconda strofa del ciclo tra virgolette. Anche qui egli mostra in primo luogo ancora un’altra fonte chlebnikoviana del suo “colorito” poetico e, in secondo luogo, si serve di un tratto tipico della poetica di Chlebnikov: l’amore per i termini del vecchio slavo, per l’antico russo. Non a caso appare anche la frase sulle “leggi del tempo” e l’immagine della struttura del verso, così importante per la tarda creazione di Chlebnikov.

Il ciclo del giubileo è non solo un omaggio al Budetljanin, ma anche una riflessione sulla creazione poetica nella sua categoria superiore, una riflessione sulla eterna e creativa autoespressione dell’anima. Svelando di poesia in poesia tutti i nuovi tratti della creazione di Chlebnikov, Ajghi al tempo stesso mostra il suo ritratto e il colloquio acquista qualitativamente un’altra dimensione: il discorso si avvia subito in nome di due anime affini che contemplano l’eternità: in nome di Ajghi-Budetljanin, in nome del Poeta. Immergendosi interamente nella propria creazione, Ajghi, come Dante dietro a Virgilio, procede dietro a Chlebnikov – guida, esamina l’occulto, dove trova non tanto un alleato, quanto le stesse profondità dell’Io. “E i suoi sogni – sogni di beatitudine”, scriveva l’autore a proposito di Chlebnikov. Tale beato e puro suo sogno di Velemir, sogno di se stesso e, in fin dei conti, dell’Anima cosmica, primordiale, traspare dai versi di Gennadij Ajghi, asceticamente parchi, ma brucianti come acido cloridico, vaghi e irritanti , come il ricordo dei sogni dell’infanzia.

 

                                                                               Dmitrij Aleksandrovič Paškin

 

Gennadij Ajghi

 

Foglie al vento della festa

(Nel centenario di Velemir Chlebnikov)

 

1

il fuoco come esclamativo di Chlebnikov

2

con l’azzurro dell’anima di Velemir

tagliano infantili – candide

con suono innocente strade *

è la voce di un bambino e il saggio

sguardo di un contadino! e le strade

nello stesso Campo – Russia

si uniscono e divergono:

con l’immagine lontana di Velemir!

anch’io sono un po’ il volto! talvolta

come se dal dolore già quasi musorgskiano!

e tagliano – come curano – la tristezza in taciti campi

nelle strade del volto chinato – in questo minuto

dall’azzurro celato – le strade *

 

3

 

ferito dalle “pallottole assonnate” di Chlebnikov

sussulto – visibile

dagli angoli – creati con impulsi

dalla frana del sonno! – schiarendosi

di bianchezza – interrotta da una quantità

di immagini dell’anima dalla profondità dell’oblio

penetranti – senza volti

 

4

 

ma le stelle

limpide (ed eterne saranno

se

il Tempo si annullerà) limpidi

innumerevoli e solitari –

gli occhi di Velemir

l’Ultimo

il Primo

 

5

 

“l’intelaiatura io ho posto” tu stesso dicevi

delle poetiche travi

di tronchi di metafore che splendono – solide

con suono vasto – naturale

come l’aria – nel tempo della messe!

puro legname “da lavoro”

più del novantapercento

nel quale il tritume degli obbligatori “poetismi”

non c’è – come non c’è il lusso

in una casa di contadini

 

 

6

 

e risplende l’anima dagli occhi azzurri

dalla rete delle illusorie “leggi del tempo”

e sempre più luminosa è l’immagine: sempre più vicina

e più trasparente che ha amato la spiga come un bambino

 

7

 

ferito dalle “pallottole assonnate” chlebnikoviane

finisco di dire – sussultando

per le estremità e i distrutti centri

del sonno che vede e del sonno

che non vede – disperdendo – me

e l’operazione – svegliarsi

il 29 alle 9

di mattina a Mosca – in periferia

 

23-29 settembre 1985, Mosca

 

 

* Nel testo russo: „дорози”, anziché “дороги”.

(Versione di Paolo Statuti)

Velemir Chlebnikov

O Rus’, sei tutta un bacio nel gelo!

O Rus’, sei tutta un bacio nel gelo!

Azzurreggiano le notturne strade. *

Da un lampo azzurro le labbra sono fuse,

Azzurreggiano insieme quello e quella.

Di notte un lampo si sprigiona

A volte dalla carezza di due bocche.

E le pellicce a un tratto avvolge agile,

Azzurreggiando, un lampo senza sensi.

E la notte splende saggiamente e nera.

 

Autunno 1921

 

* Nel resto russo: “дорози”, anziché “дороги”

 

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

Velemir Chlebnikov

13 Feb

 

 

IL GENIO DEL FUTURISMO RUSSO

Velemir Chlebnikov

 

   Velemir Chlebnikov, universalmente considerato uno dei più geniali creatori d’avanguardia del XX secolo e il più grande futurista russo, accanto a Majakovskij, nacque il 28 ottobre 1885 nel governatorato di Astrachan. Dopo aver compiuto gli studi ginnasiali a Kazan, nel 1903 si iscrisse alla Facoltà di matematica della stessa città. Il 5 novembre di quell’anno prese parte a una manifestazione studentesca e fu arrestato. Nel 1908 riprese gli studi all’Università di Pietroburgo, questa volta nella Facoltà di scienze naturali. Nel 1909 si trasferì prima alla Facoltà di lingue orientali e quindi a quella di filologia slava, dalla quale verrà espulso per non aver pagato le tasse universitarie. Nel 1910 aderì al cubofuturismo russo e scrisse Il vivaio dei giudici, manifesto del movimento. Coniò per i cubofuturisti il termine “budetljane”, ossia banditori del “Budu”, del “Sarò”. I ricordi di molti scrittori di quegli anni sostanzialmente concordano: Chlebnikov è inerme come un bambino, si trascura, è incapace di difendersi. Dominato dalla passione creativa, trascorre intere giornate in biblioteca, immerso in elucubrazioni matematiche. Lavora all’opera Le tavole della Sorte, un trattatello di equazioni di storia, attendendo alla ricerca dei rapporti numerici che reggono le ”secolari altalene dei popoli”, e ingegnandosi a scoprire la periodicità degli avvenimenti cruciali.

   Scrive versi su ritagli di carta, con una calligrafia minuta, apportando numerosi ritocchi. E’ in balia del demone della creazione e lo sarà per sempre. Lavorando dimentica anche di mangiare. Conserva le poesie in una federa. Ne smarrisce molte. Ma ciò non conta: la cosa principale per lui è il fatto stesso di creare. Nel 1916 fonda l’Associazione dei “317”, detti anche Presidenti del Globo Terrestre, ed è eletto a capo della stessa. Tale associazione comprendeva tra gli altri Majakovskij, Malevič, Burljuk, in una pittoresca congrega di artisti, poeti, aviatori, politici.

   Nel 1919, durante la guerra civile, fu arrestato a Charkov dai bianchi, perché scambiato per una spia e finì poi in un ospedale psichiatrico. Patisce la fame e contrae due volte il tifo. Fa l’impressione di un uomo estremamente trascurato. Gira come uno straccione, malaticcio, affamato e pieno di insetti. Eppure scrive molto. Nel 1921 partecipa come soldato dell’Armata Rossa alla campagna di Persia. Descriverà questa sua esperienza nel diario poetico La tromba del Gul mullà. Nello stesso anno lavora a Pjatigorsk come guardiano notturno, comincia a curarsi, poi interrompe le cure e si reca a Mosca, dove prende alloggio presso il pittore Pёtr Miturič. Nella primavera del 1922, assieme a Miturič che vuole salvarlo, si reca nel governatorato di Novgorod. E’ sempre più debole, ma si trascina dietro ostinatamente il sacco dei manoscritti. Il 28 giugno 1922, completamente disfatto, muore tra atroci sofferenze. Aveva 37 anni. Sulla sua tomba Miturič scrisse: “Primo presidente del Globo Terrestre Velemir I”.

   Chlebnikov: sciamano, santone dei cubofuturisti, epico e lirico, drammaturgo, pensatore e teorico, disseminava letteralmente i suoi manoscritti nelle città, nei campi e nei boschi. La sua produzione pubblicata dopo la morte occupa sette grossi volumi. Ciò che si è salvato, grazie ai suoi amici, è tuttavia soltanto una minima parte di ciè che scrisse. Tra le opere più importanti, apparse quando il poeta era in vita, ricordiamo La creazione e L’eletto, del 1914, oltre alle Tavole della Sorte e al poema Zangesi, pubblicati nel 1921.

   Chlebnikov ebbe un sentimento profondo e immediato della natura della lingua russa. Tutto servì al poeta come materiale per costruire un nuovo universo di parole. Questo universo è certamente la creazione di un genio, ma non è fatto per il vasto pubblico. Molti suoi componimenti, infatti, sono intraducibili. 

 

                                                                          

 

La perquisizione notturna è uno dei principali poemi di Chlebnikov. Nei giorni del terrore rosso un drappello di marinai irrompe in una casa, dove viene fucilato un giovane nemico di classe. Il Capo che lo ha ucciso è sconvolto da come quello rideva «incurante davanti al caricatore della morte». Sul luogo dell’omicidio si organizza una gozzoviglia. Sbalordisce la dovizia di termini usati da Chlebnikov. Il poeta si serve degli strati più diversi della lingua russa, tra cui il gergo dei marinai e quello della strada. La costruzione del poema si basa sulle continue ripetizioni del crudele racconto del capo. «Una pallottola in testa, eh?» – dice al marinaio il giovane condannato a morte, e poi aggiunge: «Addio, minchione! Grazie per il tuo sparo». Ubriacandosi, il Capo ripete cinque volte il suo racconto sull’uccisione. Il critico letterario M. Poljakov scrive: «…Il Cristo che guida la marcia dei soldati bolscevichi ne I dodici di Blok, in questo poema di Chlebnikov non c’è, non parteggia né per i bianchi, né per i rossi, ma nella sua ira incenerisce gli assassini. Si può dire che il Capo provoca Dio, attirando il fuoco su di sé. Egli è una figura tragica, a lui Chlebnikov ha dato una parte della sua anima: oggi egli guida una «banda di santi assassini», domani potrebbe benissimo partecipare alla rivolta di Kronstadt dei marinai contro il governo bolscevico. Ma non sarà mai uno degli «acquisitori» – odiati da Chlebnikov – che camminano quatti quatti dietro gli «inventori», e conoscono una sola parola: mangio».

 

                     

                                                                                                           Paolo Statuti

 

La perquisizione notturna

Traduzione di Paolo Statuti

                                                                 

Allerta!

Pronti a sparare.

Sotto, ragazzi:

A destra il 38.

Bussa più forte!

–  Agli ordini!

– Allerta!

Dentro!

– Prego, prego,

Benvenuti!

– Mare, alt!

– Poche ciance, madre

Testa grigia,

Il mare non lo freghi.

Apri gli occhi.

E’ qui il 38?

– Sì, benvenuti,

Cari compatrioti! –

Trema la testa d’argento

Viva a stento.

– Madre!

Il nome!

Su, facci strada, mammina!

Rispettabile

Mamma!

Non ti agitare,

Andrà tutto bene.

Dov’è la selvaggina?

– Tu! Mettiti alla porta.

– Fatto – la soffitta.

– Tu, qui!

– Agli ordini!

– Avanti, mare,

Gagliardi!

Si nascondono i codardi…

Hanno trafitto,

Sono arrivati in tanti,

Hanno agguantato i furfanti,

I bianchi non l’hanno fregati.

– E tu, madre, sveglia!

Muoviti!

Anche i vecchi possono sedersi

Sulla punta della baionetta.

E il maritino, ci aspetta?

Tira fuori i furfanti,

Per me, vecchio

Lupo di mare!

Sento col naso –

Ho fiuto, io –

Un fiuto di segugio:

La selvaggina c’è.

La caccia andrà bene.

– Fratello, annusa.

Odore di selvaggina bianca.

Ho fiuto, io.

Segugi-fratelli, fatevi sotto!

– E’ tutto quello che ho –

E anche un po’ di perle.

– Quanti pezzi?

– Quaranta?

– Bastano per la cena!

Non gracchiare!

Prendi, arraffa!

Fratello, agguanta!

Tutto qui?

Non siamo signori!

Prendi

A volontà.

Non siamo zar

Da starcene a sognare.

Prendi, arraffa, prendi, arraffa!

Ehi, mare, agguanta come aquila!

– Agguanta, sotto!

Prendi a volontà!

– Vecchia, suonaci una polca.

– La tristezza non ti aiuterà.

Voce:

Mamma, mamma!

– Madre, madre!

Parla!

Fuori la canaglia bianca!

– Domani si riunisce il soviet.

Io sono vecchia, marinai!

Rosso, bianco,

Ossa bianche.

Non capisco, scusate.

Ho i capelli bianchi.

Sono una madre.

– Pam! Pam!

Sparo, fumo, fuoco!

– Chi ha sparato?

Fermo! L’arma, su le mani!

– Facciamogli la festa!

– Giovane, contro il muro.

Così! E su la testa!

Chioma grano spigato,

Baffetti oro filato.

– Vicino alla stufa, cane,

Togliti le pelli umane!

– Scusami, lupo di mare,

La mira sbagliata:

La mano tremava,

Pallottola pazza.

– Ride, coraggio o arroganza?

Lo facciamo fuori? –

– Una pallottola in testa, eh? Fratelli compagni,

Gente del mare?

Si dice che siete generosi. –

– Proprio così!

Il mare può,

Pietà il mare

Può mostrare!

– Voltati, vecchia.

– Una pallottola in petto

Al signorino bianco?

– Al mio figlio diletto?

– Via la camicia, servirà a un altro,

Nella fossa si può anche nudi.

Niente signorine nella fossa.

Giù i pantaloni

E girati.

Togliti tutto! E non dormire –

Avrai tempo. Ti addormenterai subito,

per non svegliarti più!

– Addio, mamma,

Spegni la candela sul mio tavolo.

– Tu, porta via gli stracci. Puntate! Uno! Due!

– Addio, minchione! Grazie

Per il tuo sparo.

– Ah, è così!… Per il bene del popolo.

Tra-ta-ta!

Tra-ta!

– Grazie, ma per cosa:

Per un ovetto di piccione

O di rondone?

Eccoti un indovinello!

E’ servito il colombello,

Le gambe ha steso.

Era una buona pappa

E un bel furfante.

Ancora due spari:

Uno sul pavimento,

E uno al creatore!

Ecco! Qui!

L’abbiamo spedito all’inferno.

Noi col fuggente mare

Dietro le allegre spalle

Sulla camicia bianca,

Sulla camicia azzurra,

Vedremo – putupum!

I pantaloni ho più larghi,

E il ferro nella mano,

Non un castoro argentato,

Ma il mare turchino

Il forte collo ha cinto

E la bianca camicia

All’inferno!

– Che dici, tirarlo su?

Portarlo via?

Lasciarlo lì non è bello.

– Fregatene! Che c’importa!

– Mamma!

Guarda che gioiello:

Più di venti non può avere,

E i capelli – di neve!

E gli occhi neri,

Così vivi!

– Il mare porta con sé la neve.

In un quarto d’ora sono incanutita.

Se non vi piace guardare una vecchia,

Non guardate, voltatevi!

Vladimir! Volodja! Vladimir!

Mamma! E’ nudo!

– Bellezza!

I cadaveri non hanno freddo!

E i morti non si vergognano.

– Datevi da fare! Basta!

– Vigliacco! Ride dopo la morte!

– Una camicia così

Io non l’ho mai indossata – buona!

E senza macchie di sangue.

Stoffa come si deve.

E’ entrato e la mano sulla spalla.

– Fratello! Ho fatto a pezzi un rettile!

E’ steso in soffitta.

Vicino alla mitragliatrice.

– Eh, eh!

– Dov’è mia madre?

– Bianca bellezza,

Sei così imbiancata

Ancor prima del nostro arrivo?

Il vento del mare non aveva ancora soffiato,

Di mare e di vento non c’era ancora odore,

E qui era già nevicato

Sul solaio e sulle teste.

Sporgeva la canna della mitragliatrice

Da sotto il piumino?

Non fa niente, non fa niente.

All’inizio di primavera

Un fiore di ciliegio

Ti è caduto sulla testa come neve.

Scuotila, i petali cadranno,

Cara signorina.

Una bella coltre

Di fiori per la bara.

– Ecco tutto!

– Fratello!

Perché la tormenti?

– E adesso,

Cara signorina in bianco,

Al muro!

– Questo? Quello?

Quale?

So-no pron-ta!

– E allora, al diavolo!

– Fermo!

Basta col sangue!

Vattene bambola!

– Sangue? Oggi non c’è sangue!

C’è broda, broda, solo broda.

Nella stalla umana

Il sangue è annerito.

E’ di suo fratello

O del marito.

– Vladimir!

– Mamma!

– Se avessi detto “papà”,

Sarebbe stato più spassoso!

E’ alle corse? Di’ un po’,

Fra i trottatori di Orёl?

Al trotto e poi al galoppo!

O forse ama gli ostacoli?

E supera tutti nei salti?

Bambola, va’ via,

Vattene, presto!

Levati di torno!

Qui ci sarà baldoria.

Non piangere, sorellina,

Questo non è posto per i liberi.

Anche noi abbiamo sorelle.

Nei villaggi e nei boschi,

E non nelle grandi città.

Vattene tranquilla, donna,

Per la tua strada.

– Oh, c’è uno specchio, mi raderò!

Tempo ce n’è.

Specchio deformante,

Ceffo truce.

Dalla finestra, ragazzi,

Tutti questi stracci –

Qui non gli servono più.

E qui un mare faremo,

Con le onde spazieremo.

Manca solo un gabbiano.

Al diavolo lo specchio –

Un pugno e s’è spezzato!

– Ah, mi sanguina la mano.

Lo specchio è un calamaio di rosso inchiostro.

– Con una scheggia di specchio che soldato!

A volte gli specchi sono crudeli. Essi

Ostinatamente guardano,

E i giudici qui non servono –

Più buio!

– Ehi, amico!

Dammi un fazzoletto!

– Vladimir!

Volodja!

– E’ morto! E’ morto

Oggi!

E’ morto e basta!

Non ti sentirà!

Piegato sul pavimento

Riposa in pace.

E non respira.

– E questo cos’è? Una bella tastiera

Per la gioia della signorina bianca?

Siede qui la sera

E pensa al marito,

Strimpella sottovoce.

E il nero tasto

Dietro al bianco risuona

E lo segue, come la notte

Il giorno con ostinazione.

Chi di voi sa sonare?

– Ma si può…

Accarezzarlo un po’

Con la canna o con il calcio…

Guardate, fratelli, ha, ha

Correte qua,

Ci sarà un rombo, un tuono e un canto…

E un lamento.

Come se in sordina

Guaisse presso il recinto un cucciolo.

Un cucciolo dimenticato da tutti.

E di cannoni il terribile schianto si leverà,

E un ghigno, una risata subacquea e di rusalka.

Sono accorsi. Brusio di corde,

Ghigno di corde, un riso sommesso.

– Con il calcio bam!

Bam con il calcio! – Ridi, mare!

Mare, ridi! Grosso pugno della bufera

Oggi va’ sui tasti…

Sulle trincee del nemico i proiettili… Fuoco!

Nelle cantine la serena festa della Madonna,

Che i connazionali trascorrono in silenzio.

Dapprima la miseria nutrono

Con il bianco corpo,

E poi i vermi.

Due cambi, due camicie:

Una più stretta dell’altra.

Un solo piatto per due bocche.

Ascolta, hanno risonato le corde!

Volano incontro alla morte.

A lungo risonerà

Della corda il rame.

– Ancora un colpo,

Dai!

Ronza come api,

Quando l’apicoltore prende il miele.

Bam! Bam!

– Ben fatto, marinai.

La nostra opera marina:

Spezza e abbatti!

Spezza e annienta!

Rompete, schiantate.

Senza tregua saccheggiate,

Selvaggi del mare!

Coraggio! Animo!

Non invano siamo ingrossati,

Qualcuno aggiusterà,

Ma questo ciarpame,

Questa cassa dove ulula un cucciolo,

Sul lastrico,

Dalla finestra!

Così,

Spaventiamo le vicine!

– E’ l’opera dell’avanzante,

Burrascoso mare.

A modo nostro avanti,

Non come mendicanti.

A pezzetti

Bbaam-ppuum!

– Oggi il mare è scatenato,

Il mare infuriava,

Il mare s’è infuriato.

Una tale forza.

– Non ha schiacciato nessuno?

– Ma no!

Soltanto tre formiche,

Uscite in ricognizione.

Un polverone. Che forza!

– Dove hai il fucile, amico?

Ragazzo, lo prendi quel corvo?

– Subito!

Pam!

Servito.

Colpito?

– Caduto.

Crepato.

– Dov’è la vecchia?

Madre, ci sei?

Qualcosa da pappare!

Vino e salmone!

E una tovaglia bianca.

Fiori. Bicchieri.

Sarà un banchetto coi fiocchi.

E perché sia più ricco

Anche carne e arrosto,

O ti piegheremo a ferro di cavallo!

– Ragazzi, papperemo,

Mangeremo, fratellini, berremo.

Ci abbotteremo.

Adesso comincia il lavoro-mamma!

Scricchioleranno le mascelle.

Eppure odora.

Dai morti lo spirito esala.

– Vladimir!

– Le serve Vladimir – geme!

E a noi non pensa, non ci vuole!

Dai, prendiamola un po’ in giro:

– Siamo qui!

– Sono qui, Olja!

– Sono qui, Nina!

– Sono qui, Veročka!

– Miao!

– Che spasso!

Con la voce sottile,

Dai, grida come una befana.

– Ragazzi, non scherzate

Con la bara, con la morte.

– Hai colpito bene

Col fucile.

Che canto,

Che tintinnio, che suono e come un uccello,

morendo, è piombato giù.

Come il mare in burrasca.

Guarda, sulla porta una targhetta:

“Si prega bussare”.

Qualcuno ha messo un “r” – è diventato:

“Si prega russare”

Sulla porta della fresca bara,

Dove sono le sorelle del morto e le vedove.

Ha-ha-ha!

Bella trovata.

– Però, ha chi

Rimpiangere la vedovella

Dai capelli grigi.

Noi, vento, le abbiamo portato la neve.

Vento del mare.

Il mare è il mare!

Proprio così, ragazzi,

Noi passiamo come la morte

E la sventura.

Il mare è con noi!

Il mare è con noi!

Cadaveri a bizzeffe.

Mare dilagato,

Mare – narici strappate,

Brigantesco,

Sfrenato.

Rosso di bufera,

Mare sfrenato,

Mare di Pugačёv.

– Col mio fiuto di segugio

La preda bianca ho sentito.

Un cervo! Lo sento,

Puzza di bianco!

E ha sparato!

Dietro la tenda stava,

Era in agguato il cocco di mamma.

Ha sbagliato la mira

E ride.

Io a lui: – “Fermo là, ragazzino!”

E lui:

“Una pallottola in testa, eh?”

“Proprio così”, dico.

– Tra-ta-ta!

Così allegramente

Ha scosso i capelli,

Ride.

Quasi chiedesse il prezzo,

Mercanteggia.

Questione di commercio,

Questione nota,

Per tutti una fine sola,

Due non ci sono.

All’inferno!

E fregatene.

“Proprio così”, dico,

“E’ possibile,

Pietà il mare

può mostrare”.

– Tra-ta-ta!

– E’ andata così:

Fa il ragazzino:

– “Una pallottola in testa, eh?”

“Proprio così” –

Rispondo.

Tra-ta-ta! Fumo! E l’aria s’è infocata.

Adesso giace l’orochiomato,

Perché la sorella, piangendo, lo baci.

“Micetto, micetto mio,

Micetto d’oro”.

– Ragazzina, dove vai?

Lasciapassare per vedere il micetto!

Alt!

– Ehi, aspetta,

Non c’è il lasciapassare per vedere il micetto.

Dalla finestra!

– Come ti chiami?

– Nataša.

– Noi pensavamo bagascia,

Suona meglio.

– A tavola, gente.

– Dritta come un fuso

La vecchia si regge.

Vladimir era davvero suo parente.

Il figlio. E’ cupa e funesta.

“Sotto la quercia, quercia, quercia!”

Sono quasi le sei.

Versiamoci da bere, compagni,

Per sollevarci un po’!

Sciaborda!

Rumoreggi il mare,

Mare dilagato!

“Nuove nozze celebra

Egli è allegro e ubriaco… e ubriaco”…

Che giorni!

– Seduti, fratelli, bagniamoci la gola!

Alla tavola che si apparecchia da sola.

“Sotto la quercia, quercia, quercia!”

Seduti, fratelli!

– Fumiamo?

– Fuoco!

– Oh, dio, dio!

Dammi da fumare.

La mia s’è spenta.

S’è consumata a poco a poco.

Vecchio, tu non fumi – là in cielo?

– Tace.

Il vecchio non s’è mostrato.

Non è uscito dalla trincea.

Si nasconde nelle nuvole.

Non importa. A noi la vodka mare dilagato.

A dio – le nuvole. Non litigheremo.

Ecco dio nell’angolo –

E sul petto un altro

Con la corona di spine,

Inchiodato alla tavola, fatto,

Inciso

Con polvere turchina sulla pelle –

Usanza dei mari.

Egli fuma una candela…

Meglio della nostra – di cera!

Sì, egli nell’angolo guarda

E fuma.

E spia.

Potesse ridursi

In trucioli per il samovar!

Sminuzzarsi in piccole schegge.

Carbone di prima qualità!

Non gli servono a niente

Quegli scuri occhi turchini,

Di cui si ha voglia d’innamorarsi,

Come di una fanciulla.

E di fanciulla dio ha il volto,

Solo che è barbuto.

In due parti

Fluisce la barba,

Come scuro intreccio

Di greggi presso il lago,

Come di notte la pioggia,

Occhi come prealba cèruli,

Profetici e sereni,

Severi e bellissimi,

Teneri come parole inespresse,

E serenamente rivolti

Con segreto rimprovero,

A noi, all’intero stuolo

Di santi assassini,

Alla nostra gozzoviglia

Di santi assassini.

– Attenti, verrà giù

E ne farà una delle sue.

Lo incontreremo, sbatterà le ciglia,

E ti accenderai come bomba incendiaria,

Occhi scuri come i cieli,

E c’è un segreto profetico in essi

E intorno tanta pace.

Laghi di azzurro pensiero!

– Una pallottola in testa, eh?

Me la pianti in testa, dio verginella,

Anche tu hai sette colpi.

Con i grandi occhi azzurri?

E io dirò grazie

Per le lettere e i saluti.

– Mare! Mare!

Egli è d’accordo!

Ha sbattuto le ciglia,

Come un uccello le ali.

Gli occhi mi volano dritti nell’anima,

Volano e incalzano, frullano e frusciano.

E severo come il supplizio

Egli mi fissa in un freddo ostinato!

Da spaventosi racconti sbarrati,

Come uccelli m’incalzano

Gli occhi azzurri dritti nell’anima.

Come due grandi uccelli marini, azzurri e cupi,

Nella burrasca, due procellarie, messaggere di tempesta.

E frullano e frusciano con le ali! Volano! Si affrettano.

Da parte a parte! Da parte a parte! Si tuffano in fondo

All’anima.

– Sì… sono ubriaco… Anche questo è vero…

Ma voglio che egli mi uccida

Subito e qui sulla tovaglia

Macchiata di vino, piena di vetro.

– Brigata-masnada!

Santi assassini!

Voi con le camicie bianche,

Azzurreggiando di mare rigato,

E i pantaloni larghi, mozzi e neri,

E le azzurre ali spiegate, dietro il fiero indomito collo,

Simili ai flutti del mare e alla risacca,

Al vento turchino del mare,

E come il volo della nera rondine sulla nuca,

Sulla scritta nota, della nave il nome.

Oh, idioma della patria marina, fortezza galleggiante,

E nome della libertà dello stato!

Brigata-masnada,

Vagabondi del mare!

Tu batti i sordi i piedi

Sulla nave e sulla terra,

E nell’ora della sventura non conosci il rollio,

Anche se non lo temi in mare.

Oggi esaudisci la mia preghiera:

Voglio cadere ucciso sul posto,

Voglio che cada il fuoco mortale

Dall’angolo dell’icona. –

Da lì nereggi la bocca del fucile

Per dirgli – minchione!

Al cospetto della fine.

Come quel ragazzo mi ha gridato,

Ridendo incurante

Davanti al caricatore della morte.

Nella sua vita ho fatto irruzione e l’ho ucciso,

Come fosco nume della notte.

Ma egli ha vinto con una squillante risata,

In cui i vetri della giovinezza tintinnavano.

Adesso io voglio vincere dio

Con un’allegra risata della stessa forza,

Benché tutto mi sia cupo

E penoso. E difficile.

– Dio! sono ubriaco… “S’è sbronzato…il nonnino”…

“E’ ora di tornare a bordo”. – Andiamo!

– Sono ubriaco, ma ascolta…

Dai, fumiamo!

E parliamoci un po’ a cuore aperto.

Molti miracoli hai fatto,

Solo che non sei stato un padre.

Macché! Io lo so!

Tu sei una ragazza, ma con la barba.

Tu cammini nel campo e cogli i fiori.

Intrecci ghirlande

E nelle onde poi ti specchi.

Tu occhicèrulo di campagne,

Di campi e villaggi,

Con la barbetta ricciuta –

Ecco chi sei.

Fanciulla! Vuoi

Che ti regali un profumo?

Fisserai tu

Il giorno dell’incontro,

Ed io verrò coi fiori

Elegante e rasato,

Sognante.

Poi sul lungomare,

Sul litorale passeggeremo.

A braccetto,

Come si fa?

Su, baciamoci.

Ci abbracceremo e ci daremo del tu.

Tu che sei nei cieli.

– Amico, aspetta,

Non andartene, non arrabbiarti!

– Rusalka

Dai vaghi occhi possenti,

Bevi un po’ di vodka!

Così.

– Amico!

Dove ci vedremo?

Nella fossa comune?

Io porterò da bere,

A dio offrirò l’aràk

E inviteremo là le puttane.

Nell’altro mondo

Ricevo dalle tre alle sei.

Va’ senza paura:

I bambini temono,

E noi ormai giovinezza addio.

Poi il santo faremo ubriacare,

Odessa-mamma intoneremo.

O dei, dei, fateci fumare!

Che altro c’è da dire.

Bevi, nonnino, là nell’angolo!

Ah!

Egli muove le labbra

E una parola ha pronunciato…nel linguaggio dei pesci.

Egli ha detto una parola, terribile parola,

Egli ha detto una parola,

E questa parola, oh, fratelli,

E’: “Incendio!”

– Sei ubriaco? – No, ubriachi siamo noi.

– Arrivederci all’altro mondo.

– Una pallottola in testa, eh?

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

– Vecchia! Scaltra megera!

– Tu hai appiccato il fuoco.

Bruciamo! Aiuto! Fumo!

Ma io sono contento e tranquillo.

Sto qui, mi arriccio i baffi e tutto è a posto.

Salvatore! Sei in minchione.

– Presto! Capo, presto!

Col calcio dei fucili.

La porta è di ferro!

Spararci?

Soffocarci?

 

La vecchia (mostrandosi):

Come volete!

                                                         7-11 novembre 1921

                                                                  Pjatigorsk

 

 

 (C) by Paolo Statuti

 

Paolo Statuti – La traduzione della poesia

15 Gen

La traduzione poetica

   Le mie prime traduzioni di poesia risalgono all’inizio degli anni ’70, quando frequentavo la facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne (ramo slavo) all’Università di Roma. Un giorno chiesi all’assistente del mio professore Angelo Maria Ripellino, quale fosse secondo lui la migliore traduzione italiana del poema “I dodici” di Aleksandr Blok. Egli me ne indicò un paio ma poi, vista forse la mia faccia poco convinta, aggiunse con una velata punta d’ ironia: “Se queste versioni non la soddisfano, può sempre tradurselo da sé”. Accolsi senza indugio l’invito e il risultato fu una nuova versione del poema, che piacque subito e venne pubblicata dalla “Fiera Letteraria” (F.L. n. 18, 13.6.1971). Al poema di Blok hanno fatto seguito numerosi altri “tentativi” personali, a detta di molti pienamente riusciti. Tra i primi successi conseguiti in questo campo, mi piace ricordare l’antologia di poeti polacchi contemporanei, annessa alla “Guida alla moderna letteratura polacca” di Jerzy Pomianowski (Bulzoni Editore, Roma 1973), nella quale figurano 60 poesie di autori diversi nella mia versione.

   Oltre ai poeti polacchi, tra gli altri da me tradotti ci sono: Edgar Allan Poe, Thomas Moore, santa Teresa d’Avila, J. Wolker, Karel Havliček Borovsky, A. Blok, V. Chlebnikov, E. Bagrickij, W. Chodasewicz, V. Inber. L’ultimo mio importante lavoro è uscito a novembre del 2010: Marek Baterowicz, Canti del pianeta, Ed. Empirìa, Roma. Attualmente mi sto cimentando con la poesia di Boris Pasternak, un poeta che amo molto e che mi consente in modo ideale di affinare il mio impegno e il mio entusiasmo.

   Considero un testo poetico da tradurre come un testo musicale da interpretare, ma mentre il virtuoso concertista deve fare appello unicamente alla sua tecnica e sensibilità artistica, il traduttore deve, in aggiunta, utilizzare un diapason diverso da quello del testo originale, nella speranza di raggiungere, per quanto è possibile, lo stesso effetto e gli stessi pregi nella sua propria lingua. Non ricordo chi disse: “La traduzione è il rovescio di un tappeto: i rabeschi sbiadiscono. E tuttavia i traduttori si sforzano di rendere la vivezza dei colori e le sfumature dei toni”. Ad esempio, traducendo “Il corvo” di Edgar Allan Poe, ho cercato di riprodurre il più fedelmente possibile il suggestivo e arduo gioco di rime, assonanze, allitterazioni, la musica allucinante e patetica che pervade questa funebre canzone del rimpianto, lascio ad altri giudicare se ci sono riuscito.

   Si è scritto e si scrive molto sull’arte della traduzione poetica, e sulle possibilità e qualità della stessa esistono pareri diversi. Alcuni, come ad esempio Vladimir Nabokov nel suo articolo “Problems in translation: Onegin in English”, ritengono che ogni traduzione poetica sia una mistificazione, e che sia meglio limitarsi a fornire il senso generale, preferendo la traduzione letterale o addirittura in prosa. P.B. Shelley, perennemente insoddisfatto della sua traduzione del “Faust” di Goethe, nella sua opera “Defense of Poetry”, si dichiara più a favore della imitazione, che della traduzione letterale. Egli intende l’imitazione come nuova creazione poetica e per questo raccomanda che il traduttore sia anche poeta, raccomandazione fatta anche da altri, come ad esempio il poeta russo Nikolaj Gumiliov nel suo articolo “Le traduzioni poetiche”. Questa a mio parere è una condizione molto importante, anche se ovvia. Però, secondo Shelley, il successo è un fatto casuale. Più spesso accade che il traduttore “adombra con il grigio velo delle sue parole la vivida poesia dell’originale e modifica il testo al punto che nelle mani del lettore non rimane altro che un caput mortuum”. In altre parole, qui più che la figura del traduttore-traditore, appare quella del traduttore-uccisore. Malgrado questi timori, Shelley come si sa, tradusse dal tedesco, dall’italiano e dal latino, sempre con grande passione, anche se non sempre pienamente soddisfatto.

   Oltre a questi pareri così autorevoli, ma piuttosto pessimistici, ce ne sono altri, secondo i quali, a certe condizioni, è possibile creare delle buone traduzioni poetiche. Artur Sandauer, critico letterario, saggista e traduttore polacco, scrive che “compito della traduzione poetica non è quello di abbigliare semplicemente il contenuto dell’originale con la veste di un’altra lingua, ma quello di crearne una nuova, quanto più possibile simile a quella del testo da tradurre…Il lavoro del traduttore della poesia consisterà quindi nel suscitare un’impressione simile a quella del testo originale…Costretti dalle condizioni della traduzione, che è sempre un sistema di compromessi, a volte rinunciamo ai valori secondari a favore dei principali…purché sia salva la generale identità di senso e stile”. Vorrei riportare ora un bel brano di una lezione dello scrittore polacco Jan Parandowski, dedicata alla traduzione letteraria: “Il traduttore, se vuole essere degno dei suoi autori, non può fare a meno delle proprie capacità creative, dell’inventiva, dello slancio, dell’intuito…Quanta bellezza lo attende per la sua fatica…E quanto è bella la fatica stessa!…E’ un fatto straordinario, una insolita e inebriante avventura. Scegliere la cadenza delle frasi, decidere quale tra dieci sinonimi sia proprio quello che rende il testo comprensibile…e gli dà una nuova vita – non di un automa, ma di una creatura come generata nella libertà dello sforzo creativo”. Proprio queste parole dello scrittore polacco spiegano, tra l’altro, perché io ami tanto tradurre la poesia.

   Mi rendo conto che realizzare una traduzione che uguagli perfettamente l’originale è pura utopia, o un caso molto fortunato, come dice Shelley. Personalmente cerco di ricreare con fedeltà il testo poetico, sia pure con certi inevitabili mancamenti. Mi piace conservare le rime, anche se ciò costringe a volte ad allontanarsi dall’originale e a creare nuove immagini, pur restando esse consone al pensiero del poeta e allo spirito del testo da tradurre. Sì, mi piace mantenere le rime perché esse, se non sono banali, costituiscono un’ulteriore sfida, un’ulteriore soddisfazione, e aiutano a conservare la musicalità del verso, come ad esempio in Pasternak.

   Da questo punto di vista, vorrei attirare l’attenzione di chi mi legge sulle difficoltà lessicali e fonetiche della bellissima e magica poesia “Trasformazioni” del poeta polacco Boleslaw Lesmian.

 

Boleslaw Lesmian (1877-1937)[044]

Trasformazioni

 

Soffocante era il buio e di brama – una morsa,

E il fiordaliso, schiarito da un lampo muto,

Trafisse le pupille ad un capriolo in corsa

Nel bosco, sorpreso da un occhio sconosciuto –

E il fiore, azzurrandolo, saltava capriolamente,

E alla fiordaliso guardava il mondo avidamente.

 

Un papavero, là, nel campo senza fine

Si scoprì, e con un grido privo di suono

Si trasanguò in un gallo in piume porporine,

E la scarlatta cresta scosse con frastuono,

E cantò nella notte con terrore insano,

Fino all’eco dei galli veri da lontano.

 

L’orzo, indoratosi d’anelito addensato,

Rizzò le spighe dalla rabbia avvelenate,

Si traschiacciò scricchiando in un riccio dorato,

E corse via pungendo verdi  barricate,

Guaì, e ai fiori tenne il broncio, inciprignito,

E nessuno saprà mai ciò che ha visto e sentito.

 

Ed io – per quale ortica or l’anima mi brucia,

E tra i campi, furtive, le mie gambe vanno?

Perché ora i fiori mi guardan con sfiducia?

Forse qualcosa oscura di me – chissà – sanno?

Che ho fatto per premermi le mani sulla testa?

Chi ero quella notte di cui più nulla resta?

 

   Nella mia traduzione ho cercato di ricreare ritmo, rime, metro e suono. A volte uniformandomi allo stesso Lesmian, ho dovuto inventare dei neologismi, come ad esempio “capriolamente”, “si trasanguò”, “si traschiacciò”, o usare parole non comuni, come “scricchiando” anziché scricchiolando o “inciprignito” anziché accigliato, o creare delle allitterazioni, molto frequenti nel testo polacco:…la scarlatta cresta scosse…si traschiacciò scricchiando…chissà – sanno.  Per via della rima, infine, ho cambiato  alcune parole (poche, in verità), ricorrendo quindi al “compromesso” di cui parla Sandauer.

   Potrei dilungarmi ancora su questo tema, ma mi sembra sufficiente quanto già scritto. Per concludere toccherò ancora una volta il tasto della musicalità, raccontandovi cosa avvenne a Nairobi verso la fine degli anni ’70, quando ero impiegato dell’Alitalia presso l’ufficio di rappresentanza per il Kenya. Un giorno l’Ambasciata Polacca organizzò per me un incontro di poesia. Qualcuno leggeva il testo polacco, mentre io leggevo la mia versione italiana. La sala era al completo e l’incontro riuscì bene. Al termine dello stesso l’ambasciatore  mi ringraziò e aggiunse: – Non capisco una parola d’italiano, ma il suono delle sue versioni mi è piaciuto molto.

                                                                                    Paolo Statuti