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Paolo Statuti – La traduzione della poesia

15 Gen

La traduzione poetica

   Le mie prime traduzioni di poesia risalgono all’inizio degli anni ’70, quando frequentavo la facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne (ramo slavo) all’Università di Roma. Un giorno chiesi all’assistente del mio professore Angelo Maria Ripellino, quale fosse secondo lui la migliore traduzione italiana del poema “I dodici” di Aleksandr Blok. Egli me ne indicò un paio ma poi, vista forse la mia faccia poco convinta, aggiunse con una velata punta d’ ironia: “Se queste versioni non la soddisfano, può sempre tradurselo da sé”. Accolsi senza indugio l’invito e il risultato fu una nuova versione del poema, che piacque subito e venne pubblicata dalla “Fiera Letteraria” (F.L. n. 18, 13.6.1971). Al poema di Blok hanno fatto seguito numerosi altri “tentativi” personali, a detta di molti pienamente riusciti. Tra i primi successi conseguiti in questo campo, mi piace ricordare l’antologia di poeti polacchi contemporanei, annessa alla “Guida alla moderna letteratura polacca” di Jerzy Pomianowski (Bulzoni Editore, Roma 1973), nella quale figurano 60 poesie di autori diversi nella mia versione.

   Oltre ai poeti polacchi, tra gli altri da me tradotti ci sono: Edgar Allan Poe, Thomas Moore, santa Teresa d’Avila, J. Wolker, Karel Havliček Borovsky, A. Blok, V. Chlebnikov, E. Bagrickij, W. Chodasewicz, V. Inber. L’ultimo mio importante lavoro è uscito a novembre del 2010: Marek Baterowicz, Canti del pianeta, Ed. Empirìa, Roma. Attualmente mi sto cimentando con la poesia di Boris Pasternak, un poeta che amo molto e che mi consente in modo ideale di affinare il mio impegno e il mio entusiasmo.

   Considero un testo poetico da tradurre come un testo musicale da interpretare, ma mentre il virtuoso concertista deve fare appello unicamente alla sua tecnica e sensibilità artistica, il traduttore deve, in aggiunta, utilizzare un diapason diverso da quello del testo originale, nella speranza di raggiungere, per quanto è possibile, lo stesso effetto e gli stessi pregi nella sua propria lingua. Non ricordo chi disse: “La traduzione è il rovescio di un tappeto: i rabeschi sbiadiscono. E tuttavia i traduttori si sforzano di rendere la vivezza dei colori e le sfumature dei toni”. Ad esempio, traducendo “Il corvo” di Edgar Allan Poe, ho cercato di riprodurre il più fedelmente possibile il suggestivo e arduo gioco di rime, assonanze, allitterazioni, la musica allucinante e patetica che pervade questa funebre canzone del rimpianto, lascio ad altri giudicare se ci sono riuscito.

   Si è scritto e si scrive molto sull’arte della traduzione poetica, e sulle possibilità e qualità della stessa esistono pareri diversi. Alcuni, come ad esempio Vladimir Nabokov nel suo articolo “Problems in translation: Onegin in English”, ritengono che ogni traduzione poetica sia una mistificazione, e che sia meglio limitarsi a fornire il senso generale, preferendo la traduzione letterale o addirittura in prosa. P.B. Shelley, perennemente insoddisfatto della sua traduzione del “Faust” di Goethe, nella sua opera “Defense of Poetry”, si dichiara più a favore della imitazione, che della traduzione letterale. Egli intende l’imitazione come nuova creazione poetica e per questo raccomanda che il traduttore sia anche poeta, raccomandazione fatta anche da altri, come ad esempio il poeta russo Nikolaj Gumiliov nel suo articolo “Le traduzioni poetiche”. Questa a mio parere è una condizione molto importante, anche se ovvia. Però, secondo Shelley, il successo è un fatto casuale. Più spesso accade che il traduttore “adombra con il grigio velo delle sue parole la vivida poesia dell’originale e modifica il testo al punto che nelle mani del lettore non rimane altro che un caput mortuum”. In altre parole, qui più che la figura del traduttore-traditore, appare quella del traduttore-uccisore. Malgrado questi timori, Shelley come si sa, tradusse dal tedesco, dall’italiano e dal latino, sempre con grande passione, anche se non sempre pienamente soddisfatto.

   Oltre a questi pareri così autorevoli, ma piuttosto pessimistici, ce ne sono altri, secondo i quali, a certe condizioni, è possibile creare delle buone traduzioni poetiche. Artur Sandauer, critico letterario, saggista e traduttore polacco, scrive che “compito della traduzione poetica non è quello di abbigliare semplicemente il contenuto dell’originale con la veste di un’altra lingua, ma quello di crearne una nuova, quanto più possibile simile a quella del testo da tradurre…Il lavoro del traduttore della poesia consisterà quindi nel suscitare un’impressione simile a quella del testo originale…Costretti dalle condizioni della traduzione, che è sempre un sistema di compromessi, a volte rinunciamo ai valori secondari a favore dei principali…purché sia salva la generale identità di senso e stile”. Vorrei riportare ora un bel brano di una lezione dello scrittore polacco Jan Parandowski, dedicata alla traduzione letteraria: “Il traduttore, se vuole essere degno dei suoi autori, non può fare a meno delle proprie capacità creative, dell’inventiva, dello slancio, dell’intuito…Quanta bellezza lo attende per la sua fatica…E quanto è bella la fatica stessa!…E’ un fatto straordinario, una insolita e inebriante avventura. Scegliere la cadenza delle frasi, decidere quale tra dieci sinonimi sia proprio quello che rende il testo comprensibile…e gli dà una nuova vita – non di un automa, ma di una creatura come generata nella libertà dello sforzo creativo”. Proprio queste parole dello scrittore polacco spiegano, tra l’altro, perché io ami tanto tradurre la poesia.

   Mi rendo conto che realizzare una traduzione che uguagli perfettamente l’originale è pura utopia, o un caso molto fortunato, come dice Shelley. Personalmente cerco di ricreare con fedeltà il testo poetico, sia pure con certi inevitabili mancamenti. Mi piace conservare le rime, anche se ciò costringe a volte ad allontanarsi dall’originale e a creare nuove immagini, pur restando esse consone al pensiero del poeta e allo spirito del testo da tradurre. Sì, mi piace mantenere le rime perché esse, se non sono banali, costituiscono un’ulteriore sfida, un’ulteriore soddisfazione, e aiutano a conservare la musicalità del verso, come ad esempio in Pasternak.

   Da questo punto di vista, vorrei attirare l’attenzione di chi mi legge sulle difficoltà lessicali e fonetiche della bellissima e magica poesia “Trasformazioni” del poeta polacco Boleslaw Lesmian.

 

Boleslaw Lesmian (1877-1937)[044]

Trasformazioni

 

Soffocante era il buio e di brama – una morsa,

E il fiordaliso, schiarito da un lampo muto,

Trafisse le pupille ad un capriolo in corsa

Nel bosco, sorpreso da un occhio sconosciuto –

E il fiore, azzurrandolo, saltava capriolamente,

E alla fiordaliso guardava il mondo avidamente.

 

Un papavero, là, nel campo senza fine

Si scoprì, e con un grido privo di suono

Si trasanguò in un gallo in piume porporine,

E la scarlatta cresta scosse con frastuono,

E cantò nella notte con terrore insano,

Fino all’eco dei galli veri da lontano.

 

L’orzo, indoratosi d’anelito addensato,

Rizzò le spighe dalla rabbia avvelenate,

Si traschiacciò scricchiando in un riccio dorato,

E corse via pungendo verdi  barricate,

Guaì, e ai fiori tenne il broncio, inciprignito,

E nessuno saprà mai ciò che ha visto e sentito.

 

Ed io – per quale ortica or l’anima mi brucia,

E tra i campi, furtive, le mie gambe vanno?

Perché ora i fiori mi guardan con sfiducia?

Forse qualcosa oscura di me – chissà – sanno?

Che ho fatto per premermi le mani sulla testa?

Chi ero quella notte di cui più nulla resta?

 

   Nella mia traduzione ho cercato di ricreare ritmo, rime, metro e suono. A volte uniformandomi allo stesso Lesmian, ho dovuto inventare dei neologismi, come ad esempio “capriolamente”, “si trasanguò”, “si traschiacciò”, o usare parole non comuni, come “scricchiando” anziché scricchiolando o “inciprignito” anziché accigliato, o creare delle allitterazioni, molto frequenti nel testo polacco:…la scarlatta cresta scosse…si traschiacciò scricchiando…chissà – sanno.  Per via della rima, infine, ho cambiato  alcune parole (poche, in verità), ricorrendo quindi al “compromesso” di cui parla Sandauer.

   Potrei dilungarmi ancora su questo tema, ma mi sembra sufficiente quanto già scritto. Per concludere toccherò ancora una volta il tasto della musicalità, raccontandovi cosa avvenne a Nairobi verso la fine degli anni ’70, quando ero impiegato dell’Alitalia presso l’ufficio di rappresentanza per il Kenya. Un giorno l’Ambasciata Polacca organizzò per me un incontro di poesia. Qualcuno leggeva il testo polacco, mentre io leggevo la mia versione italiana. La sala era al completo e l’incontro riuscì bene. Al termine dello stesso l’ambasciatore  mi ringraziò e aggiunse: – Non capisco una parola d’italiano, ma il suono delle sue versioni mi è piaciuto molto.

                                                                                    Paolo Statuti