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Michail Lermontov

1 Mar

Poesie di Michail Lermontov tradotte da Paolo Statuti

 

Preghiera

Non incolparmi, Onnipotente,

E non punirmi, t’imploro,

Se il buio funebre della terra

Con le sue passioni io adoro;

Se di rado nell’anima entra

Il torrente della tua parola viva;

Se nell’errore la mia mente

Vaga lontano dalla tua riva;

Se trabocca dal mio petto

La lava dell’ispirazione;

Se i selvaggi fermenti

Offuscano la mia visione;

Se questa terra mi è angusta,

Di penetrare in te ho paura, ed io

Spesso i canti del peccato

Prego, non te, mio Dio.

Ma estingui questa magica fiamma,

Il fuoco che tutto distrugge,

Trasforma il mio cuore in pietra,

Ferma lo sguardo che si strugge,

Dalla tremenda sete di versi

Fa’ ch’io sia libero, o creatore,

E allora sulla via della salvezza

A te di nuovo mi volgerò, o Signore.

1829

 

 

 

La mia casa

La mia casa è sotto la volta celeste,

Dove risuonano i canti soltanto,

Dove ogni scintilla di vita risplende,

Ma per il poeta lo spazio è tanto.

Dal tetto egli arriva alle stelle,

E il lungo sentiero tra le mura,

Chi ci abita, non con lo sguardo,

Ma con la sua anima misura.

La verità è nel cuore dell’uomo,

Il sacro seme dell’eternità:

Spazio senza fine, secoli interi,

In un baleno esso abbraccerà.

E la mia bella casa onnipotente

Per questo sentimento è costruita,

Dovrò soffrire a lungo in essa,

E solo in essa avrà quiete la mia vita.

1830

Il mendicante

 

Sulla porta di un santo convento

Un poveretto chiedeva la carità,

Magro, sofferente ed oppresso

Dalla fame, dalla sete, dalla povertà.

Chiedeva solo un pezzo di pane,

E lo sguardo mostrava la sua pena,

E qualcuno un sasso posò

Sulla sua mano distesa.

Così io imploravo il tuo amore

Con pianto amaro e ardente;

Così i miei sentimenti migliori

Eran delusi da te per sempre!

1830

Sole d’autunno

 

Io amo il sole d’autunno, quando

Tra nuvole e nebbie si fa largo,

E getta un pallido morto raggio

Sull’albero cullato dal vento,

E sull’umida steppa. Io amo il sole,

C’è qualcosa nello sguardo d’addio

Del grande astro simile all’occulta pena

Dell’amore tradito; non più freddo

Esso è in sé, ma la natura

E tutto ciò che può sentire e vedere,

Non provano il suo calore; così è

Il cuore: in esso è ancora vivo il fuoco,

Ma la gente un giorno non lo capì,

E da allora negli occhi brillare non deve,

E le guance non sfiorerà in eterno.

Perché di nuovo il cuore sottoporre

A parole di dubbio e allo scherno?

1830 o 1831

Il mio demone

 

                               1

 

La somma dei mali è il suo elemento;

Volando tra nembi scuri e foschi,

Egli ama le fatali tempeste,

La spuma dei fiumi e il fruscio dei boschi;

Egli ama le notti cupe,

Le nebbie, la pallida luna,

I sorrisi amari e gli occhi

Che non sanno il sonno né lacrima alcuna.

                                 2

 

Le ciarle futili del mondo

Egli è avvezzo ad ascoltare,

Egli deride le parole di saluto

E ogni credente ama beffeggiare;

Estraneo all’amore e alla pietà,

Dal cibo terreno è sfamato,

Ingoia ingordo il fumo dello scontro

E il vapore del sangue versato.

                                 3

 

Se nasce un nuovo sofferente,

Lo spirito del padre egli affligge,

Egli è qui col severo sarcasmo

E la rozza gravità dell’effige;

E quando qualcuno già discende

Con l’animo tremante nel sepolcro,

Trascorre con lui l’ultima ora,

Senza dare al malato alcun conforto.

                                 4

 

L’altero demone non mi lascerà,

Finché in vita io sarò,

E la mia mente prenderà a illuminare

Come un magnifico falò;

Mostrerà un’immagine di perfezione

E poi per sempre la toglierà

E, datomi un presagio di letizia,

Da lui non avrò mai felicità.

1831

 

No, non sono Byron…

 

No, non sono Byron, sono un altro

Eletto ancora sconosciuto,

Come lui, dal mondo vessato,

Ma con l’anima russa io sono nato.

Cominciai presto, finirò prima,

Non molto compierà la mia mente;

Nella mia anima, come nell’oceano,

Giacciono le mie speranze infrante.

Chi può, o tenebroso oceano,

Conoscere i tuoi segreti? Qualcuno

Narrerà alle folle i miei pensieri?

Io sono Dio – o non sono nessuno!

1832

La vela

 

Biancheggia una vela solitaria

Nella nebbia azzurra del mare!..

Cosa cerca nel paese lontano?

Cos’ha lasciato nel paese natale?..

Giocano le onde – il vento sibila,

E l’albero si piega e geme…

Ahimé, – la fortuna non cerca

E dalla fortuna non viene!

Sotto ha la corrente azzurra,

Sopra – del sole l’effige dorata…

Ma essa, inquieta, cerca la tempesta,

Come se in questa la quiete fosse data!

1832

Preghiera

 

O Madre di Dio, sono qui in preghiera

Davanti al tuo volto come intensa luce,

Non la salvezza, non la gratitudine,

Né il pentimento a te mi conduce,

Non per la mia anima deserta, l’anima mia

Di ramingo senza patria ti prego nel profondo,

Ma voglio affidare a te una vergine innocente,

A te che proteggi dal gelido mondo.

Circonda di felicità chi è degno d’averla,

Dagli compagni benigni in abbondanza,

Una bella giovinezza, una serena vecchiaia,

Al cuore mite dai la pace della speranza.

E quando si avvicinerà l’ora dell’addio,

Tu manda per vegliare al letto del dolore,

Sia in chiassoso mattino o in notte silente,

L’anima leggiadra dell’angelo migliore.

1837

Il pugnale

Ti amo, mio pugnale d’acciaio intarsiato,

Compagno gelido che abbaglia.

Un georgiano per la vendetta ti forgiò,

Un circasso ti affilò per la battaglia.

Una bianca mano a me ti ha donato

In segno di ricordo nella separazione,

E la prima volta non sangue da te colò,

Ma una tersa lacrima-perla di afflizione.

E fissando i neri occhi su di me,

Ricolmi di segreto dolore,

Come il tuo acciaio sul tremulo fuoco,

Erano a volte buio, a volte splendore.

Datomi per compagno, pegno muto d’amore,

Su di te il viandante può contare:

Come te, come te, amico mio d’acciaio,

La mia anima è salda e non potrà cambiare.

1838

 

Preghiera

 

In un momento arduo della vita,

Quando la tristezza stringe il cuore:

Una prodigiosa preghiera

Io recito a memoria.

C’è un’intensità beata

Nell’armonia della parola viva,

E in essa inesplicabile

Un sacro incanto spira.

Dall’anima come un grave peso

La coscienza rotola via distante –

E si vuol credere, e si vuol piangere

Ed è un lieve, così lieve istante…

1839

Le nuvole

Nuvole celesti eternamente erranti!

Sulla steppa azzurra come perle infilate,

Dal caro nord verso il meridione

Scorrete, come me, esiliate.

Cosa vi spinge: Il volere del destino?

Una segreta invidia? Un’ira manifesta?

O vi opprime il peso di un delitto?

O degli amici la venefica maldicenza?

No, vi hanno annoiato gli aridi campi…

A voi sono estranee passioni e pene;

In eterno fredde e in eterno libere,

Voi una patria e un esilio non avete.

1840

 

 

Il profeta

Dal giorno in cui il giudice eterno

Mi ha dato del profeta l’onniscienza,

Negli occhi degli uomini io leggo

Pagine di rabbia e di violenza.

A predicare presi allora i precetti

Della verità e dell’amore alla gente:

Cominciarono a coprirmi d’insulti

E a tirarmi pietre follemente.

Mi cosparsi il capo di cenere,

Come un mendico fuggendo la città,

Ed ora come uccello nel deserto io vivo,

Mangiando solo ciò che Dio mi dà;

La creatura terrestre m’è sottomessa,

Le leggi del Signore rispettando,

E le stelle mi ascoltano di notte,

Coi raggi lietamente giocando.

E quando nella città chiassosa

Entro a volte con passo affrettato,

I vecchi dicono ai bambini

Con un sorrisetto malcelato:

«Guardate: ecco un esempio per voi!

Egli superbo da noi è fuggito;

Lo sciocco pensava: ciò che dice Dio

Dalla mia bocca è uscito!

Guardatelo, bambini miei:

Che figura pallida e trista!

Guardate com’è magro e nudo,

E come ridono alla sua vista!»

1841

Il sogno

 

Nella valle del Daghestan infocata

Col piombo nel petto immobile stavo;

Dalla ferita ancora fumante,

A goccia a goccia il mio sangue versavo.

Giacevo solo sulla sabbia della valle;

Sporgenze di rocce premevano intorno,

E il sole bruciava le gialle sommità

E pur me – ma io dormivo, come morto.

Rischiarato dai fuochi nel paese natale

Un banchetto sognavo in quel mentre.

Giovani donne inghirlandate

Parlavano di me allegramente.

Ma, ignorando la lieta conversazione,

Una di loro sedeva sola e pensosa,

La sua giovane anima era triste

E immersa Dio solo sa in che cosa;

E sognava il Daghestan, dove giaceva

Un cadavere a lei noto, nel cui petto

Fumando, anneriva la ferita,

Da cui il sangue colava ormai freddo.

1841

La rupe

 

Passò la notte una nube dorata

Sul petto di una rupe immensa;

La mattina si rimise in cammino,

Giocando nell’azzurro immersa;

Ma una traccia umida in una ruga

Della millenaria rupe ha lasciata.

E la rupe è lì sola e pensosa,

E nel deserto piange sconsolata.

1841

Tamara

 

Nella profonda gola di Dar’jal,

Dove il Terek fruga nelle nebbie cupe,

Una antico bastione si ergeva,

Nereggiando su una nera rupe.

In questa torre alta e angusta

La zarina Tamara viveva:

Assai bella, come angelo celeste,

Come demone, perfida e altera.

E là nella nebbia di mezzanotte

Brillava un lumino dorato,

Attirava l’attenzione dei viandanti,

Chiamava a un riposo incantato.

E si udiva la voce di Tamara:

C’era in essa desiderio e passione,

Una magia onnipotente,

Una inesplicabile persuasione.

Verso la voce di un’invisibile peri

Un mercante o un pastore andava:

Davanti a lui si apriva la porta,

Un tetro eunuco lo invitava.

In un soffice letto di piume,

Vestita di broccato porporino,

Ella aspettava l’ospite…Frizzanti

Eran pronte due coppe di vino.

S’intrecciavano le dita degli amanti,

Le labbra si toccavano ardenti,

La notte intera risonavano là

Assai strani e selvaggi accenti.

Come se in quel vuoto bastione

Cento giovani e cento fanciulle,

Fossero insieme a un banchetto funebre,

O per celebrare nozze notturne.

Ma appena la luce del mattino

Si posava sui picchi montani,

Nella torre buio e silenzio

Di nuovo regnavan sovrani.

Solo il Terek nella gola Dar’jal,

Il silenzio rombando rompeva;

L’onda urtava contro l’onda,

L’onda dietro l’onda correva;

E con pianto il corpo muto

Si affrettavano a portar via;

Alla finestra qualcosa biancheggiava,

E risonava una parola: addio.

Ed era un sì tenero lasciarsi,

La voce era dolce e fremente,

Come se estasi d’incontro e carezze

D’amore promettesse per sempre.

1841

Da solo mi metto in cammino…

1

Da solo mi metto in cammino;

Nella nebbia la strada risplende;

Silenzio. Il deserto ascolta dio,

E stella con stella s’intende.

2

In cielo una festa e un incanto!

La terra dorme nell’azzurro splendore…

Che cosa mi aspetto, di che mi lamento?

Perché mai questo cupo dolore?

3

Dalla vita non voglio più niente,

Nulla rimpiango del mio passato;

Cerco soltanto libertà e quiete!

Dormire – questo solo m’è grato!

4

Non il freddo sonno della tomba

Io cerco…ma vorrei dormire,

Per placare le forze della vita,

E il respiro nel mio petto lenire;

5

Perché un dolce canto d’amore

Accarezzi sempre l’orecchio mio,

E d’una quercia eternamente verde,

E china su di me, io oda il fruscio.

1841

 

Da solo mi metto in cammino…

Da solo mi metto in cammino;

Nella nebbia il selciato splende;

Silenzio. Il deserto ascolta dio,

E stella con stella s’intende.

Il cielo è mirabile e solenne!

Dorme la terra nell’azzurro manto…

Perché questo dolore e stento?

Qualcosa aspetto o qualcosa piango?

Dalla vita più niente mi aspetto,

E non ho rimpianti del passato;

Io cerco libertà e pace!

Vorrei non pensare, addormentato!

Non nel freddo sonno della tomba…

Sarò felice se dormiranno

Le forze vitali nel mio petto,

E il petto respirerà senza affanno;

Se notte e giorno al mio udito

La voce dell’amore giungerà,

E su di me una verde quercia,

Chinandosi, per sempre stormirà.

Ci lasciammo

 

Ci lasciammo; ma il tuo ritratto

Io custodisco sul mio petto:

Vaga ombra di anni migliori,

All’anima mia reca diletto.

Sono preda di nuove passioni,

Ma esso è rimasto ancora mio:

Così un tempio vuoto – resta un tempio,

E un idolo abbattuto – resta dio!

Il pino

 

Nel selvaggio nord un pino

Solitario in un punto elevato,

Sonnecchia, oscilla e come

Una pianeta di neve ha indossato.

E sogna tutto ciò che è lontano,

Nel paese dove il sole nasce,

E dove triste su una calda roccia

Una stupenda palma cresce.

1841

(C) by Paolo Statuti

Michail Lermontov (1814-1841)

22 Ott
Busto in bronzo di Michail Lermontov che si trova nel mio studio

Busto in bronzo di Michail Lermontov che si trova nel mio studio

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Per i miei lettori pubblico oggi nella mia versione il poema di Michail Lermontov “Canto dello zar Ivan Vasil’evič, della giovane fedele guardia e del prode mercante Kalašnikov

 

 

Ascolta, o zar Ivan Vasil’evič!

Noi per te componemmo questo canto,

Per la tua diletta fedele guardia,

E per il prode mercante Kalašnikov.

Lo componemmo all’antica maniera,

Lo cantammo al suono della gusla

E dolendoci l’abbiamo narrato.

Il popolo ortodosso ha rallegrato,

E il boiaro Matvej Romodanovskij

Una coppa ci offrì di schiumante miele,

E sua moglie dai pallidi tratti

Un asciugamano di seta ricamato

Sopra un piatto d’argento ci porse.

Ci han serviti tre giorni e tre notti

E tutto ascoltarono – senza stancarsi mai.

1

Non brilla in cielo il rosso sole,

Non lo ammirano le nubi azzurrine:

A tavola siede con l’aurea corona

Il terribile zar Ivan Vasil’evič.

In piedi dietro a lui i siniscalchi,

Davanti a lui i principi e I boiari,

Ai due lati tutte le fedeli guardie:

E banchetta lo zar a gloria di Dio,

Banchetta per sua gioia e diletto.

Sorridendo, la zar ordinò allora

Di empire di vin dolce d’oltremare

Il suo grande vaso dorato

E di offrirlo alle fedeli guardie.

E tutte bevvero lo zar acclamando.

Soltanto una di loro,

Prode campione, giovane impetuoso,

Nel vaso dorato non bagnò i suoi baffi;

Volse in terra i suoi occhi scuri,

Piegò la testa sull’ampio petto –

Sul petto ov’era un grave pensiero.

Aggrottò lo zar le nere sopracciglia

E volse a lui il suo acuto sguardo,

Come sparviero che dall’alto

Abbia scorto una tenera colomba;

Ma non sollevò gli occhi l’ardito giovane.

Allora lo zar batté la mazza in terra,

E la punta di ferro forò per metà

Il pavimento di solida quercia –

Ma neanche allora il giovane si mosse.

Allora lo zar proferì tremende parole –

E alfine il buon giovane si riscosse.

«Ehi tu, fedele servo Kiribeevič,

Nascondi forse un losco pensiero?

Invidi forse il nostro lustro?

O l’onesto servizio ti ha stancato?

Al sorgere della luna – le stelle son liete

Di passeggiare nel cielo più chiaro;

Ma quella che in una nube si cela,

A precipizio sulla terra cade…

E’ biasimevole, Kiribeevič,

La gioia dello zar disdegnare;

Ti han generato gli Skuratov

E la gente di Maljuta t’ha cresciuto!…»

Risponde così Kiribeevič

Al terribile zar con un profondo inchino:

«O Ivan Vasil’evič, nostro sovrano!

Non biasimare un indegno schiavo:

Un cuore ardente col vino non si spegne,

Un cupo pensiero – non si può spartire!

Ma io t’ho crucciato – per tuo volere

Ordina di giustiziarmi, ti tagliarmi la testa;

Essa pesa sulle mie forti spalle,

E si china verso l’umida terra».

Allora così replicò Ivan Vasil’evič:

«O giovane, cos’è che ti affligge?

E’ forse logora la tua veste di broccato?

E’ forse sgualcito il berretto di zibellino?

L’erario troppo ti ha tassato?

O ha perso il filo la sciabola temprata?

O il cavallo zoppica, mal ferrato?

O lottando coi pugni ti ha messo a terra,

Sulla Moscova, il figlio d’un mercante?»

Così risponde Kiribeevič,

La testa ricciuta scotendo:

«Non è ancor nato quel pugno stregato

Né in famiglia di boiari né di mercanti;

Il mio cavallo della steppa galoppa lieto,

Come vetro splende la sciabola affilata,

E nei giorni di festa per tua grazia

Non peggio di altri ci vestiamo.

Quando monto sul mio ardito cavallo

E oltre la Moscova cavalco,

Con la serica cintura ben serrata,

Col berretto di velluto per traverso,

Di nero zibellino orlato,

Sugli usci di legno belle fanciulle

E giovani spose stanno a guardare

E ammirano, bisbigliando tra loro;

Solo una non guarda, non ammira,

Si copre col suo velo rigato…

Nella santa Rus’, madre nostra,

Una così leggiadra non si trova:

Cammina lieve come un cigno,

Guarda dolce come una colomba,

Parla come canta un usignolo,

Ardono le sue guance vermiglie,

Come l’alba nel cielo divino;

Le trecce castane, quasi dorate,

Strette in nastri sgargianti,

Sulle spalle ondeggiano, serpeggiano,

Il bianco petto le accarezzano.

E’ nata da famiglia di mercanti,

Il suo nome è Aljona Dmitrevna.

Quando la vedo, non ho più pace:

Mi cascano le forti braccia,

Si offuscano gli occhi vivaci;

Mi annoio, mi è triste, zar ortodosso,

Solo nel mondo languire.

Disdegno gli agili cavalli,

Disdegno le vesti di broccato,

E non mi serve uno scrigno d’oro:

Con chi potrò spartirlo?

A chi mostrerò la mia audacia?

Con chi mi vanterò della mia veste?

Lasciami andare nella steppa sul Volga,

Alla libera vita dei Cosacchi.

Là poserò la mia testa inquieta

Sulla lancia di un infedele;

E si spartiranno i malvagi Tartari

Il buon cavallo, la sciabola affilata

E la sella circassa da battaglia.

Gli occhi in pianto gli avvoltoi mi caveranno,

Le mie ossa umide la pioggia laverà,

E senza esequie le misere ceneri

Ai quattro venti si spargeranno!…»

E ridendo, rispose Ivan Vasil’evič:

«Ebbene, mio fedele servo, la tua pena,

La tua infelicità io cercherò di lenire.

Ecco prendi il mio anello di rubino,

Prendi questa collana di perle.

Davanti a una scaltra mezzana inchinati

E questi preziosi doni manda

Alla tua Aljona Dmitrevna:

Se li accetterà – celebra le nozze,

Se non li accetterà – non ti adirare».

Ah, tu non sai, zar Ivan Vasil’evič!

Ti ha ingannato il tuo astuto servo,

Non ti ha detto tutta la verità,

Non ti ha svelato, che la bella fanciulla,

Nella chiesa di Dio è già sposata,

Sposata con un giovane mercante

Secondo la nostra legge cristiana…

                                 *

 

Oh, ragazzi, cantate – le gusle accordate!

Oh, ragazzi, bevete – la storia ripetete!

Il buon boiaro rallegrate

E sua moglie dai pallidi tratti!

2

Dietro il banco il giovane mercante,

Il bel giovane Stepan Paramonovič,

Rampollo dei Kalašnikov,

I tessuti di seta espone solerte,

Attira la gente con gentili parole,

Conta le monete d’oro e d’argento.

Ma per lui è una brutta giornata:

Passano e ripassano i ricchi signori,

La sua bottega ignorando.

E’ sonato il vespro nelle chiese.

Dietro il Cremlino rosseggia l’alba serale.

Il cielo già di nuvole si copre,

Che la bufera insegue canticchiando.

Ora è deserto il grande mercato.

Chiude Stepan Paramonovič

La bottega con la porta di quercia

E la serratura a molla tedesca;

Il cane ringhioso dai grossi denti

Lega alla ferrea catena,

E se ne torna a casa pensieroso,

Dalla consorte oltre la Moscova.

Ma giunto alla sua casa,

Si stupisce Stepan Paramonovič

Non vedendo la sua giovane sposa,

Né la tavola di quercia apparecchiata,

E la candela dell’icona arde appena.

Egli chiama la vecchia domestica:

«Dimmi, dimmi, Eremeevna,

Dov’è finita, dove s’è cacciata

A quest’ora tarda Aljona Dmitrevna?

E i miei amati figlioletti –

Di certo han molto corso e giocato,

E già dormono nei loro lettini?»

«Padrone mio, Stepan Paramonovič,

Ti dirò una cosa assai strana:

Aljona Dmitrevna al vespro s’è recata;

Ma già il pope e sua moglie son tornati,

Hanno acceso la candela e cenano, –

Ma la padroncina dalla chiesa

Non ha fatto ritorno ancora.

E i tuoi piccoli figlioletti

Non dormono, non giocano –

Piangono tutto il tempo sconsolati».

Si turbò allora fortemente

Il giovane mercante Kalašnikov;

Andò alla finestra, uscì sulla strada –

Ma lo accolse la notte gelata;

Cade la neve bianca, si distende,

Cancella le impronte umane.

Ecco sente che battono alla porta,

Poi sente dei passi affrettati;

Si volta, guarda – santo cielo! –

Davanti a lui la sposa appare,

Pallida come un cencio, a testa nuda,

Le bionde trecce disciolte

E cosparse di neve e brina,

Gli occhi spenti d’una folle,

Mormora parole oscure.

«Ah, dove, moglie mia sei andata girando?

In quale osteria, in quale sconcio luogo,

Perché quei capelli arruffati,

E la veste così stracciata?

Ti sei divertita, hai fatto baldoria,

Forse con i figli dei boiari!…

Non per questo davanti alle sante icone

Noi, moglie mia, ci siamo fidanzati,

Ci siam scambiati l’anello nuziale!…

D’ora in poi ti chiuderò a chiave

Dietro una porta di quercia ferrata,

Perché tu non veda il mondo di Dio,

E non infami il mio nome onorato…»

E, udito ciò, Aljona Dmitrevna

Prese a tremare, povera colombella,

A tremare come una foglia,

A piangere lacrime amare,

E ai piedi dello sposo ella cadde.

«O mio signore, mio fulgido sole,

Uccidimi ora, o degnati di ascoltare!

Le tue parole sono una lama tagliente;

Esse mi spezzano il cuore.

Io non temo la morte più atroce,

Non temo le malelingue,

Ma temo solo il tuo rancore.

Dal vespro a casa tornavo

Per la strada già deserta.

Sento la neve scricchiolare;

Mi giro – un uomo sta correndo.

Le mie gambe han preso a tremare,

Mi son coperta col velo di seta;

Ma egli mi ha presa per un braccio,

E mi ha detto sussurrando:

«Di che hai paura, o mio incanto?

Non ladro né brigante di bosco io sono,

Io servo la zar, il terribile zar,

Il mio nome è Kiribeevič,

Della nobile famiglia di Maljuta…»

Più che mai mi sono spaventata;

La povera testa mi girava.

Mi ha baciata e accarezzata,

E, baciandomi, ripeteva sempre:

«Rispondimi, di che hai bisogno,

O mia diletta, o amata!

Vuoi oro, vuoi perle?

Vuoi pietre lucenti o fine broccato?

Ti vestirò come una zarina,

Tutte ti invidieranno,

Ma fa’ che io non muoia peccando –

Amami, abbracciami,

Sia pure un solo abbraccio d’addio!»

E mi accarezzava e mi baciava;

Sulle mie guance che bruciano ancora,

Come viva fiamma si posavano

I suoi ripugnanti baci.

E guardavano dagli usci le vicine,

E ci additavano ridendo…

Sono riuscita a liberarmi

E ho preso a correre verso casa,

Ma son rimasti nelle mani del brigante

Il mio scialle rabescato, tuo regalo,

E il mio velo di Bukhara.

Mi ha disonorata e svergognata,

Una donna onesta e casta pari mio, –

E che diranno le maligne vicine,

E a chi ora oserò mostrarmi?

Tu non lasciare la tua fedele sposa

All’oltraggio delle malelingue!

In chi posso sperare, se non in te?

A chi potrò chiedere aiuto?

In questo mondo io sono orfana:

Il mio babbo è già seppellito,

Accanto a lui la mia mamma giace,

Il mio fratello maggiore, tu lo sai,

In terra straniera senza traccia è finito,

E il più giovane è un bambino,

Un piccolo bambino che non può capire…»

Questo disse Aljona Dmitrevna,

Piangendo a calde lacrime.

Stepan Paramonovič mandò a chiamare

I suoi due fratelli minori;

E arrivarono, s’inchinarono

E rivolsero a lui queste parole:

«Orsù dicci, fratello maggiore,

Cosa mai ti è capitato,

Per chiamarci nella notte scura,

Nella scura e gelida notte?»

«Vi dirò, fratelli miei diletti,

M’è successa una grave sciagura:

Ha infamato la nostra proba famiglia

La vile guardia imperiale Kiribeevič;

E tale offesa l’anima tormenta

E un prode cuore non può sopportare.

Ebbene domani una lotta a pugni

Si svolgerà sulla Moscova, presente lo zar,

Io affronterò quella guardia

Lottando fino all’ultimo respiro;

Se mi batterà, uscirete voi

Per la santa madre-verità.

Non temete, fratelli miei diletti!

Più giovani e forti di me voi siete,

Meno peccati avete accumulato,

E forse il Signore di voi avrà pietà!»

E in risposta dissero i fratelli:

«Là dove il vento soffia nel cielo,

Anche le nuvole docili vanno,

Quando la grigia aquila chiama

Nella sanguinosa valle dello scontro,

Chiama al banchetto con i morti,

Ad esso gli aquilotti accorrono:

Tu, fratello, sei per noi un secondo padre;

Fa’ come sai, come pensi sia giusto,

E noi, fratello, non ti tradiremo»,

                                 *

Oh, ragazzi, cantate – le gusle accordate!

Oh, ragazzi, bevete – la storia ripetete!

Il buon boiaro rallegrate

E sua moglie dai palliti tratti!

3

Sulle dorate cupole di Mosca,

Sulle bianche pietre del Cremlino,

Da dietro i boschi, dai monti turchini,

Brillando sulle tavole dei tetti,

Scacciando le nuvole grigie,

L’aurora scarlatta si leva;

Ha sparso i suoi ricci dorati,

Si lava con la friabile neve,

Come bella fanciulla che si specchia,

Guarda il cielo limpido e sorride.

Perché, rossa aurora, ti sei distesa?

Su quale gioia ti sei destata?

Si radunavano, affluivano,

Gli audaci campioni moscoviti

Sulla Moscova, per lo scontro a pugni,

Per rallegrarsi, per divertirsi.

E arrivò lo zar col suo seguito,

Coi boiari e le fedeli guardie,

E fece tendere una catena d’argento

Con gli anelli saldati in oro.

Cinsero uno spazio di cinquanta metri,

Riservato ai due rivali.

E ordinò allora lo zar Ivan Vasil’evič

Di gridare con voce squillante:

«Orsù, voi, giovani valorosi,

Divertite lo zar nostro padre!

Entrate nell’ampio cerchio;

Chi vincerà – dallo zar sarà premiato –

Chi perderà – che Dio lo perdoni!»

Ed entra l’audace Kiribeevič,

In silenzio s’inchina allo zar,

Toglie dalle forti spalle il manto di velluto,

La mano destra poggia sul fianco,

Con l’altra si aggiusta il berretto

E attende l’avversario…

Tre volte risuona il grido squillante –

Nessuno dei campioni si muove,

Si guardano e ammiccano tra loro.

La guardia dello zar cammina su e giù,

Dei falsi campioni si burla:

«Si son calmati, forse han riflettuto!

Ebbene, prometto per la festa,

Di rimandarlo a casa vivo,

Voglio solo che lo zar si diverta».

A un tratto la folla si apre –

Entra in campo Stepan Paramonovič,

Giovane mercante, prode campione,

Rampollo dei Kalašnikov.

S’inchina al terribile zar,

Poi al Cremlino e alle sante chiese,

E poi a tutto il popolo russo.

Ardono i suoi occhi di falco

Puntati sul suo avversario.

E si mette davanti a lui,

Infila i guanti da lotta,

Le potenti spalle raddrizza

E la barba ricciuta accarezza.

E gli disse Kiribeevič:

«Dimmi un po’, buon giovane,

Di che gente e stirpe sei,

Con qual nome tu sei chiamato?

Per sapere a chi cantare il requiem,

Perché io possa vantarmi di qualcosa».

Gli risponde Stepan Paramonovič:

«Mi chiamo Stepan Kalašnikov,

Sono nato da un padre stimato,

Ho seguito i precetti del Signore:

Non ho disonorato le mogli altrui,

Non ho fatto il brigante di notte,

Non ho evitato la luce del giorno…

E tu hai detto una cosa vera:

A uno di noi due il requiem canteranno,

E non più tardi di domani a mezzogiorno;

E uno di noi due si vanterà,

Facendo festa con gli amici suoi pari…

Non per celia, non per divertire la gente,

Io ti sto di fronte, figlio d’infedele, –

E lotterò con te fino all’ultimo respiro!»

E udito ciò, Kiribeevič,

Impallidì, come neve d’autunno;

Si offuscarono i suoi occhi vivaci,

Tra le forti spalle corse un brivido,

La voce gli morì sulle labbra schiuse…

In silenzio entrambi si separano, –

L’erculea lotta inizia.

Alzò la mano Kiribeevič

E per primo colpì Kalašnikov,

Lo colpì in pieno petto –

Schicchiolò il petto del giovane,

Barcollò Stepan Paramonovič:

La croce di rame sul suo petto

Con le sante reliquie di Kiev, –

Si piegò entrando nella carne,

E il sangue colò come rugiada,

Si disse allora Stepan Paramonovič:

«Ciò che fu scritto, si avveri,

Lotterò per la verità fino all’ultimo!»

Studiò la mossa, si preparò,

E con grande veemenza

Colpì l’odiato rivale

Alla tempia sinistra.

La giovane guardia dello zar gemé,

Vacillò e cadde senza vita;

Si accasciò sulla fredda neve,

Sulla fredda neve, come un pino,

Come un pino nell’umido bosco,

Tagliato alla radice resinosa.

E, visto questo, lo zar Ivan Vasil’evič

Si adirò, batté il piede in terra

E corrugò le nere sopracciglia;

Ordinò che l’audace mercante

Fosse preso e portato al suo cospetto.

E così parlò lo zar ortodosso:

«Rispondimi in coscienza e verità,

Hai colpito a morte il mio fedele servo,

La mia migliore guardia Kiribeevič,

L’hai voluto o l’hai fatto non volendo?»

«Ti dirò, o zar ortodosso,

L’ho ucciso perché l’ho voluto,

Ma non ti dirò perché,

Lo dirò soltanto all’unico Dio.

Ordina di giustiziarmi e sul patibolo

Cada la mia testa colpevole;

Ma non negare ai miei figlioletti,

Non negare alla giovane vedova

E ai miei due fratelli la tua pietà…»

«Ebbene, giovane baldo e forte,

Lottatore audace, figlio di mercanti,

Hai risposto secondo coscienza.

La giovane moglie e i tuoi orfani

Saranno da me protetti,

E ordino che da oggi i tuoi fratelli

In tutto il vasto impero russo

Commercino senza tributi e senza dazi.

E tu, giovane baldo e forte,

Sali sull’alto patibolo

E lascia lì la tua testa impetuosa.

Io la scure farò bene affilare,

E il carnefice farò ben vestire,

La grande campana farò sonare,

Perché sappiano tutti i moscoviti

Che neanche a te negai la mia pietà…»

Sulla piazza la folla si raduna,

La mesta campana ulula e romba,

Diffonde una funesta novella.

Sull’alto patibolo nella rossa camicia,

Ornata di lucenti bottoni,

E con la grande scure affilata,

Si stropiccia le mani nude

E cammina su e giù l’allegro boia,

Aspetta il prode mercante, –

E il valoroso giovane intanto,

Dai cari fratelli si accomiata:

«O amati fratelli, amici di sangue,

Baciamoci e abbracciamoci

Per l’estremo addio.

Salutate per me Aljona Dmitrevna,

Ditele di non affliggersi tanto,

Di non dire niente di me ai piccoli;

Salutate la casa paterna,

Salutate tutti i nostri compagni,

Pregate nella santa chiesa

Per l’anima mia peccatrice!»

E subì Stepan Kalašnikov

Una morte crudele e vergognosa;

E la sfortunata testa

Rotolò nel sangue sul patibolo.

Lo seppellirono oltre la Moscova,

In aperta campagna fra tre strade:

Tul’ska, Rjazanskaja e Vladimirovska,

Sotto un tumulo di umida terra,

E una croce d’acero ivi piantata.

E soffiano e rombano venti furiosi

Sulla sua tomba senza nome.

E accanto passa gente buona:

Passa un vecchio – si segna,

Passa un giovane – si sente fiero,

Passa una fanciulla – si rattrista,

E i guslari gli cantano una canzone.

                             *

 

Ehi, voi, ragazzi audaci,

Giovani guslari,

Voci squillanti!

Bene iniziaste – bene terminate,

Ripagate ognuno con verità e onore.

Gloria al generoso boiaro!

Gloria alla sua bella moglie!

E gloria a tutto il popolo cristiano!

1837

(C) by Paolo Statuti

 

 

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Michaìl Lermontov (1814-1841)

12 Giu
Michaìl Lermontov

Michaìl Lermontov

 

 

Preghiera

In un momento arduo della vita,

Quando la tristezza stringe il cuore:

Una prodigiosa preghiera

Io recito a memoria.

 

C’è un’intensità beata

Nell’armonia della parola viva,

E in essa inesplicabile

Un sacro incanto spira.

 

Dall’animo come un grave peso

La coscienza rotola via distante –

E si vuol credere, e si vuol piangere

Ed è un lieve, così lieve istante…

(musicata da Michail Glinka)

                      

Paolo Statuti: Copia a olio di una icona russa del XIII sec.

Paolo Statuti: Copia a olio di una icona russa del XIII sec.


Preghiera 

O Madre di Dio, sono qui in preghiera

Davanti al tuo volto come intensa luce.

 

Non per l’anima mia deserta ti imploro,

L’anima mia di ramingo senza patria;

Ma l’anime innocenti affidar voglio a te,

Che amorosa proteggi dal gelido mondo.

 

Circonda di felicità chi ne è degno,

Dagli compagni premurosi e benigni,

Una splendida giovinezza, una vecchiaia serena,

Ai cuori miti da’ la pace della speranza.

 

O Madre di Dio, ti supplico, ascoltami.

 

(musicata da Modest Musorgskij)

 

(Versioni di Paolo Statuti)