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Jan Parandowski: L’ispirazione

7 Ago

 

Jan Parandowski

Jan Parandowski

 

   Tra le opere di Jan Parandowski (1895-1978), scrittore, saggista e traduttore polacco, ricordiamo in particolare:  Mitologia. Wierzenia i podania Greków i Rzymian (Mitologia. Credenze e leggende dei Greci e dei Romani, 1924), il romanzo Dysk Olimpijski (Disco Olimpico, 1933) e la raccolta di saggi sulla letteratura  Alchemia słowa (Alchimia della parola, 1951). Jan Parandowski è noto soprattutto per la sua creazione legata alla cultura antica. Dal volume “Alchimia della parola” ho tradotto questo saggio per i miei lettori.

 

                                               L’ispirazione

   L’ispirazione è passata di moda. Se questa parola uscirà oggi dalla penna, avrà una punta d’ironia, o sarà semplicemente la ripetizione istintiva di una parola trita, una questione di abitudine, come metafore démodé non arieggiate. Più volentieri la usano i semplici che guardano un uomo intento a scrivere, e la pronunciano con un sarcasmo che cela la loro inquietudine nei confronti di una persona stravagante. Una certa simpatia per l’ispirazione si può ancora scoprire negli scultori: non sempre essi sanno resistere alla tentazione di ornare i monumenti di geni alati che svolazzano sul poeta, o chinati su di lui in un sussurro confidenziale.

   L’ispirazione ha avuto le sue belle stagioni che duravano secoli interi. Essa esprimeva la certezza che l’arte della parola provenisse da Dio, ed è cresciuta con una propria mitologia. Come imprevedibile stato d’animo, nel lessico dei Greci era affine alle parole mania e follia, si mescolava con estasi, con “entusiasmo”, che nel significato originario si riferisce a un uomo “pieno di Dio”, splendeva nelle scure porpore delle religioni dionisiache. Come se ne entusiasmò Friedrich Nietzsche! Cambiando i santi protettori, a seconda delle religioni, l’ispirazione è sopravvissuta non solo nelle convinzioni popolari sui vati, o sul ruolo ispirato e profetico dei poeti, ma era professata sia da loro stessi, sia perfino dai loro studiosi più obiettivi.

   Quante volte nella storia della letteratura si è distinta la poesia spontanea, impulsiva, ispirata, da quella che chiamavano laboriosa, manierata, artistica, oppure anche, ricorrendo a una antica metafora, dicevano di essa che “sapeva di olio”. La prima aveva il profumo dei campi, dei boschi, di una notte tempestosa tramata di lampi, dei cieli aperti, la seconda l’aria viziata di una bottega chiusa. Soprattutto l’epoca romantica spiegò le ali all’ispirazione. Mai se n’era parlato tanto come allora. Nella poesia e nella prosa. Non c’è dissertazione letteraria di quel periodo in cui in ogni pagina non compaia ostinatamente questa parola. Essa si ripete in tutte le lettere, e con certezza non mancava nella conversazione più futile. Il poeta romantico si sarebbe sentito vilipeso, se gli avessero negato l’ispirazione. Słowacki negli anni del misticismo, affermava apertamente che scriveva su incitamento degli angeli. Lo stesso asseriva Swedenborg  a proposito della sua cosmografia mistica, lo stesso William Blake, quando diceva di essere soltanto il segretario delle Potenze Eterne, che gli dettavano i suoi poemi.

   Questa enfasi ha portato alla rovina dell’ispirazione nell’epoca successiva. Inveiva contro di essa Flaubert, la schernivano tutti all’epoca del realismo e del naturalismo, la ignoravano i Parnassiani, alla fine è stata messa alla berlina. Ma quando una parola si logora, si può salvare l’essenza del suo contenuto, trovando per essa una parola diversa. Friedrich Schiller, che visse, se così possiamo dire, nell’epoca dell’ispirazione, ed egli stesso non ne era esente, creò una bella definizione: sorprese dell’anima. Come altre espressioni poetiche, anche questa nella sua esattezza non è inferiore ai termini scientifici. Indica tutti gli attimi – improvvisi, brevi e luminosi come un lampo – che portano un’idea, una soluzione, una strofa, un tratto del carattere o il corso delle avventure di un personaggio. Li suscita di regola un qualche stimolo, niente affatto eccezionale, ma piuttosto semplice. L’idea popolare dell’ispirazione che assale gli scrittori tra le grandiose o incantevoli vedute della natura, si potrebbe paragonare alla pertinacia con cui i pittori da un secolo e mezzo raffigurano Napoleone su un cavallo bianco, benché Frédéric Masson, ferratissimo in materia, abbia dimostrato che l’imperatore evitava di cavalcare cavalli bianchi.

   Questo semplice stimolo trae la sua forza dalle caratteristiche psichiche dello scrittore e dalle circostanze in cui si manifesta. Il più delle volte esso è affettivo. L’improvviso passaggio dalla tristezza alla gioia o viceversa, sotto l’effetto di una sensazione (luce, colore, voce, odore) ci commuove e in un attimo di intenerimento, esaltazione, pungente amarezza o profonda pena, di silenzio interiore o di euforia, si mette in luce l’oscuro lavoro delle nostre menti. Una volta – non ce ne siamo neanche accorti – è caduto in esse un debole germe ed è entrato in un periodo di lenta maturazione, di vita latente, di lungo parassitismo nel cervello. Per mesi, per anni, esso non si fa vivo. Lo scrittore si occupa di mille questioni, coglie miriadi di sensazioni, mentre nell’inestricabile tumulto della vita psichica, quel germe celato in profondità si nutre di succhi ignoti. Nel suo nascondiglio trovano posto sia impressioni comuni che sublimi, informazioni semplici o straordinarie, frammenti di conversazioni e di letture, volti, occhi, mani, sogni, desideri, visioni – giunge in esso una innumerevole quantità di eventi, ciascuno dei quali è una avventura dell’anima e ciascuno può alimentare quel germe embrionale. Finché un bel giorno, in un momento in cui non ce lo aspettiamo, quando siamo, come ci sembra, il più lontano possibile da tutto ciò che ad esso si lega, nasce la forma tanto desiderata e in grado di vivere. Per cause sconosciute è avvenuta una crisi, l’improvvisa fine di un lungo inconscio lavoro, nella sua veemenza spesso simile alle compresse forze della natura e parimenti impersonale. Haydn, quando colse la melodia che nella Creazione doveva rendere la nascita della luce, esclamò estasiato: “Questo proviene non da me, ma dall’alto!”

   Non c’è differenza qui tra scrittore e filosofo, artista, scienziato. Anziché ripetere la solita storia della mela di Newton, vale la pena ricordare il meno noto, ma forse più significativo esempio di creazione del grande matematico Henri Poincaré. Per mesi interi egli aveva invano cercato un certo modello, agitando senza sosta il suo problema nei pensieri. Alla fine, senza aver trovato la soluzione, lo abbandonò del tutto e si occupò di altro. Passò molto tempo, finché una mattina, come spinto da una molla, si alzò all’improvviso dalla tavola dove stava facendo colazione, si avvicinò alla scrivania e scrisse subito quel modello, senza riflettere, e si direbbe come copiato dalla lavagna. Allo stesso modo si impongono agli scrittori le conclusioni tirate per le lunghe, di drammi, romanzi, novelle, in un lampo si chiariscono il carattere e la sorte ingarbugliata dei personaggi, si trovano  strofe a lungo e invano cercate, come quella che con le dita tremanti Jean Moréas annotò su un pacchetto di sigarette alla luce di un lampione. Goethe racconta nell’introduzione a  Der ewige Jude che intorno alla mezzanotte saltò giù dal letto come un forsennato, e con il petto che gli scoppiava dal desiderio di cantare quel personaggio enigmatico. E anche in questo caso avvenne molto probabilmente come sempre: per anni aveva portato dentro di sé il tono, l’atmosfera della ballata, prima che gli si rivelasse come poesia. Ecco in qual modo egli concluse il ricordo di quelle impressioni: “Noi prepariamo soltanto una catasta di legna e ci preoccupiamo che sia asciutta, ma quando arriva il momento – con nostra meraviglia – la catasta da sola non si accende”.

   Queste “sorprese dell’anima” sono di diversa luminosità: dai brevi bagliori che illuminano la mente o un frammento di immagine, fino alle grandi e vaste scoperte. In quest’ultimo caso esce in superficie una notevole area del subconscio ed è una potente scossa, a guisa di catastrofe tettonica, quando dal fondo dell’oceano emergono delle isole, che diventeranno nuove patrie per piante, animali e uomini. Ricordando il giorno in cui sulla strada per Rapallo restò sorpreso dall’apparizione del suo Zaratustra, Nietzsche afferma: “Arriva una illuminazione, cioè a un tratto con incredibile certezza e con tutti i particolari, appare all’uomo qualcosa che nel profondo dell’anima lo scuote e lo sconvolge. Un pensiero nasce come un lampo, un’estasi, l’uomo perde il controllo di sé. Allora tutto avviene involontariamente, eppure una sensazione di libertà invade l’uomo come un ciclone”.

   Questo tumulto dello spirito con la sua inattesa e impetuosa irruzione arreca perfino uno sfinimento, come il deliquio di Mickiewicz dopo una grande Improvvisazione. Qualcosa di simile provò Cartesio il 10 novembre 1619. Egli considerava per sé quel giorno importante come la data di nascita. Allora infatti gli venne la sua idea in una luce abbagliante. Quell’attimo fu preceduto dapprima da uno stato di raccoglimento, di profonda quiete interiore, cui fece seguito una fortissima eccitazione. Baillet, il suo biografo, riferisce: “Era esausto al punto di rischiare una encefalite, e la mente infocata dall’entusiasmo partoriva sogni e visioni”. Alla fine Cartesio cadde in ginocchio e promise un pellegrinaggio alla Madonna, affidando alla Sua tutela la creazione della sua mente. E chi si sarebbe atteso da un nemico dell’ispirazione come Paul Valéry, che egli trascorresse a Genova una memorabile notte, rivelatasi poi decisiva per tutta la sua vita spirituale?

   Sono noti gli strani sintomi che accompagnavano le improvvisazioni di Mickiewicz: si alterava in viso, impallidiva, con uno sforzo furioso declamava i versi, tenendo gli ascoltatori in una tensione magnetica. Il dolce suono del flauto gli era d’aiuto, come se accordasse lo strumento della sua poesia. Fenomeni simili furono notati anche in altri poeti, e importuni meduncoli cercavano in essi i sintomi dell’epilessia, per lo più senza alcun motivo. L’improvvisazione attirava i poeti, era considerata un dono particolare, finché non si degradò a gioco di società o a un grottesco preso sul serio, come si trova nella onesta Deotyma.

   Cosa degna di considerazione: esiste una stretta affinità nel meccanismo dell’improvvisazione, sia quella di prima grandezza, sia quella paragonabile a un candido gioco, e questa cosa è lo stimolo della necessità. L’ispirazione per necessità da secoli era nota agli oratori. Anche dalla descrizione del loro comportamento si possono scorgere esattamente gli stessi fenomeni riscontrati nei poeti improvvisatori. E’ infatti la lotta con il burrone, sul cui ciglio si trova l’oratore, che ha davanti l’incredibile sfolgorio degli occhi fissi su di lui. Le prime parole lo sollevano su una distesa pericolosa come le ali di Icaro: l’uomo resiste o con una grande forza di spirito, oppure con la pratica, l’esperienza e la routine.

   Agli scrittori questo tipo di ispirazione era sconosciuto, quando l’opera poteva maturare a lungo, secondo la volontà dell’autore. Una eccezione erano i poeti drammatici, che spesso sperimentavano lo sprone della necessità tra i capricci del repertorio, del cambiamento dei gusti, delle richieste di circostanza. Ai nostri tempi, cioè più o meno da un secolo e mezzo, nella professione dello scrittore la necessità è la buona fata, il genio o il demone. Il termine fissato nel contratto, la parte del manoscritto data per la composizione, la stampa di un romanzo a puntate e circostanze analoghe, diventano un pungente stimolo che trae dallo scrittore una segreta energia, e tutto si svolge in un impeto improvviso, e un po’ anche nello stordimento. Gli scrittori si lamentano di questi fastidi della professione, ai quali tuttavia sono debitori di buone pagine, di eccellenti conclusioni, spesso perfino della scorrevolezza dello stile, ciò che sperimentò Sainte-Beuve, quando l’impegno dei feuilleton settimanali non gli lasciava il tempo di rivestire le frasi di una raffinatezza di vecchio stampo.

   Sainte-Beuve, anche se uscito dai romantici, non poteva più permettersi l’antica elevata ispirazione, giacché a metà del secolo XIX essa subì una severa sconfitta. Ecco il credo di Stendhal: “Nel 1806 non avevo ancora cominciato a scrivere, finché non ho sentito in me il genio. Se intorno al 1795 avessi potuto conversare sui miei propositi letterari con una persona sensata e se essa mi avesse detto di scrivere ogni giorno per due ore, con o senza il genio, non avrei sprecato dieci anni della mia vita nella stupida e lunga attesa delle ispirazioni”. E da quel momento egli migliorò tanto da terminare la Certosa di Parma in poco meno di due mesi, grazie a un lavoro sistematico. Flaubert non avrebbe scritto neanche un capitolo in così breve tempo, ma egli non aveva bisogno del consiglio di nessuno, per giungere alla stessa saggezza. Nessuno come lui in quell’epoca ancora frusciante di romanticismo, ed essendone profondamente imbevuto, si schierò con tanta ira contro l’ispirazione. La considerava un pretesto per i bricconi e un veleno per l’attività creativa. “L’ispirazione – affermava – consiste nel mettersi ogni  giorno al lavoro alla stessa ora”.

   Ma ascoltiamo un’altra testimonianza: “L’ispirazione è decisamente sorella del lavoro quotidiano. Questi due contrari non si escludono come tutti i contrari, di cui è composta la natura. Esiste nella mente una specie di meccanica celeste, di cui non bisogna vergognarsi, ma bisogna dominarla, come i medici dominano la meccanica del corpo”. Chi mai lo dice? Uno zingaro, un poète maudit, un collezionista di mormorii dell’anima, un amante degli stati d’animo e al tempo stesso un intransigente cesellatore del verso, il Cellini della parola poetica – Baudelaire. E senza alcuna reticenza, per sbarrare al genio, cui sono state spennate le ali, tutte le strade per le quali potrebbe insinuarsi, aggiunge: “L’ispirazione dipende da pasti regolari e gustosi”. Non lo disse per scherzo: i Francesi in queste cose non scherzano. Da loro i poeti non hanno mai cercato modelli tra le effimere, che hanno le ali, ma non hanno lo stomaco.

   Oggi siamo ancora nella scia di questa tradizione relativamente giovane, che ha sostituito l’antica ispirazione con altri idoli: Lavoro, Pazienza, Volontà. Senza una forte volontà non c’è un grande creatore. Tuttavia è davvero una scoperta di recente data? Queste parole di Dante lo smentiscono in modo chiaro: “Seggendo in piuma, in fama non si vien, ne sotto coltre”.

 

(C) by Paolo Statuti

Paolo Statuti – La traduzione della poesia

15 Gen

La traduzione poetica

   Le mie prime traduzioni di poesia risalgono all’inizio degli anni ’70, quando frequentavo la facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne (ramo slavo) all’Università di Roma. Un giorno chiesi all’assistente del mio professore Angelo Maria Ripellino, quale fosse secondo lui la migliore traduzione italiana del poema “I dodici” di Aleksandr Blok. Egli me ne indicò un paio ma poi, vista forse la mia faccia poco convinta, aggiunse con una velata punta d’ ironia: “Se queste versioni non la soddisfano, può sempre tradurselo da sé”. Accolsi senza indugio l’invito e il risultato fu una nuova versione del poema, che piacque subito e venne pubblicata dalla “Fiera Letteraria” (F.L. n. 18, 13.6.1971). Al poema di Blok hanno fatto seguito numerosi altri “tentativi” personali, a detta di molti pienamente riusciti. Tra i primi successi conseguiti in questo campo, mi piace ricordare l’antologia di poeti polacchi contemporanei, annessa alla “Guida alla moderna letteratura polacca” di Jerzy Pomianowski (Bulzoni Editore, Roma 1973), nella quale figurano 60 poesie di autori diversi nella mia versione.

   Oltre ai poeti polacchi, tra gli altri da me tradotti ci sono: Edgar Allan Poe, Thomas Moore, santa Teresa d’Avila, J. Wolker, Karel Havliček Borovsky, A. Blok, V. Chlebnikov, E. Bagrickij, W. Chodasewicz, V. Inber. L’ultimo mio importante lavoro è uscito a novembre del 2010: Marek Baterowicz, Canti del pianeta, Ed. Empirìa, Roma. Attualmente mi sto cimentando con la poesia di Boris Pasternak, un poeta che amo molto e che mi consente in modo ideale di affinare il mio impegno e il mio entusiasmo.

   Considero un testo poetico da tradurre come un testo musicale da interpretare, ma mentre il virtuoso concertista deve fare appello unicamente alla sua tecnica e sensibilità artistica, il traduttore deve, in aggiunta, utilizzare un diapason diverso da quello del testo originale, nella speranza di raggiungere, per quanto è possibile, lo stesso effetto e gli stessi pregi nella sua propria lingua. Non ricordo chi disse: “La traduzione è il rovescio di un tappeto: i rabeschi sbiadiscono. E tuttavia i traduttori si sforzano di rendere la vivezza dei colori e le sfumature dei toni”. Ad esempio, traducendo “Il corvo” di Edgar Allan Poe, ho cercato di riprodurre il più fedelmente possibile il suggestivo e arduo gioco di rime, assonanze, allitterazioni, la musica allucinante e patetica che pervade questa funebre canzone del rimpianto, lascio ad altri giudicare se ci sono riuscito.

   Si è scritto e si scrive molto sull’arte della traduzione poetica, e sulle possibilità e qualità della stessa esistono pareri diversi. Alcuni, come ad esempio Vladimir Nabokov nel suo articolo “Problems in translation: Onegin in English”, ritengono che ogni traduzione poetica sia una mistificazione, e che sia meglio limitarsi a fornire il senso generale, preferendo la traduzione letterale o addirittura in prosa. P.B. Shelley, perennemente insoddisfatto della sua traduzione del “Faust” di Goethe, nella sua opera “Defense of Poetry”, si dichiara più a favore della imitazione, che della traduzione letterale. Egli intende l’imitazione come nuova creazione poetica e per questo raccomanda che il traduttore sia anche poeta, raccomandazione fatta anche da altri, come ad esempio il poeta russo Nikolaj Gumiliov nel suo articolo “Le traduzioni poetiche”. Questa a mio parere è una condizione molto importante, anche se ovvia. Però, secondo Shelley, il successo è un fatto casuale. Più spesso accade che il traduttore “adombra con il grigio velo delle sue parole la vivida poesia dell’originale e modifica il testo al punto che nelle mani del lettore non rimane altro che un caput mortuum”. In altre parole, qui più che la figura del traduttore-traditore, appare quella del traduttore-uccisore. Malgrado questi timori, Shelley come si sa, tradusse dal tedesco, dall’italiano e dal latino, sempre con grande passione, anche se non sempre pienamente soddisfatto.

   Oltre a questi pareri così autorevoli, ma piuttosto pessimistici, ce ne sono altri, secondo i quali, a certe condizioni, è possibile creare delle buone traduzioni poetiche. Artur Sandauer, critico letterario, saggista e traduttore polacco, scrive che “compito della traduzione poetica non è quello di abbigliare semplicemente il contenuto dell’originale con la veste di un’altra lingua, ma quello di crearne una nuova, quanto più possibile simile a quella del testo da tradurre…Il lavoro del traduttore della poesia consisterà quindi nel suscitare un’impressione simile a quella del testo originale…Costretti dalle condizioni della traduzione, che è sempre un sistema di compromessi, a volte rinunciamo ai valori secondari a favore dei principali…purché sia salva la generale identità di senso e stile”. Vorrei riportare ora un bel brano di una lezione dello scrittore polacco Jan Parandowski, dedicata alla traduzione letteraria: “Il traduttore, se vuole essere degno dei suoi autori, non può fare a meno delle proprie capacità creative, dell’inventiva, dello slancio, dell’intuito…Quanta bellezza lo attende per la sua fatica…E quanto è bella la fatica stessa!…E’ un fatto straordinario, una insolita e inebriante avventura. Scegliere la cadenza delle frasi, decidere quale tra dieci sinonimi sia proprio quello che rende il testo comprensibile…e gli dà una nuova vita – non di un automa, ma di una creatura come generata nella libertà dello sforzo creativo”. Proprio queste parole dello scrittore polacco spiegano, tra l’altro, perché io ami tanto tradurre la poesia.

   Mi rendo conto che realizzare una traduzione che uguagli perfettamente l’originale è pura utopia, o un caso molto fortunato, come dice Shelley. Personalmente cerco di ricreare con fedeltà il testo poetico, sia pure con certi inevitabili mancamenti. Mi piace conservare le rime, anche se ciò costringe a volte ad allontanarsi dall’originale e a creare nuove immagini, pur restando esse consone al pensiero del poeta e allo spirito del testo da tradurre. Sì, mi piace mantenere le rime perché esse, se non sono banali, costituiscono un’ulteriore sfida, un’ulteriore soddisfazione, e aiutano a conservare la musicalità del verso, come ad esempio in Pasternak.

   Da questo punto di vista, vorrei attirare l’attenzione di chi mi legge sulle difficoltà lessicali e fonetiche della bellissima e magica poesia “Trasformazioni” del poeta polacco Boleslaw Lesmian.

 

Boleslaw Lesmian (1877-1937)[044]

Trasformazioni

 

Soffocante era il buio e di brama – una morsa,

E il fiordaliso, schiarito da un lampo muto,

Trafisse le pupille ad un capriolo in corsa

Nel bosco, sorpreso da un occhio sconosciuto –

E il fiore, azzurrandolo, saltava capriolamente,

E alla fiordaliso guardava il mondo avidamente.

 

Un papavero, là, nel campo senza fine

Si scoprì, e con un grido privo di suono

Si trasanguò in un gallo in piume porporine,

E la scarlatta cresta scosse con frastuono,

E cantò nella notte con terrore insano,

Fino all’eco dei galli veri da lontano.

 

L’orzo, indoratosi d’anelito addensato,

Rizzò le spighe dalla rabbia avvelenate,

Si traschiacciò scricchiando in un riccio dorato,

E corse via pungendo verdi  barricate,

Guaì, e ai fiori tenne il broncio, inciprignito,

E nessuno saprà mai ciò che ha visto e sentito.

 

Ed io – per quale ortica or l’anima mi brucia,

E tra i campi, furtive, le mie gambe vanno?

Perché ora i fiori mi guardan con sfiducia?

Forse qualcosa oscura di me – chissà – sanno?

Che ho fatto per premermi le mani sulla testa?

Chi ero quella notte di cui più nulla resta?

 

   Nella mia traduzione ho cercato di ricreare ritmo, rime, metro e suono. A volte uniformandomi allo stesso Lesmian, ho dovuto inventare dei neologismi, come ad esempio “capriolamente”, “si trasanguò”, “si traschiacciò”, o usare parole non comuni, come “scricchiando” anziché scricchiolando o “inciprignito” anziché accigliato, o creare delle allitterazioni, molto frequenti nel testo polacco:…la scarlatta cresta scosse…si traschiacciò scricchiando…chissà – sanno.  Per via della rima, infine, ho cambiato  alcune parole (poche, in verità), ricorrendo quindi al “compromesso” di cui parla Sandauer.

   Potrei dilungarmi ancora su questo tema, ma mi sembra sufficiente quanto già scritto. Per concludere toccherò ancora una volta il tasto della musicalità, raccontandovi cosa avvenne a Nairobi verso la fine degli anni ’70, quando ero impiegato dell’Alitalia presso l’ufficio di rappresentanza per il Kenya. Un giorno l’Ambasciata Polacca organizzò per me un incontro di poesia. Qualcuno leggeva il testo polacco, mentre io leggevo la mia versione italiana. La sala era al completo e l’incontro riuscì bene. Al termine dello stesso l’ambasciatore  mi ringraziò e aggiunse: – Non capisco una parola d’italiano, ma il suono delle sue versioni mi è piaciuto molto.

                                                                                    Paolo Statuti