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Ewa Lipska

25 Giu

Ewa Lipska


 

   Poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia il 10 ottobre 1945. Nella stessa città si è diplomata presso l’Accademia di Belle Arti. Dal 1970 al 1980 responsabile del settore poesia della casa editrice Wydawnictwo Literackie. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto diversi importanti premi per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte in molte lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: “Ja” (Io, 2004), “Pogłos” (Rimbombo, 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e “Droga pani Schubert…” (Cara signora Schubert…, 2012).

   Per il suo anno di nascita e per quello del debutto, avvenuto nel 1967 con il volume “Wiersze” (Poesie), Ewa Lipska appartiene al gruppo di poeti della “Nowa Fala”, in polacco “nuova ondata” o “nouvelle vague”, o detta anche “generazione ‘68”, vale a dire gli autori nati intorno alla metà degli anni ’40, come: Stanisław Barańczak, Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Julian Kornhauser e Krzysztof Karasek (nato nel 1937).

   La poetessa tuttavia rifiuta ogni appartenenza a qualsivoglia gruppo  e da anni manifesta coerentemente la propria individualità creativa, sempre peculiare, come peculiari ed espressivi sono la sua dizione poetica, le metafore, la densità di significato, il paradosso. Qualcuno a tale proposito ha detto che la creazione di Ewa Lipska è nella poesia polacca contemporanea, quello che l’ablativo assoluto è nella sintassi latina, cioè un sintagma a sé stante.

   La sua poesia si concentra sui sentimenti della sofferenza e della paura, sulla fragilità dell’esistenza condannata a morire. Piotr Matywiecki, poeta, critico letterario e saggista scrive: “La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska). Si avrebbe voglia di dire la Lipska è una poetessa sociale nel senso che non c’è per lei niente di intimo che non sia al tempo stesso quotidiano, formulabile sociologicamente”.

   Di Ewa Lipska, che è indubbiamente una delle più importanti poetesse polacche contemporanee, vogliate ora leggere alcune sue poesie nella mia versione.

Ewa Lipska tradotta da Paolo Statuti

 

L’esame

L’esame per il posto di re

andò a meraviglia.

Si presentarono alcuni re

e un apprendista re.

Fu scelto re un certo re

che doveva essere re.

Ottenne punti extra per le origini

l’educazione spartana

e per il sorriso

che prese tutti alla gola.

In storia rivelò

notevoli capacità di sorvolare.

La lingua obbligatoria

risultò la sua madrelingua.

Quando toccò il tema dell’arte

avvinse il cuore della commissione.

Uno dei membri della commissione

avvinse un po’ troppo forte.

quello era davvero un re.

Il presidente della commissione

corse a chiamare il popolo

per consegnarlo solennemente

al re.

Il popolo

era rilegato

in pelle.

 

A due voci

– Non sarò più tua moglie.

– Non sarò più tuo marito.

– I bambini non capiranno cos’è accaduto.

– Bisogna mandarli al cinema.

– I segugi dei miei pensieri hanno fiutato

la separazione.

– Una grossa cicatrice dopo questo amore

resterà.

– Lo seppelliremo visto che è giunto

così insensato.

– Le sentinelle dei ricordi metteremo

 presso la bara.

– Quanto si può tenere un cadavere

in casa?

– Quanto si può tenere un cadavere

nel cuore?

– Faremo brevi discorsi.

– Gli augureremo ogni bene.

– Affinché non ritorni.

– Forse ancora una volta…

– Non ci troverà in casa. Andiamo in tintoria.

– Troppo incauti siamo stati con noi stessi.

Prima dell’alluvione fuggivamo verso il fiume.

– Prima della siccità fuggivamo verso il sole.

Eternamente stanchi abusavamo della farmacia.

– Coprivamo le orecchie quando l’orologio ci minacciava

sonando l’allarme sonando l’allarme.

– Ci separavamo per ulteriori incontri

su una funivia. Fissando il baratro

sceglievamo l’amore che ci occorreva.

– Eravamo atterriti dalla profondità del destino.

– Soli come il deserto che non spera più nel cielo.

– E soltanto del nostro amore ancora

la camicetta di seta. Del nostro amore

il pettine.

– E le labbra

che impediscono l’accesso alla parola.

– La sera fa già fresco.

Prendiamo i cappotti dei bambini.

– E andiamogli incontro.

Il cinema è lontano.

 

Il giorno dei Vivi

Nel giorno dei Vivi

i morti giungono alle loro tombe

– accendono le luci al neon

e piantano i crisantemi delle antenne

sui tetti dei multipiani sepolcri

a riscaldamento centralizzato.

Poi

scendono con gli ascensori

verso il quotidiano lavoro:

la morte.

 

Mia sorella

Mia sorella ancora non sa

che il mondo è condannato all’atlante.

E l’atlante è un enorme piatto eternamente affamato.

E’ un giornale di paesi-modelli ritagliati. A volte fuori moda.

Che all’improvviso tutto è chiaro quando si esce dal cinema.

Che le idee aderiscono perfettamente ai manichini.

Che non c’è morte che serva di esempio.

Che la morte è soltanto di natura.

Che volendo guardare il cielo bisogna

portarlo prima alla censura.

Che il più alto sapere è nella biblioteca dello spazio.

Che l’amore è amore. E l’amore è un giardino.

Che in questo giardino bisogna sfuggire l’autunno.

Che in un giardino non si può sfuggire l’autunno.

Che nessuno impedirà più la divisione delle cellule.

Che la vita è finita quando comincia.

Che Isolda è vecchia. Soffre di reumatismi.

Che la storia è una grande pattumiera.

Serve a far sparire le date e a spaventare i bambini.

Che quando la notte per un attimo gli occhi ci adombra

si risvegliano in noi gli uccelli gridando: Terra! Terra!

E allora scopriamo un nuovo continente: l’Uomo

che sulle palpebre la calda mano ci posa…

Ma mia sorella sa già

Che A come Ada.

 

*  *  *

Non mi ha salvata l’alluvione

benché giacessi già sul fondo.

Non mi ha salvata l‘incendio

benché bruciassi per molti anni.

Non mi hanno salvata le disgrazie

benché mi investissero treni e automobili.

Non mi hanno salvata gli aerei

che sono esplosi con me nell’aria.

Si sono abbattute su di me

le mura di grandi città.

Non mi hanno salvata i funghi velenosi

né i precisi tiri dei plotoni d’esecuzione.

Non mi ha salvata la fine del mondo

perché non ne ha avuto il tempo.

Nulla mi ha salvata.

VIVO.

 

Certificato di garanzia

La nostra macchina da matrimonio

si è inceppata all’improvviso.

E benché continuiamo

a pelare i pomodori

a tagliare sottilmente l’aglio

a infarcire la serata

di parole sul sesso

e a mangiare ricordo

dopo ricordo

cerchiamo nervosamente

il certificato di garanzia

che mantiene la parola.

 

 

 

Nessuno

Sono d’accordo su questo paesaggio

che non esiste.

Mio padre regge nella mano il violino.

I bambini leccano il suono.

La corrente d’aria

investe i petali delle rose.

Poi la guerra. Ci perdiamo di vista.

A frasi intere si celano le parole.

La stanza vuota

parcheggiata nell’oscurità

dell’edificio.

Prego lasciare un biglietto

dice nessuno.

 

Natura morta

La natura morta comincia a guastarsi.

Arrugginiscono le viti dei giaggioli. Dalla frutta

di Chardin Courbet Cézanne

si leva un odore nauseante.

La tela perde la vista.

Nel bicchiere una pietra di vino.

Insopportabile il nero.

Profetiche visioni

dei dittatori della moda:

si approssima l’epoca dei lampi.

Piante terrestri anfibi e mammiferi

soffierà via il corno.

Il tempo accadrà sempre più raramente.

Sarà sempre più breve. Sempre di meno.

Dunque togli dalla borsetta il nostro amore.

E affrettati. Un brandello di oltremare

annuncia che faremo in tempo a ridere.

 

Amore

L’amore è un indovino.

Prevede se stesso te e me.

E’ del popolo eletto

e usa una lingua

ad alta tensione.

Nella Biblioteca Nazionale

macchia perfino

i libri poco letti.

In una valanga di cori

scopre un’eco

di euforia e di morte.

E quando ti raggiungerà

cerca di essere in casa.

O qualcosa del genere.

Pur di incontrarvi.

 

 

Sogno

Il sogno mi dava quindici possibilità.

Tre vie d’uscita da una situazione alquanto difficile.

In una di esse bisognava usare la chiave

che tenevo in mano.

Nel sogno proiettavano un film sulla fine del mondo.

Nessuno dei presenti in sala ha chiesto: e dopo?

Le poesie scritte nel sogno erano molto buone.

Quelle non scritte affatto – non erano peggiori.

Il tempo era come doveva essere.

Bisognava con tutto questo andare verso la veglia.

Mi ha sorpassata un gruppo di atleti

che correvano oltre il tempo.

Una vecchietta ha preso un sonnifero

ed è tornata indietro.

La veglia è sopraggiunta inattesa.

Le ho comunicato soltanto il dolore alla testa

posata male sul bianco cuscino.

Forse

Forse ancora mi resterà

sbiadita come inutile verso

una fotografia. L’ultima separazione

il cielo con la pioggia svolgerà su tamburi.

E il giorno verrà il giorno verrà il giorno verrà

nel tuo grigio stinto vestito

nella fotografia così piccola così concisa

che è possibile stringere in una mano.

E più non so più non so più non so

se tu eri o sei o sarai

forse guardi e di rimpianto è il grigiore

forse soltanto con noncuranza gioisci

forse pensi che la vecchiaia già vecchiaia

adesso da me con impeto si affretti.

Tu ti sei fermata e aspetti. Io sono in cammino.

Tu negli occhi aperti ti sei fermata.

Ed io guardare non posso non posso.

Perciò guardo mortalmente ostinata.

 Vetri

Che pena guardare quei vetri oblunghi.

Donne assonnate si tolgono il trucco dal volto.

E accanto cupi passano i viaggiatori.

Dietro di loro c‘è il paesaggio. La truppa marcia.

Nel paesaggio ci sono i tavoli. Sui tavoli c’è il vino.

A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il sorriso.

E nel sorriso c’è la tristezza. E tutto è come al cinema

in quei vetri oblunghi. Nella ragazza c’è il sorriso.

 

Fa pena guardare. Donne assonnate.

Nelle donne c’è l’amore. Nell’amore c’è la fine.

E poi ci sono solo vetri oblunghi

e la tristezza. Viaggiatori. Nell’amore c’è la fine.

 

Nei viaggiatori c’è il treno. Battono in essi le ruote.

E nelle ruote c’è l’eternità. Nell’eternità c’è la paura.

E nella paura c’è il silenzio. E nel silenzio il più silenzioso.

Nei viaggiatori c’è il treno. E il continuo gioco delle ruote.

 

Che pena guardare. La truppa marcia.

Nel soldato c’è la pallottola. E nella pallottola c’è la morte.

E nella morte c’è tutto e nulla c’è nella morte.

E nel sorriso c’è la tristezza. Nell’amore c’è la fine.

 

A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il cuore.

E nel cuore c’è un soltato. Nel soldato c’è la pallottola.

E piange la ragazza. Passano i viaggiatori.

La fresca notte si specchia nei vetri oblunghi.

 

 

(C) by Paolo Statuti