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Edgar Allan Poe

15 Gen

Edgar Allan Poe

 

IL CORVO  interpretato da Paolo Statuti

Era mezzanotte e sconforto, e stanco, annoiato, ero assorto

In strambi volumi di scienza d’obliata memoria –

Illustrazione di Gustave Doré: Irrompe solenne un Corvo dei santi giorni di allora. Non una riverenza; svolazzava con impazienza...

Illustrazione di Gustave Doré: Irrompe solenne un Corvo dei santi giorni di allora. Non una riverenza; svolazzava con impazienza…

 

M’ero assopito, quando un battito lieve a un tratto ho udito,

Come se qualcuno bussasse, bussasse alla mia dimora.

“E’ una visita,” borbotto, “che batte alla mia dimora –

                                             Questo solo e nulla ancora.”

Ah, rammento chiaramente, era uno squallido dicembre;

E la brace morente specchiava in terra la sua scoria.

Con ansia desiderai il mattino; – invano chiesi persino

Ai miei libri una tregua al dolore per la persa Lenora –

Per la radiante fanciulla che gli angeli chiaman Lenora –

                                   Che qui non ha nome, mai più ancora.

 E il triste, esitante frusciare d’ogni tenda all’istante

Mi turbò e colmò di vaghi terrori mai provati finora;

Per sopire il fremito del cuore, pensavo nel torpore

“E’ una visita che prega d’entrare nella mia dimora –

Una tarda visita che prega d’entrare nella mia dimora; –

                                                   E’ questo e nulla ancora.”

                                                

Or l’animo era più forte; non indugiando oltre ,

“Sinceramente,” dico, “imploro perdono, Signore o Signora;

M’ero appisolato, e così lievemente voi bussate,

Così debolmente battete, battete alla mia dimora,

Che a stento v’ho sentito” –  qui apro l’uscio della dimora; –

                                                    Solo buio e nulla ancora.

 

Nel fondo il buio frugando, a lungo restai esitando;

Temevo e sognavo sogni mai sognati finora;

Ma il silenzio restò inviolato, nessun segno fu dato,

E la sola parola detta e sussurrata fu “Lenora!”

Questo sussurrai, e un’eco di rimando bisbigliò “Lenora!”

                                                    Solo questo e nulla ancora.                                                                             

 

Nella stanza ritornai, l’anima ardendo come mai

Ed ecco un battito più forte, non udito finora.

“Di certo,” dico, “di certo c’è qualcosa alla finestra;

Guardiamo, dunque, cosa c’è, e il mistero sveli ora –

O cuore quietati un momento e il mistero sveli ora; –

                                             Questo è il vento e nulla ancora!”

Qui spalanco le imposte, quando, con buffi scarti e scosse

Irrompe solenne un Corvo dei santi giorni d’allora.

Non una riverenza; svolazzava con impazienza;

Poi, come una gran dama, si posa sull’uscio della dimora –

Si posa sul busto di Atena sull’uscio della dimora –

                                                   Si posa e nulla ancora.

Già il nero uccello volgeva al riso il mio triste rovello,

Con tutto il severo e grave decoro della sua boria,

“Hai il ciuffo raso e sottile,” dico, “ma non sei certo un vile,

Orrendo, antico Corvo che vaghi dalla Notturna proda –

Dimmi qual è il tuo nome sulla Notturna Plutonia proda!”

                                                   Disse il Corvo, “Mai più ancora.”  

                                                    

Resto sbalordito da ciò che il buffo uccello ha proferito,

Benché la sua risposta non fosse che una stolta storia;

Perché dobbiam convenire che nessun essere umano

Ha mai visto un uccello sull’uscio della sua dimora –

Sul busto scolpito sopra l’uscio della sua dimora,

                                                     Con tal nome “Mai più ancora.”

Ma il Corvo, stando sul placido busto, disse soltanto

Questo, quasi l’anima ponesse in quell’unica parola.

Null’altro egli pronunciò – non una piuma egli vibrò –

E a stento mormorai “Altri amici sono andati finora –

Domani anch’egli andrà, come i sogni svaniron finora.”

                                                        Ma egli disse “Mai più ancora.” 

  

Trasalii alla quiete turbata da tal replica sensata,

“Certo,” dissi, “quel che dice è solo ciò che ha tuttora,

Preso da un padrone dolente che uno spietato Accidente

Incalzò finch’ebbero i suoi canti quel motivo ognora –

Finch’ebbero i pianti della sua Speme quel motivo ognora –

                                                                  “Mai – mai più ancora.”

Ma ancor l’Uccello volgendo al riso il mio triste rovello,

Spinsi una sedia di fronte a lui e all’uscio della dimora;

E, nel velluto sprofondando, presi a pensare, legando

Fantasia a fantasia, all’uccello del tempo d’allora –

A ciò che intendeva il bieco, goffo, orrendo uccello d’allora

                                                          Gracchiando “Mai più ancora.”

Intento a indovinare, non trovai motto da replicare

All’uccello i cui occhi ardenti mi bruciavano nel cuore;

Così sedevo immerso nei presagi, il capo riverso

Sull’imbottitura che la lampada frugava ognora,

Sul velluto viola che la lampada frugava ognora,

                                         E ch’ella non premerà, mai più ancora!

Poi l’aria mi sembrò più densa, come satura d’incenso

Sparso da Serafini tintinnanti nella dimora.

“Misero,” gridai, “il tuo Dio t’ha dato – e con gli angeli inviato

Respiro – respiro e nepente dal ricordo di Lenora;

Bevi , oh, bevi il nepente e dimentica la persa Lenora!”

                                                     Disse il Corvo “Mai più ancora.”

“Profeta! maligno!” risuono, “profeta, uccello o demonio! –

Che ti mandi il Tentatore, o t’abbia spinto la bufera,

Squallido eppur ardito, in questo deserto stupito –

In questa casa dell’Orrore – svela il vero a chi t’implora –

C’è – c’è  balsamo in Ghilead? – svela – svela a chi t’implora!”

                                                        Disse il Corvo “Mai più ancora.”

“Profeta! maligno!” risuono – “profeta, uccello o demonio!

Per quel Ciel che ci guarda – per il Dio che come te adoro –

Di’ a quest’anima dolorante se in quell’Eden distante,

Rivedrà la santa fanciulla che gli angeli chiaman Lenora –

La rara radiante fanciulla che gli angeli chiaman Lenora.”

                                                  Disse il Corvo “Mai più ancora.”

Levandomi gridai “Sia questo il commiato, uccello o dannato! –

Torna alla bufera e alla Notturna Plutonia proda!

Non lasciar nera piuma qual traccia della tua fallacia!

La solitudine resti immutata! – lascia la mia dimora!

Via il tuo becco dal mio cuore, e il tuo aspetto dalla mia dimora!

                                                   Disse il Corvo “Mai più ancora.”

E il Corvo rimane immoto, ancor rimane, senza un moto,

Sul cereo busto di Atena sull’uscio della mia dimora;

Gli occhi in quell’istante aveva d’un demone sognante,

E il lume gettava la sua ombra sul suolo della dimora;

E la mia anima dall’ombra che vaga nella dimora

                                              Non si solleverà – mai più ancora!

(C) by Paolo Statuti. Riproduzione riservata.

 

 

 

 

Paolo Statuti – La traduzione della poesia

15 Gen

La traduzione poetica

   Le mie prime traduzioni di poesia risalgono all’inizio degli anni ’70, quando frequentavo la facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne (ramo slavo) all’Università di Roma. Un giorno chiesi all’assistente del mio professore Angelo Maria Ripellino, quale fosse secondo lui la migliore traduzione italiana del poema “I dodici” di Aleksandr Blok. Egli me ne indicò un paio ma poi, vista forse la mia faccia poco convinta, aggiunse con una velata punta d’ ironia: “Se queste versioni non la soddisfano, può sempre tradurselo da sé”. Accolsi senza indugio l’invito e il risultato fu una nuova versione del poema, che piacque subito e venne pubblicata dalla “Fiera Letteraria” (F.L. n. 18, 13.6.1971). Al poema di Blok hanno fatto seguito numerosi altri “tentativi” personali, a detta di molti pienamente riusciti. Tra i primi successi conseguiti in questo campo, mi piace ricordare l’antologia di poeti polacchi contemporanei, annessa alla “Guida alla moderna letteratura polacca” di Jerzy Pomianowski (Bulzoni Editore, Roma 1973), nella quale figurano 60 poesie di autori diversi nella mia versione.

   Oltre ai poeti polacchi, tra gli altri da me tradotti ci sono: Edgar Allan Poe, Thomas Moore, santa Teresa d’Avila, J. Wolker, Karel Havliček Borovsky, A. Blok, V. Chlebnikov, E. Bagrickij, W. Chodasewicz, V. Inber. L’ultimo mio importante lavoro è uscito a novembre del 2010: Marek Baterowicz, Canti del pianeta, Ed. Empirìa, Roma. Attualmente mi sto cimentando con la poesia di Boris Pasternak, un poeta che amo molto e che mi consente in modo ideale di affinare il mio impegno e il mio entusiasmo.

   Considero un testo poetico da tradurre come un testo musicale da interpretare, ma mentre il virtuoso concertista deve fare appello unicamente alla sua tecnica e sensibilità artistica, il traduttore deve, in aggiunta, utilizzare un diapason diverso da quello del testo originale, nella speranza di raggiungere, per quanto è possibile, lo stesso effetto e gli stessi pregi nella sua propria lingua. Non ricordo chi disse: “La traduzione è il rovescio di un tappeto: i rabeschi sbiadiscono. E tuttavia i traduttori si sforzano di rendere la vivezza dei colori e le sfumature dei toni”. Ad esempio, traducendo “Il corvo” di Edgar Allan Poe, ho cercato di riprodurre il più fedelmente possibile il suggestivo e arduo gioco di rime, assonanze, allitterazioni, la musica allucinante e patetica che pervade questa funebre canzone del rimpianto, lascio ad altri giudicare se ci sono riuscito.

   Si è scritto e si scrive molto sull’arte della traduzione poetica, e sulle possibilità e qualità della stessa esistono pareri diversi. Alcuni, come ad esempio Vladimir Nabokov nel suo articolo “Problems in translation: Onegin in English”, ritengono che ogni traduzione poetica sia una mistificazione, e che sia meglio limitarsi a fornire il senso generale, preferendo la traduzione letterale o addirittura in prosa. P.B. Shelley, perennemente insoddisfatto della sua traduzione del “Faust” di Goethe, nella sua opera “Defense of Poetry”, si dichiara più a favore della imitazione, che della traduzione letterale. Egli intende l’imitazione come nuova creazione poetica e per questo raccomanda che il traduttore sia anche poeta, raccomandazione fatta anche da altri, come ad esempio il poeta russo Nikolaj Gumiliov nel suo articolo “Le traduzioni poetiche”. Questa a mio parere è una condizione molto importante, anche se ovvia. Però, secondo Shelley, il successo è un fatto casuale. Più spesso accade che il traduttore “adombra con il grigio velo delle sue parole la vivida poesia dell’originale e modifica il testo al punto che nelle mani del lettore non rimane altro che un caput mortuum”. In altre parole, qui più che la figura del traduttore-traditore, appare quella del traduttore-uccisore. Malgrado questi timori, Shelley come si sa, tradusse dal tedesco, dall’italiano e dal latino, sempre con grande passione, anche se non sempre pienamente soddisfatto.

   Oltre a questi pareri così autorevoli, ma piuttosto pessimistici, ce ne sono altri, secondo i quali, a certe condizioni, è possibile creare delle buone traduzioni poetiche. Artur Sandauer, critico letterario, saggista e traduttore polacco, scrive che “compito della traduzione poetica non è quello di abbigliare semplicemente il contenuto dell’originale con la veste di un’altra lingua, ma quello di crearne una nuova, quanto più possibile simile a quella del testo da tradurre…Il lavoro del traduttore della poesia consisterà quindi nel suscitare un’impressione simile a quella del testo originale…Costretti dalle condizioni della traduzione, che è sempre un sistema di compromessi, a volte rinunciamo ai valori secondari a favore dei principali…purché sia salva la generale identità di senso e stile”. Vorrei riportare ora un bel brano di una lezione dello scrittore polacco Jan Parandowski, dedicata alla traduzione letteraria: “Il traduttore, se vuole essere degno dei suoi autori, non può fare a meno delle proprie capacità creative, dell’inventiva, dello slancio, dell’intuito…Quanta bellezza lo attende per la sua fatica…E quanto è bella la fatica stessa!…E’ un fatto straordinario, una insolita e inebriante avventura. Scegliere la cadenza delle frasi, decidere quale tra dieci sinonimi sia proprio quello che rende il testo comprensibile…e gli dà una nuova vita – non di un automa, ma di una creatura come generata nella libertà dello sforzo creativo”. Proprio queste parole dello scrittore polacco spiegano, tra l’altro, perché io ami tanto tradurre la poesia.

   Mi rendo conto che realizzare una traduzione che uguagli perfettamente l’originale è pura utopia, o un caso molto fortunato, come dice Shelley. Personalmente cerco di ricreare con fedeltà il testo poetico, sia pure con certi inevitabili mancamenti. Mi piace conservare le rime, anche se ciò costringe a volte ad allontanarsi dall’originale e a creare nuove immagini, pur restando esse consone al pensiero del poeta e allo spirito del testo da tradurre. Sì, mi piace mantenere le rime perché esse, se non sono banali, costituiscono un’ulteriore sfida, un’ulteriore soddisfazione, e aiutano a conservare la musicalità del verso, come ad esempio in Pasternak.

   Da questo punto di vista, vorrei attirare l’attenzione di chi mi legge sulle difficoltà lessicali e fonetiche della bellissima e magica poesia “Trasformazioni” del poeta polacco Boleslaw Lesmian.

 

Boleslaw Lesmian (1877-1937)[044]

Trasformazioni

 

Soffocante era il buio e di brama – una morsa,

E il fiordaliso, schiarito da un lampo muto,

Trafisse le pupille ad un capriolo in corsa

Nel bosco, sorpreso da un occhio sconosciuto –

E il fiore, azzurrandolo, saltava capriolamente,

E alla fiordaliso guardava il mondo avidamente.

 

Un papavero, là, nel campo senza fine

Si scoprì, e con un grido privo di suono

Si trasanguò in un gallo in piume porporine,

E la scarlatta cresta scosse con frastuono,

E cantò nella notte con terrore insano,

Fino all’eco dei galli veri da lontano.

 

L’orzo, indoratosi d’anelito addensato,

Rizzò le spighe dalla rabbia avvelenate,

Si traschiacciò scricchiando in un riccio dorato,

E corse via pungendo verdi  barricate,

Guaì, e ai fiori tenne il broncio, inciprignito,

E nessuno saprà mai ciò che ha visto e sentito.

 

Ed io – per quale ortica or l’anima mi brucia,

E tra i campi, furtive, le mie gambe vanno?

Perché ora i fiori mi guardan con sfiducia?

Forse qualcosa oscura di me – chissà – sanno?

Che ho fatto per premermi le mani sulla testa?

Chi ero quella notte di cui più nulla resta?

 

   Nella mia traduzione ho cercato di ricreare ritmo, rime, metro e suono. A volte uniformandomi allo stesso Lesmian, ho dovuto inventare dei neologismi, come ad esempio “capriolamente”, “si trasanguò”, “si traschiacciò”, o usare parole non comuni, come “scricchiando” anziché scricchiolando o “inciprignito” anziché accigliato, o creare delle allitterazioni, molto frequenti nel testo polacco:…la scarlatta cresta scosse…si traschiacciò scricchiando…chissà – sanno.  Per via della rima, infine, ho cambiato  alcune parole (poche, in verità), ricorrendo quindi al “compromesso” di cui parla Sandauer.

   Potrei dilungarmi ancora su questo tema, ma mi sembra sufficiente quanto già scritto. Per concludere toccherò ancora una volta il tasto della musicalità, raccontandovi cosa avvenne a Nairobi verso la fine degli anni ’70, quando ero impiegato dell’Alitalia presso l’ufficio di rappresentanza per il Kenya. Un giorno l’Ambasciata Polacca organizzò per me un incontro di poesia. Qualcuno leggeva il testo polacco, mentre io leggevo la mia versione italiana. La sala era al completo e l’incontro riuscì bene. Al termine dello stesso l’ambasciatore  mi ringraziò e aggiunse: – Non capisco una parola d’italiano, ma il suono delle sue versioni mi è piaciuto molto.

                                                                                    Paolo Statuti