Poesie di Cyprian Kamil Norwid tradotte da Paolo Statuti
A Verona
Dei Capuleti e dei Montecchi le magioni,
Slavate dalla pioggia, squassate dai tuoni,

Cyprian Kamil Norwid
L’occhio mite dell’azzurro osserva.
Si posa sui ruderi dei manieri avversi,
Dei giardini scorge i cancelli riversi,
E lascia piovere una stella.
I cipressi dicono che per Giulietta,
Che per Romeo, una lacrima da un pianeta
Cade, e nelle tombe discende;
Ma la gente dice, e dice accortamente,
Che non sono lacrime, ma pietre,
E che nessuno le attende!
La mia canzone (II)
Per quel suolo, ove un briciolo di pane
Raccolgono da terra in onore
Dei favori del Cielo…
Ho rimpianto, Signore…
Per quel suolo, ov’è peccato grave
Sciupare un nido di cicogne o un fiore
Perché a tutti giovano…
Ho rimpianto, Signore…
Per quel suolo, ove il primo saluto,
Come l’eterno verbo del Buon Pastore –
E’: “C h e t u s i a l o d a t o !”
Ho rimpianto, Signore…
Ho rimpianto per una cosa ancora,
Che oramai non so più dove dimori,
Altrettanto innocente…
Ho rimpianto, Signore…
Per il non-rimpianto e per il non-pensare,
Per quei che parlano senza timore,
Rifuggendo le ombre…
Ho rimpianto, Signore…
Per il luogo, ove nessuno a me bada –
E così pur sia, benché col mio amore
Ciò non accada!…
Ho rimpianto,Signore…
* * *
Sempre da te, come da resina ardente,
Stracci infocati si levano intorno;
Bruciando non sai, se libero diventi,
O se ciò che è tuo sarà dissolto.
Rimarranno cenere e caos soltanto,
Che nell’abisso con veemenza cade?
O rimarrà nella cenere un diamante,
Mattino di vittoria immortale…
da: “Nel libro dei ricordi”
Monologo
Le preghiere vanno e tornano – nessuna è inascoltata.
Tutte sono esaudite, per questo ciascuna di esse ritorna.
E ciascuna di esse ritorna, perché tutte vengono dall’amore.
Chi ha lavorato per l’Amore, con amore poi lavorerà.
Questa è la felicità. – Un’altra felicità non c’è.
Qui è tutto il diletto dell’amicizia.
Qui è tutta la soddisfazione e la sicurezza di sé.
Qui è tutta la serenità.
*
Ma chi ha lavorato per l’Amore – come Te, che hai voluto diventare
Uomo per questo lavoro?
Che eri triste fino alla morte, pur amando sempre?
Che non avevi dove posare il capo, o Re del mondo intero.
Tradito dalla natura e da Dio stesso abbandonato,
ma non deposto – Dio.
Egli è la vittoria dell’Amore!
Santo, Santo! – così cantano nei Cieli e sulla Terra.
Santo, Santo! – nello spazio dov’è l’unica vera armonia!
Santo nei cori di tutti gli Angeli.
E dove gli Angeli-custodi ricevono questo “santo” dall’uomo –
e dove ha fame il dolore non riposto nella preghiera,
e dove soltanto la tristezza stessa è la santità del silenzio.
Anche là santo, e ovunque!
(1846)
Cyprian Kamil Norwid: Con le destre gonfie per gli applausi…
E’ una poesia di carattere autotematico. Scritta nel 1858 e inserita nella raccolta Vade-mecum, contiene alcune riflessioni di Norwid sulla propria creazione, rispetto alla poesia romantica, e sul proprio programma poetico. Egli ritiene che la nazione sia ormai stanca della poesia che ha espresso idee nobili, ma impossibili da realizzare, e aspira ad azioni concrete, perché nella Patria regna l’oscurità e non si aspettano nuovi talenti letterari. Egli ricorda anche che nel momento del suo debutto poetico i grandi romantici avevano già una posizione consolidata ed erano celebri. Afferma anche che da loro non ha ereditato nulla, trovando in essi soltanto noia e idee superate. Si è sentito erede di convenzioni sociali e salottiere, dove non c’è posto per emozioni e sentimenti veri e sinceri. Si sente isolato ed estraneo. Durante il suo peregrinare osserva la gente con lo sguardo fisso solo al passato, cercando in esso i supremi valori. Aspira a un futuro ideale, ma sa che la strada che conduce ad esso passa attraverso il corrotto presente. Con rammarico afferma che i suoi contemporanei non si avvedono di ciò che egli vuole trasmettere loro con le sue opere, non capiscono le verità e le allusioni contenute in esse. Tuttavia è consapevole che la sua creazione sarà apprezzata dalle future generazioni. Norwid dice di scrivere “il diario di un artista”, e di essere in grado di superare le difficoltà della sua vita e delle sue ricerche. Ecco questa poesia nella mia versione.
Con le destre gonfie per gli applausi…
Con le destre gonfie per gli applausi, dal canto
Annoiato, il popolo chiamava all’azione:
Sospiravano ancora i leggiadri lauri,
Presentendo i lampi coi loro rami.
Nella Patria ovunque lauro e oscurità
E non si dava più spazio e nemmeno tempo
Ai nati e ai nascituri non attesi,
Quando il dito di Dio apparve su di me;
Senza dire quante cose esso compie,
Mi ordinò: “Vivi nel deserto della vita!”
Per questo da voi… o lauri, non ho preso
Una sola foglia, né un frammento di essa,
Tranne forse l’ombra fredda sulla fronte
(Ciò che non dipende da voi, ma dal sole…).
Nulla ho preso da voi, nulla, o giganti!
Tranne le strade coperte di assenzio e cicuta,
E la terra arsa dall’anatema, e la noia…
Solitario sono entrato ed erro oltre.
Di quelli rivolti al passato non compreso
E ammirato – ne ho incontrati molti!
Ho messo il tallone in speroni arrugginiti
Nei sentieri, dove tanti sono caduti!
Più volte la vecchia Usanza ho avversato,
Che mostrava i denti alla nuova alba;
Che si copriva la testa di polvere,
Per prolungare la notte e sognare ancora.
Di donne stregate da morte formule,
Ne ho conosciute a migliaia, e mi rattristava
Aver visto tante grazie – insensibile!
Guardandole con occhi senza passione.
Di qualcuna toccai la mano di marmo,
Mossi le pieghe dell’abito di pietra,
E la farfalla notturna sulla sua testa
Tremò e cadde…e sparirono – assonnate…
E niente… ho preso da loro per il mio cuore,
Fattomi verso di loro – com’esse – inerte,
Come loro così gentile e nessuno,
Che la felicità mi è sempre più incompresa!
Perché dunque nella Domenica – sazietà
Sono giunto per trovare e lasciare… tanto?
Avendo messo sul cuore solo l’abito –
Non voglio e non mi degno di chiedervi: Boia!…
Scrivo – sì! a volte… scrivo attraverso Babilonia
A Gerusalemme – e le lettere arrivano –
Non m’importa se ciò che dico è sbagliato
Oppure no… scrivo il diario di un artista –
Scribacchiato e chinato in se stesso –
Folle!…ma tuttavia vero e reale!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mio figlio mi ignorerà, ma tu ricorderai,
O nipote, ciò che oggi viene letto in fretta
Durante il regno del Panteismo – stampa,
Con l’ausilio dei caratteri di piombo;
E come accadeva sul selciato romano,
Avendo sotto i piedi le catacombe,
Sulla fronte il sole e fiducioso nell’errore –
Egli rileggerà ciò che tu leggi oggi,
E mi ricorderà… quando non ci sarò più!
1858
Rapsodia funebre in memoria di Józef Bem (1)
“…Iusiurandum, patri datum, usque
ad hanc diem ita servavi…” (2)
I
– Perché, ombra, ti allontani, le mani sulla corazza,
Con le torce che intorno ai ginocchi sprizzano faville? –
La spada verde di lauro dai ceri accoglie le stille,
Un falco si stacca e il tuo cavallo fa un passo di danza.
– Sventolano e si toccano tra loro gli stendardi vibranti.
Come tende di eserciti sotto il cielo erranti.
Lunghe trombe singhiozzano disperate e i vessilli
S’inchinano dall’alto con le ali abbandonate,
Come draghi, rettili e uccelli da lance trafitti,
Come le molte idee che con le lance hai afferrate…
II
Vanno le donne afflitte: alcune, le braccia alzando
Con profumati covoni che il vento in alto scompiglia,
Altre, il pianto dal viso raccolgono in conchiglie,
Altre invece la strada fatta secoli fa cercando…
Altre infine gettano in terra grandi vasi di argilla,
Il cui crepitare nel rompersi ancora più rattrista.
III
Ragazzi battono le asce azzurre nel cielo terso,
Valletti servitori battono gli scudi arrossati,
Un vessillo enorme si dondola nei fumi immerso,
E la lama della lancia sembra al cielo appoggiata…
IV
Entrano in una gola…riappaiono nella luce lunare
E nereggiano nel cielo, una fredda luce li sommerge
E brilla sulle lame come stella che non può cascare.
Il canto a un tratto cessa e poi come onda riemerge…
V
Oltre – oltre – verrà il tempo di ritrovarsi nelle bare
E in agguato oltre la strada vedremo un nero burrone,
Che l’umanità non troverà il modo di superare,
Col tuo corsiero useremo la lancia come vecchio sprone…
VI
Trascineremo il corteo, lamentando le città addormentate,
Battendo alle porte con le urne, fischiando sulle asce intaccate,
Finché le mura di Gerico come tronchi si abbatteranno,
I cuori rinveniranno, la muffa dagli occhi i popoli toglieranno.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Oltre – oltre…
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(1) Józef Bem (1794-1850) – generale dell’esercito polacco, prese parte all’insurrezione di novembre del 1830-31 contro l’Impero russo. Guidò anche l’insurrezione ungherese nel periodo delle guerre d’indipendenza del 1848-49.
(2) I giuramenti fatti a mio padre ho mantenuto fino ad oggi. (Annibale)
La larva *
1
A Londra sul viscido selciato,
Nella nebbia bianca e sublunare –
Più persone tu vedi passare,
Ma la riconoscerai, spaventato.
2
Ha la fronte nelle spine? o nel pattume?
Non si può dire di preciso;
Ha sulle labbra i sussurri di un prodigio
Del Cielo…? o un’empia schiuma…!
3
Il libro della Bibbia, diresti tu,
Nel fango si sta rotolando –
E nessuno lo degna d’uno sguardo,
Non è tempo di pensare alla virtù!
4
Sconforto e denaro – questo solamente
Nel bianco dei suoi occhi io vedo,
Da dove viene?…è un suo segreto,
Dove va?…forse verso il niente!
5
A tale strega somiglia l’umanità,
Che versa lacrime e deride ora;
E solo il “sangue” conosce della storia!
E il “denaro” solo – della società!
1861-62
* Nel gergo varsaviano del XIX secolo la parola “larva” era sinonimo di prostituta (di qui l’immagine della Bibbia che si rotola nel fango – allusione chiara per i varsaviani dell’epoca di Norwid).
Come
Come quando chi negli occhi gettando
Un pugno di viole nulla dicendo…
Come quando adagio smoverà l’acacia,
Perché il profumo simile al mattino,
Con fiori immacolati cada
Sui bianchi tasti di un pianino…
Come quando a una persona sull’altana
La luna distante i capelli contorna,
Posando sul capo una serto ardente,
O di spighe d’argento l’adorna…
Come un colloquio inutile con lei
Somiglia al volo dei rondoni,
Che ha la sua meta, ma tutto sfiora,
Annunciando d’estate l’arrivo dei tuoni,
Prima che il lampo preceda il ritmo –
Sì…
Ma tacerò – perché sono afflitto.
IL NOSTRO EPOS
1848
I
Dalle tue gesta a leggere ho imparato,
O cavaliere! – e a te leverò il mio canto.
Alto, le spalle rivolte al sole
Che, sulla corazza guizzando,
Indora la tua figura rattristata,
E gioca con la staffa abbandonata…
II
I tuoi tratti cantare non posso –
In molti hai riversato il tuo aspetto.
Ma il cuore? – anch’io sento l’ansia
Dell’eroismo…amico mio diletto!
Delle tue gesta l’ardore e lo zelo
Io ancora sento e ad essi ancora anelo.
III
Da bambino, sul foglio ingiallito
(Il suo colore non ho scordato)
Chino, con la testa tra le mani,
Oh! quanto etere ho aspirato
Dalla lettura, dal libro che leggevo!
E quando la candela si spegneva,
O qualcuno dei grandi chiamava,
Che tristezza intorno nasceva!
O quando solo poche righe
ancora
Mancavano per la fine della storia!…
IV
Se ti amavo e se scrivo il vero,
Te lo dice la memoria che ho nutrita,
Io scrivo poco e poco pecco creando:
Scrivo e canto fedele alla mia vita…
V
Proprio così!… di nuovo mi stai davanti
Come allora, con la corrosa armatura,
E risvegli mestizia, che irrita come serpe,
Ah! Dulcinea – mia dolce creatura!
VI
Proprio così!…qui non vien da ridere, no! –
Forse a chi guarda, forse ai lettori,
Ma a noi? noi che con entrambe
Le mani lottiamo coi malfattori,
Liberando la principessa virtuosa –
Resta il dolore, l’afa e la strada tortuosa.
VII
E il riso? – poi nella storia – i posteri
Ridano pure di noi così limitati,
Mentre loro sono felici e immensi,
E puri e di splendore adornati…
VIII
E loro? – non traditi da nessuno,
In paradiso volano raggianti
Con le loro Beatrici – innamorati –
Con le corone e i preziosi manti,
Sorridono agli astri affabilmente,
E un Osanna! per loro si sente.
IX
Benedicili, o Signore. . . . . . . . .
X
…e noi – cavalieri erranti,
Senza scudieri, fascia rossa sul petto,
Per umidi boschi e boschi di querce,
Tiriamo da lontano il nostro carretto
Impigliato: in grate di ferro rugginoso,
In porte aperte come cannone furioso…
XI
Un giorno un branco di draghi si scalda
Su zolle e avvelenate radici;
Un altro un nano con uno sterpo
Stuzzica a un cavallo le narici;
Altrove una fanciulla invoca aiuto;
E altrove un grigio serpe biforcuto…
XII
Per così tanti sentieri io andavo
Con la grande lancia che spezza i rami,
Solo tu lo sai, o Don Chisciotte,
Tu che questo mio ricordo ami,
Perché la marmaglia dalle cento facce
Riderà indegna delle tue tracce!
XIII
E la mia Dulcinea – oh! cavaliere
Intrepido – la sua persona così amata
Non mi si è mai rivelata;
– A meno che brezze gentili e lievi
Il velo dal viso non scosteranno,
E un serto di stelle mostreranno
Sui capelli, o l’anello di opale,
O una scarpina che gioca con la ruta
In fiore, piccola, così piccola,
Come una conchiglia mai veduta…
XIV
È tutto!… gli uccelli spesso mi cantavano
Che già risvegliata e senza più malia,
Esce dalla torre in mezzo ai draghi;
Che regge una lampada, e i mostri,
Non sopportando la luce fuggono,
Sbattono le ali in antri desolati
E imprecano, gridano, ululano…
XV
E allora? – gli uccelli, posatisi
Sullo scudo o sul mio elmo cantano
Ciò che vogliono – ma lo spirito sa
Che mentono, la verità è soltanto
Per noi Don Chisciotti, noi gli eletti –
Contro draghi, veleni, e proietti.
La tenerezza
La tenerezza può essere come il grido guerresco,
E come di fonti mormoranti la corrente,
E come un funebre lamento…
E come di capelli biondi un lungo intreccio,
Al quale un vedovo appende
L’orologio d’argento – – –
(In questo blog vedi anche “Una vita tormentata e raminga” con “Il pianoforte di Chopin”) e Una lettera di Cyprian Kamil Norwid
(C) by Paolo Statuti
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