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Il Don Chisciotte di Boleslaw Lesmian

14 Gen

 

Gustave Doré: Don Chisciotte e Sancho Panza

 

 

Don Chisciotte è il prototipo del sognatore che inconsapevolmente si scontra con l’amara realtà. In chiusura del suo immortale capolavoro, il mio libro preferito in assoluto, Cervantes racconta che il suo eroe cade preda di una forte febbre e dopo 6 giorni a letto, si sveglia da un sonno di sei ore, ringraziando Dio per aver riacquistato il senno, si dichiara risanato e pentito. Si confessa e, poco dopo, muore. Quindi la ragione in ultima analisi ha la meglio sulla finzione e sulla follia. Circa tre secoli dopo il grande poeta polacco Bolesław Leśmian (1877-1935) (v. nel mio blog Il maestro prediletto) ci ha offerto il suo ritratto poetico e tragico del cavaliere dalla trista figura. Don Chisciotte si trova nell’oltretomba. E’ solo e dubita della sua identità. Gli è stata restituita la ragione, ma questa consapevolezza anziché recargli conforto, lo rende ancora più infelice. Capisce l’inutilità delle sue azioni e la follia insita in esse, teme  possibili nuovi sogni e un nuovo delirio. Ma sulla terra egli aveva uno scopo, era pronto a sacrificare tutto, convinto di lottare per una giusta causa in nome del bene. Ora ha perso la sua fede, gli sono stati tolti i suoi sogni, i suoi ideali. Leśmian ci dice che la fantasticheria di Don Chisciotte è l’essenza della sua natura umana e che la ragione non gli è affatto necessaria. I sognatori sono utili al mondo: privi del senso di realtà, lottano all’insegna dei propri ideali, convinti di aiutare l’umanità. Quindi, conclude il poeta, non bisogna svegliarli, neanche nella risurrezione – meglio per loro e per il mondo è che continuino a dormire.

 

Bolesław Leśmian: Don Chisciotte

 

In un parco dell’oltretomba, con solennità

Dalle ali di angeli insonni spazzato,

All’ombra di alberi che hanno avuto in eredità

Terrestri foglie ingiallite – con animo gravato,

Benché ormai privo di miserie e di lotte,

Siede pensando lo smilzo Don Chisciotte

Che meditare non serve e con un’occhiata

Defunta, che non va oltre una mano

In preghiera, guarda il viale lontano,

Dove ogni traccia di vita è cancellata.

 

Dio gli tende le mani amorevolmente,

Per invitarlo a un comune convito

Nella nebbia che gli angeli appositamente

Sciolgono con segni di croce. Impallidito

Nel silenzio tombale l’ospite si discosta,

Di non vedere e sentire nulla fa mostra.

 

Un tempo le pale a primavera sognate,

Gli sembravano spade di bieche schiere,

Ma oggi nelle mani di Dio a lui mostrate

Vede infide pale di mulini-chimere.

E, guardingo, sfugge con un beffardo riso

A possibili nuovi sogni e a un nuovo delirio.

 

E non si avvede neanche che un silenzioso

Angelo gli si avvicina e ai piedi gli posa,

Da parte della sua Madonna, una rosa,

Per dirgli che ricorda il suo fedele animoso.

Ma lui, un tempo modello di cavaliere,

Ignorando il messaggero e chi gliela invia,

Distoglie gli occhi dalla rosa perché non crede

Più nei fiori, e li sospetta di scaltra magia.

L’angelo allora si china su di lui con un sorriso

E baciandolo sulla fronte sottovoce gli dice:

“Anche questo è da lei”… E arrossito nel viso

Vola via. E il cavaliere deluso e infelice,

Di sbieco e con sfiducia segue il suo volo,

E tormentato dal dubbio muore di nuovo

Di una morte che ai baci di non svegliare impone

Simili morti neanche nella risurrezione!

 

 

(Versione di Paolo Statuti)