
Boleslaw Lesmian
Il maestro prediletto
Julian Tuwim, il poeta più ammirato nella Polonia prebellica, con grande serietà baciava la mano a un gracile, piccolo e modesto notaio di provincia, ogni volta che lo incontrava nei caffè e nelle strade di Varsavia. Questo notaio scriveva poesie, ma non tutti ancora lo sapevano. Del resto durante la sua vita egli pubblicò soltanto tre volumi di versi, e a distanza di tempo l’uno dall’altro.
Quando nel 1918, subito dopo cioé la riconquista dell’indipendenza del paese, i poeti della generazione di Tuwim entrarono nell’arena letteraria, Leśmian era noto solo come autore di un volumetto di versi. Essendo nato nel 1877, questi giovani brillanti e avidi di gloria avrebbero potuto considerarlo una figura d’altri tempi. Egli divenne invece il loro maestro prediletto e uno dei patroni della nuova poesia.
Bolesław Leśmian può essere considerato il più eminente poeta polacco del XX secolo. Egli ha il merito soprattutto di aver fecondato per molto tempo la poesia polacca con la dimostrazione inconfutabile che la informativa poetica non deriva solo dal significato semantico delle parole, e con la sua affascinante fantasia.
Guidato dalla sua infallibile intuizione poetica, Leśmian penetrò ed esplorò nei meandri dell’immaginazione contemporanea, vi rintracciò le paure e i dubbi più inquietanti, per cattivarseli poi assegnando loro vecchi nomi familiari , riecheggianti le fiabe e i canti della campagna. Non sono molti i poeti che in modo tanto spontaneo e viscerale riuscirono a trattare soggetti così prossimi alla filosofia, soggetti che un contemporaneo di Leśmian – S.I.Witkiewicz – chiamò “perplessità metafisiche”. Se vogliamo, la poesia “Trasformazioni” è qualcosa di più di una variazione sul tema dell’incantevole dinamismo della natura.
Ma neppure in altre sue liriche, dove emergono di volta in volta pensieri formulati con la forza di un aforismo filosofico, si trova traccia di rigidi luoghi comuni o elaborazioni pseudopoetiche, proprio grazie al suo modo di parlare così personale e originale, che si richiama sempre ai toni e agli etimi della parlata viva del popolo polacco. I suoi versi sono tanto espliciti, che quando parlo di Leśmian con un italiano, sento l’assoluta necessità di darne un esempio sonoro, rendendo in tal modo inutile ogni possibile elogio. Vi sono poeti di cui è impossibile scoprire tutti i segreti, senza leggerne l’opera in originale. Tale considerazione mi sembrava finora che valesse particolarmente per Leśmian.
Non dimenticherò mai l’impressione ricevuta quando, ancora ragazzo, per la prima volta lessi l’inizio di una delle sue più tipiche poesie:
“Nad brzegami zagęstwionych nicości
Szumi wiara w wiekuiste sitowie…”
(„Ai bordi dei nulla inselvatichiti
Fruscia la fede nel giunco eterno”.
Mi suonò come un sortilegio misterioso, come una vera e propria formula magica. Ripetevo questa frase nebulosa rendendomi conto solo parzialmente del significato delle parole. Solo più tardi riuscii a capire tutte le intricate implicazioni filosofiche di questo brano di Leśmian. Fu proprio la struttura musicale, cioè metasemantica, a suggerirmi il significato preciso della frase.
Verdiani, scrivendo su Leśmian, dice giustamente: “…in lui la rottura con il passato non avvenne per gradi; fu immediata e istintiva per originalità di vena e di linguaggio. Il fantastico, a lui così congeniale, è nella sua lirica portato fino all’assurdo e pur costantemente ricondotto a verosimiglianza, anzi a realtà, mentre il sogno e l’incubo, senza precisi confini tra di loro, si lasciano nei suoi versi richiamare docilmente ad una coerente quotidianità…”
L’influenza di Leśmian non solo non cessa, ma è in continuo aumento. E ciò si deve al modo in cui egli riuscì a concretizzare le sue costruzioni sottili e astratte. Oltre alla sensualità del suo linguaggio, contribuisce a questa concretezza il rigore musicale dei suoi versi. E’ possibile comprendere le sue poesie in tutta la loro ampiezza, solo rendendosi conto in che modo ritmo, rima, cadenza musicale e sintonia attribuiscono carattere tattile al contenuto evanescente.
Le traduzioni di Paolo Statuti mi sembrano un felice tentativo di illustrare al lettore italiano come sia importante per la comprensione di Leśmian (e forse di tanti altri poeti) questo equilibrio tra piano musicale e piano semantico nelle sue opere. Del resto, esse sono assolutamente originali, e non a caso la loro popolarità ha dimostrato che in Polonia la poesia in genere è in grado di sopravvivere, anche nell’epoca dei divertimenti più assordanti.
Jerzy Pomianowski
Opere di Bolesław Leśmian:
“Sad rozstajny” (Il frutteto al bivio), 1912; “Łąka” (Il prato), 1920; “Napój cienisty” (Il filtro d’ombra), 1936. Postumo uscì il volume “Dzejba leśna” (La trama boschiva), 1937. Pubblicò anche una bellissima raccolta di fiabe polacche: “Klechdy polskie”, 1913, molti scritti critici e i racconti di E.A. Poe nella sua versione.
Poesie di Bolesław Leśmian tradotte da Paolo Statuti
Trasformazioni
Soffocante era il buio e di brama – una morsa,
E il fiordaliso, schiarito da un lampo muto,
Trafisse le pupille ad un capriolo in corsa
Nel bosco, sorpreso da un occhio sconosciuto –
E il fiore, azzurrandolo, saltava capriolamente,
E alla fiordaliso guardava il mondo avidamente.
Un papavero, là, nel campo senza fine
Si scoprì, e con un grido privo di suono
Si trasanguò in un gallo in piume porporine,
E la scarlatta cresta scosse con frastuono,
E cantò nella notte con terrore insano,
Fino all’eco dei galli veri da lontano.
L’orzo, indoratosi d’anelito addensato,
Rizzò le spighe dalla rabbia avvelenate,
Si traschiacciò scricchiando in un riccio dorato,
E corse via pungendo verdi barricate,
Guaì, e ai fiori tenne il broncio, inciprignito,
E nessuno saprà mai ciò che ha visto e sentito.
Ed io – per quale ortica or l’anima mi brucia,
E tra i campi, furtive, le mie gambe vanno?
Perché ora i fiori mi guardan con sfiducia?
Forse qualcosa oscura di me – chissà – sanno?
Che ho fatto per premermi le mani sulla testa?
Chi ero quella notte di cui più nulla resta?
Erotico dal ciclo “Nella frasconaia di lamponi”
Stanca s’agita la mia gelosia nel letto:
Chi ha baciato, furtivo, come me, il tuo seno?
Tra le carezze che desti, ancor non m’hai detto,
Ci fu solo per me una carezza almeno?
Pur così, il mio sdegno non plachi coi pianti!
Umilio il mio corpo e degli affetti il fulgore,
Ma tu mi rispondi che ti faccio orrore,
Che son come mille uomini ripugnanti
E nuda fuggi via. Nella stanza di fronte
Allora in lacrime consumarti ti sento,
E so che in quel tuo giaciglio d’un momento
Sembri un’annegata sul fondo d’una fonte.
Corro là. Il pianto ammutisce. Silenzio arcano,
Attorcigliata come un serpe, nel martirio
Non dai segni di vita – ti manca il respiro,
Ed ecco, d’un tratto, mi tiri per la mano.
Fradicia di lacrime, stremata dalle asprezze,
Folle ti sollevo dalle bianche correnti,
Le dita dei piedi stese dalle carezze
Come care alle labbra sono e come urgenti!
Erotico dal ciclo “Nella frasconaia di lamponi”
Nel distacco sei cambiata? Oh, no, sei la stessa!
Ma qualche fiore dai tuoi capelli è fuggito,
La sua mancanza, è vero, non sciupa il tuo viso,
Ma il mio cuore in segreto avanti al tuo si spezza…
L’animo tuo osa sognare che immerso
In volte stellari, durerà ancora e ancora –
Ma il corpo? Chi vi penserà nell’universo,
Chi in esso crederà, tranne me che l’adora?
Quando dalla bocca, rinata dallo sforzo,
Riverserai carezze in un sussurro ardente,
Io pregherò per l’eternità del tuo corpo
Con le labbra mute sul tuo seno-sorgente.
Il gobbo
Mica male, in fondo, muore
Un gobbo: giornata radiosa.
Visse gobbo, sissignore,
E la morte è pur gobbosa.
Muore nella nebbia densa,
Risolvendo un’ardua fola,
Vuota fu la sua esistenza,
Trascinò la gobba sola.
Con la gobba mendicava,
Per sognare gli serviva,
E sul dorso la cullava,
Col suo sangue la nutriva.
Lui la morte ora blandisce,
Tende il collo nel suo antro.
Sol la gobba s’ingobbisce,
Vive e ingrassa senza vanto.
Sopravvisse al suo cammello
Per un tempo pari al grasso,
Il defunto – il nero avello,
Lei – farfalle vede a spasso.
Essa dice al deceduto,
Dal suo grave peso oppresso:
“Perché sei così cocciuto?
Perché stai lì di traverso?
Di’, la nebbia t’ha stremato?
Col sonno schiacciasti i piedi?
Perché in groppa m’hai portato,
Se a metà ti fermi e cedi?
Che pena nel dorso entrare!
Perché nell’ombra te ne vai?
Vecchio pigro, che vuoi fare,
Dove ancor mi porterai?”
I due tapinelli
Spesso nell’anima risuona dolente il canto
Per quei due tapinelli che si amavano tanto.
Ma nel giardino la loro prima confessione
Del forzato distacco fu anche la cagione.
Stettero a lungo lontani per altrui volere,
E il tempo passò – solo lui non si può riavere.
Poi si riunirono, e i fiori colsero ancora,
Ma s’ammalarono come nessuno finora!
Sotto un pioppo – due letti con due ombre malate,
Sotto un pioppo – le ultime amorevoli occhiate.
Morirono senza colpa, senza una carezza,
Senza sorrisi, né lacrime di tenerezza.
Il rosso delle labbra divenne viola allora,
E impallidirono come nessuno finora!
E volevano amarsi pur nella fossa nera,
Ma l’amore era morto, l’amore più non c’era.
S’inginocchiarono tenendosi per la mano,
Per pregare per tutto, ma Dio era lontano.
Primavera ed estate raggiunsero a fatica,
Per tornar sulla terra – ma la terra era sparita.
Dal ciclo: “La trama boschiva”
Che ho fatto, che il tuo volto è sbiancato?
Che ho detto, che hai tutto indovinato?
Come tacendo la strada guardi!
Non posso più, non posso più amarti!
La sera spegne i tizzi del sole.
Labbra e occhi ormai sono parole…
Sopra noi fruscia il bosco e risponde
Con le fronde, con le fronde, con le fronde!
Per la valle il mio cuore scorrazza
Con un’altra – chi sarà? – ragazza,
E tu mi segui senza più stima
Nel tuo incanto degli occhi di prima –
Incerta vai come un’ombra, vagando –
Smunta, insensibile al tuo pianto –
E la strada spazzi davanti a noi
Con le chiome, con le chiome, con le chiome!
La ragazza
Dodici fratelli palparono il muro da lor sognato,
D’una ragazza udendo il pianto smarrito dall’altro lato.
S’innamoraron di quel suono, dell’idea che avevan d’essa,
E della bocca che intuiron dalla canzone sommessa…
Si guardarono e: “Piange, dunque esiste!” – Dissero soltanto,
Fecero una croce sul mondo – e il mondo sprofondò pensando…
Coi martelli sul muro presero a battere con frastuono!
E la notte non capiva chi era il martello e chi l’uomo.
“Presto, prima che la morte vesta di ruggine quel Fiore!” –
Disse un fratello agli altri undici, battendo con furore.
Vana fatica, inutile sforzo dei pugni ammanigliati!
Dettero in pasto i propri corpi al sogno che li aveva tentati!
Si schiantano i petti e le ossa, il loro volto si scolora…
E nella notte eterna finiron tutti alla stessa ora!
Ma le ombre dei morti – mio Dio – non lasciarono i martelli!
Solo: ora scorre un altro tempo, e i colpi non son più quelli…
E suona avanti! E suona indietro! Ad ogni colpo in su rimbomba!
E la notte non capiva chi era il martello e chi l’ombra.
“Presto, prima che la morte vesta di ruggine quel Fiore!” –
Disse un’ombra alle altre undici, battendo con furore.
Ma crollarono le ombre, e cede l’ombra al buio che avanza!
E morirono ancora, ché non si muore mai abbastanza…
Mai abbastanza, e mai così, come il moribondo ha voluto!…
Finì la loro storia – scomparsi la traccia e il contenuto!
Ma i valorosi martelli – mio Dio – al lutto han resistito!
Battevano anch’essi, e sembrava bronzeo il muro colpito!
Zuppi d’umano sudore, rombavan dall’alba alla sera!
E la notte non capiva se era il martello o non era.
“Presto, prima che la morte vesta di ruggine quel Fiore!” –
Disse un martello agli altri undici, battendo con furore.
E il muro crollò, scotendo con gli echi le strade e le piazze!
Ma oltre il muro – nulla di nulla! Né occhi, né Ragazze!
Né bocche di nessuno! E di nessuno il destino nei fiori!
C’era solo una voce – una voce – e nient’altro all’infuori
Del pianto e del dolore, dell’ignoto e del buio profondo!
Ecco il mondo! Cattivo mondo! Perché non c’è un altro mondo?
Di fronte ai sogni bugiardi, di fronte ai prodigi sprecati
I forti martelli son caduti come dei prodi soldati.
E fu il terrore dei silenzi! E il vuoto nella volta azzurra!
Perché ti burli di quel vuoto, se il vuoto di te non si burla?
Urszula Kochanowska
Quando dopo morta arrivai in paradiso,
Dio mi guardò a lungo accarezzandomi il viso.
“Urszula, sembri ancora viva, lo sai?
Farò per te tutto ciò che tu vorrai.”
“Oh – gli risposi – fa’ che nel tuo bel cielo
Ogni cosa sia come là dove io vivevo!”
E tacqui alzando gli occhi con timore,
Spaventata che di ciò io pregavo il Signore.
Sorrise, fece un cenno con la mano e allora
Apparve una casa uguale alla mia dimora.
E i tavoli, le sedie, il mio stesso letto,
Eran così simili, che provai un gran diletto!
E disse: ”Ecco qui i mobili e i vasi di fiori,
E ora aspetta che arrivino i tuoi genitori!
Quando metterò le stelle in cielo a riposare,
Qualche volta busserò e ti verrò a trovare!”
E mi lasciò, e io senza perdere un momento –
Apparecchio la tavola, pulisco il pavimento,
E il vestito più bello e più rosa mi metto
E il sonno eterno scaccio, e veglio, e aspetto…
La stanza nell’oro dell’alba è già avvolta,
Quando sento dei passi e dei colpi alla porta…
Mi alzo di scatto! Il vento soffia sonoro!
Il cuore si arresta…No! E’ Dio, non sono loro!…
Don Chisciotte
In un parco dell’oltretomba, con solennità
Dalle ali di angeli insonni spazzato,
All’ombra di alberi che hanno avuto in eredità
Terrestri foglie ingiallite – con animo gravato,
Benché ormai privo di miserie e di lotte,
Siede pensando lo smilzo Don Chisciotte
Che meditare non serve e con un’occhiata
Defunta, che non va oltre una mano
In preghiera, guarda il viale lontano,
Dove ogni traccia di vita è cancellata.
Dio gli tende le mani amorevolmente,
Per invitarlo a un comune convito
Nella nebbia che gli angeli appositamente
Sciolgono con segni di croce. Impallidito
Nel silenzio tombale l’ospite si discosta,
Di non vedere e sentire nulla fa mostra.
Un tempo le pale a primavera sognate,
Gli sembravano spade di bieche schiere,
Ma oggi nelle mani di Dio a lui mostrate
Vede infide pale di mulini-chimere.
E, guardingo, sfugge con un beffardo riso
A possibili nuovi sogni e a un nuovo delirio.
E non si avvede neanche che un silenzioso
Angelo gli si avvicina e ai piedi gli posa,
Da parte della sua Madonna, una rosa,
Per dirgli che ricorda il suo fedele animoso.
Ma lui, un tempo modello di cavaliere,
Ignorando il messaggero e chi gliela invia,
Distoglie gli occhi dalla rosa perché non crede
Più nei fiori, e li sospetta di scaltra magia.
L’angelo allora si china su di lui con un sorriso
E baciandolo sulla fronte sottovoce gli dice:
“Anche questo è da lei”… E arrossito nel viso
Vola via. E il cavaliere deluso e infelice,
Di sbieco e con sfiducia segue il suo volo,
E tormentato dal dubbio muore di nuovo
Di una morte che ai baci di non svegliare impone
Simili morti neanche nella risurrezione!
(C) by Paolo Statuti
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