Il poeta polacco Bogdan Jaremin è nato a Lwów nel 1942. Terminato il liceo a Elbląg e affascinato dalla poesia di Jan Kochanowski, pensò d’intraprendere gli studi di filologia polacca, ma scelse medicina, laureandosi a Gdańsk. Come medico ha viaggiato molto, lavorando anche sulle navi e nei paesi tropicali. Ha insegnato presso l’Università di Medicina di Gdańsk. Nel 1998 è uscita la sua prima raccolta di poesie dal titolo La risata nel fazzoletto nero. Ha pubblicato 11 raccolte, tra cui Qua e là: didascalie a margine (2013) e Il laboratorio del tempo (2013), nelle quali sono inseriti i testi da me tradotti. Nella poesia di Bogdan Jaremin la sensualità della percezione del mondo e della sua materia si intreccia con la percezione metafisica dell’inafferrabilità e fugacità dell’essenza della vita. Nella sua lirica l’amore è non solo la più potente forza causante, ma anche la strada per conoscere il senso dell’esistenza. Anche quando ci delude, finisce, viene tolto, esso non è perduto del tutto e per sempre.
Poesie di Bogdan Jaremin tradotte da Paolo Statuti
Dalla raccolta: Il laboratorio del tempo
Il vangelo
da Baudelaire
Fratelli e sorelle nell’ipocrisia –
vi porto la buona novella, il Vangelo
secondo san Charles.
Amate e maledite il mondo.
siate ubriachi della sua bruttezza.
Tale è la sua bellezza e niente dovete cambiare
di forma e contenuto, essi sempre torneranno
cresciuti con le parole. siate ubriachi
di Bene e di Male, essi si sono giurati
eterno legame
e non c’è divorzio tra spirito e materia.
siate ubriachi di Luce e di Tenebra
esse scorrono dai ghiacciai del cuore
e da un torrente di vene recise.
siate ubriachi di Amore e di Sogni
perché essi hanno unito il quotidiano
e l’eternità con un vincolo duraturo.
E non chiedete alla Vita, perché
fiorisce così rigogliosa, quando la Morte
danza sui prati di maggio.
siate ubriachi. E felici
per così tante domande nelle nuvole
e nessuna risposta nel vento.
Che altro vorreste sapere
immersi nella Vita divina
sul Paradiso e sull’Inferno che avete dentro di voi?
L’ora felice
A Miłosz
Niente sfugge. L’ oscurità che recede, il caldo concentrato.
Mi hanno svegliato i merli. Nel loro canto la primavera e i nidi.
Gli alberi erano già alzati. Le nuvole lottavano con lo spazio.
Stavo al centro dell’incerto. La bellezza del mondo
e la vita andavano in una direzione ignota.
Indipendenti l’uno dall’altra, non ci disturbavamo
nello sgusciare l’attimo. Attraverso la porta schiusa del reale
il mattino mi portava a una incomprensibile gioia di esistere.
La lentezza del destarsi, l’instancabile battito dei mulini del cuore
la fiducia che il Mondo?, Dio? – sappiano cosa occorre fare.
Cos’è
A Różewicz
Sai? – dice – non so cos’è un verso
imita la vita, ma un’intervista con esso non è autorizzata.
Nega che in qualche modo sia nato da sé, spontaneamente.
Il mondo è oscurità generalizzata e chiarezza dettagliata
– disse Dio, creandolo – ciò fu semplice.
Il difficile lasciamolo agli uomini, che crescano come un albero.
A volte piove, è grigio, l’anima respira con mille foglie,
guardando in alto e arrampicandosi
lungo la corda del silenzio, quasi volesse raggiungere il cielo.
Verso ciò che è, e noi impotenti nel chiamare con la parola.
Sì, lo so, l’albero non cresce all’infinito. Le foglie,
le ghiande sanno forse di più sulla caduta e sulla crescita?
Forse il verso deve maturare fino all’ineluttabile?
Mio zio guardia forestale
Sempre volevo essere come lui, prima che morisse di vodca.
Querce, pini, abeti, faggi. Stavano dalla sua parte
lo rispettavano e non chiedevano i motivi della sua caduta.
Gli uomini non sanno guardare alla morte come loro.
Al capriolo in trappola, quando i suoi occhi scuri
si abituano alla fangosità del buio. Alla muscosità dei ricordi
dei tronchi abbattuti nel lungo viaggio verso la luce.
Al paziente silenzio della nebbia, che non svela la paura
alzandosi davanti al successivo mattino.
E la felce che sa di trovarci solo
nel sogno, dove fioriscono le parole. Soltanto il bosco è
la vera vita, con un passato senza sconforto
e senza colpa. Con la voce che si oppone alla tempesta,
cresce nel freddo e nella pioggia senza perdere la forza.
Non era una guida, un traduttore,
neppure un educatore penitenziario. Era tornato da Workuta (1)
Era uno degli alberi liberi, un vaso di memoria
che conduceva un ragazzo attraverso il vecchio bosco della vita.
(1) Città-lager dove l’inverno dura 9 mesi e la notte polare 6 mesi. Ricca
di carbone estratto per decenni da migliaia di prigionieri, tra cui anche
molti Polacchi. Le guardie del NKWD accoglievano i nuovi arrivati con le
parole: “Lavorerete finché non creperete”.
Il senzatetto divide
Be’, si prende ciò che capita, l’aria non manca
le nuvole sono gratis, e all’erba non serve un tetto.
In qualche modo si resiste, si cresce – dentro un pelame di parole
per le giornate fredde, ma non bisogna mentire agli alberi.
Non capisco perché si bruciano le erbacce
anche loro hanno i propri diritti. Forse aprirò un’agenzia
per la difesa delle cose inutili o un locale dove bere il tempo.
Per ora divido con lei la panchina e le parole.
Alcune sono forti come una tirata di sigaretta
o come dare il senso, senza filtro. Forse la vita
è dislettica, ma anche la nullità fai suoi sgorbi.
Mi presta un sorriso? Glielo restituirò, stia tranquillo.
Dalla raccolta: Didascalie a margine
*
che piccolo mondo! – la minaccia entra in una goccia di sudore
in una scheggia sotto l’unghia, in un brivido della pelle, in una pupilla
la paura, bella belva con la palpebra aperta, vigile, non dorme
*
entra, ti aspettavo, scopriti o parola adeguata
prima che invecchino i mobili di casa, i miei migliori ascoltatori
fatti sentire, o sorda infanzia: con l’argano del pozzo
con l’eco ferroso del secchio, con l’umido rivestimento del fondo
*
il vento di primavera ha l’orecchio assoluto, sente
come le nuvole si affidano la cura della pioggia randagia
come le foglie indicano agli uccelli dove dormire gratuitamente
*
conta solo su te stesso – disse l’imprevedibile
cavatela come puoi – disse l’impotenza
non fidarti troppo di me – disse la trasparenza
*
la simmetria dei contrari, il livello del mare e le verticali delle rocce
il mesto isolamento delle isole, la folla dell’agora delle spiagge
gli strumenti di precisione del vento, macinano i grani dei secoli
o Grecia, tu penetri in me come una lisca
Indirizzi di musica della signora Ishizu
La giapponese Ishizu non conosceva il tuo indirizzo.
Scriveva: Gould, Toronto, sentiva i suoni della mezzanotte.
E si apriva senza resistenza
il chiarore della musica
che ci attira dalla parte del bene comune
l’oscurità della musica
che giustifica il cammino verso l’ignoto
la preghiera della musica
che implora la pietà di Dio per ogni creatura
la fede della musica
che promette il seme al grembo chtonico della donna
la dispensa della musica
che nutre i sogni dei solitari oppressi dallo sconforto
la profondità della musica
da cui emerge un’isola sotto i piedi che affondano
Apritevi porte delle orecchie, apriti pietra del cuore
sollevati ferrea palpebra della notte,
svelati indirizzo del senzatempo.
2015
(C) by Paolo Statuti