Confidenze di Czesław Miłosz tradotte da Paolo Statuti

1 Set

     Sembrerebbe che tutti gli uomini dovessero gettarsi l’uno nelle braccia dell’altro, gridando che la vita è impossibile, ma non un solo grido uscirebbe dalla loro gola. La sola cosa che più o meno sanno fare è di buttar giù le parole sulla carta o i colori sulla tela, perfettamente consci che le cosiddette letteratura e arte siano dei surrogati.

                                                                    *

     No, il mondo non è buono e non lo sarà mai, nessuno dentro di sé sfuggirà allo sdoppiamento in coscienza e corpo, in soggetto e oggetto, nessuno cesserà di essere prigioniero in una cantina e di aspettare, finché non sarà chiamato fuori e decapitato dalla falce della morte. Ma quanto più la società è indipendente dai suoi capi, ciò che dovrebbe portare al trionfo della libertà sulla necessità, tanto più è sottoposta all’azione delle forze demoniache sprigionate da se stessa.

                                                                    *

     Tutto lo stile del mio secolo cerca di tenersi al passo con una deprimente e ridicola laidezza. Nei disegni, nei dipinti, nel teatro, nella poesia si avverte lo stile dell’assurdo, di un amaro, pervicace scherno di se stessi, della condizione umana.

     In questo stile tutto si fonde. La solitudine dell’uomo nell’universo, la diseredazione della sua fantasia dallo spazio che conduce a Dio; le immagini ininterrotte di ciò che avviene sulla superficie dell’intero pianeta; l’odio neo-manicheo per la materia; la sfida di Prometeo in nome delle sofferenze umane, senza un destinatario, perché diretta al nulla. Per questo, considerata tale mescolanza d’ingredienti, lo stile è altresì ambivalente, e quasi ogni messaggio che trasmette si può parimenti interpretare vuoi come sconforto metafisico, vuoi come maledizione scagliata sugli uomini che maltrattano altri uomini, ovverosia sulla cattiva società.

     Non amo l’assurdo e non intendo ossequiarlo servendomi dello stile dell’assurdo, anche se mi assicurano che tale stile nasce dalla protesta. Nell’umore nero patibolare c’è troppa confessione d’impotenza totale, da tempi immemorabili la beffa essendo stata l’unica rivincita degli umiliati, degli oppressi, degli schiavi. La sensibilità odierna si è a tal punto logorata e appiattita, che se non la stimolassimo con l’aiuto di colpi alla Grand Guignol, la

la nostra voce non sarebbe udita pressoché da nessuno, comunque sia lo spregio della moda mi ha protetto, generalmente parlando, dalle concessioni. È possibile che il bisogno di ordine sia in me eccezionalmente sentito, che nei miei gusti ci sia del classico, o che abbia perfino le abitudini di un ragazzo bonario e ingenuo, il che si spiegherebbe con la mia educazione cattolica. Penso tuttavia che in questo bisogno di ordine, nell’avversione a replicare all’assurdo con una smorfia dannata, io sia un essere del tutto comune, salvo che meno di altri mi vergogno dei richiami del cuore.

     Non amo lo stile dell’assurdo, ma non amo neppure l’ordine naturale, che è sottomissione alla forza cieca, alla forza di gravità, e quindi un controsenso che offende il mio spirito. Come entità corporale appartengo a questo ordine, ma non lo accetto. E a sangue freddo affermo che, malgrado oggi la nostra immaginazione non si lasci abbindolare dalla ripartizione dell’esistenza nelle tre sfere del Cielo, della Terra e dell’Inferno, tale ripartizione è inevitabile. L’uomo in se stesso è contraddittorio, perché sta nel mezzo. Considero fandonie ciò che alcuni cattolici, volendo ingraziarsi i non credenti, narrano sulla bontà del mondo. Sono d’accordo invece con Simone Weil, quando dice che, non senza ragione, il diavolo porta il titolo di Principe di questo Mondo.

                                                                     *

     Quando ero studente, la sobrietà del pensiero e lo scetticismo riguardo alle splendide parole d’ordine che promettevano soluzioni definitive, irritavano e facevano arrossire ognuno di noi, bisognava reprimerle come segno di debolezza. E senza dubbio, ora che guardo la cosa in prospettiva, devo riconoscere che il buonsenso è sempre uscito sconfitto quando affermava che il bene è soltanto nella cerchia dell’individuo, e non si applica alle questioni riguardanti la collettività umana. Ha perso tuttavia soltanto rispetto a un termine relativamente breve, e qui è risultato che in verità solo l’individuo è reale, non i movimenti delle masse, ove egli volontariamente si perde  per fuggire da se stesso. Non ho mai ritenuto di essere uno scrittore politico e non ho l’ambizione di salvare l’America o il mondo. Qui e adesso cerco soltanto di trovare una risposta alla domanda: che cosa ho appreso in America e che cosa di questo è per me particolarmente prezioso. Voglio riassumere la questione in tre pro e contro: sono pro – il  cosiddetto uomo comune, sono contro – l’arroganza degli intellettualisti; sono pro – la tradizione biblica, contro – la ricerca del Nirvana individuale o collettivo; sono pro – la scienza e la tecnica, contro – l’illusione dell’innocenza primordiale.

     Vivendo nella California avveniristica ho ricavato, penso, vantaggi autoeducativi. Qui in certo qual modo occorre venire a patti col proprio orgoglio. Ogni letterato nei suoi momenti di ottimismo si considera un genio e se vive nel suo esiguo paese, che si differenzia per la lingua dai paesi vicini, può godere di svariati lusinghieri giudizi su se stesso. Scrivendo in America in polacco (perché un poeta può usare soltanto la lingua della sua infanzia), mi privo di questo vantaggio. Ma in realtà non si tratta di lingua, come nemmeno in Francia di essere straniero. I rapporti tra il poeta e i lettori sono più diversi qui che là da dove provengo, per effetto del territorio e della massa umana, ma del resto essi furono assai diversi anche nei paesi slavi. Devo dunque semplicemente constatare di essere uno dei tanti poeti nel Golfo di San Francisco. La maggior parte di loro scrive in inglese, ma c’è anche chi scrive in spagnolo, in greco, in tedesco, in russo. Benché qualcuno di loro goda di notorietà, nei rapporti con la gente è un anonimo, e dunque nuovamente uno dei tanti, in un senso diverso e più ampio. Qualunque cosa appaghi la nostra ambizione, costituisce un assai efficace divertissement, cui, a giudizio di Pascal, continuamente l’uomo ricorre, pur di celare l’inutilità delle sue brighe e la paura della morte. In America è difficile avere un divertissement, ma esso è tanto più importante, visto che ci muoviamo in essa come molecole di «folla solitaria». In una situazione alquanto simile dovevano sentirsi gli abitanti della Roma cosmopolita-greco-ebrea-latina. Con questo non voglio affatto dire di considerarmi superiore a certe inezie, quali il desiderio di fama e di approvazione. Ma l’America ti mette semplicemente con le spalle al muro e ti obbliga ad una certa qual stoica virtù: eseguire ciò che fai possibilmente nel modo migliore e, nello stesso tempo, conservare nei riguardi di ciò un distacco che trae origine dalla consapevolezza dell’ignoranza, dell’infantilismo, dell’incompiutezza proprie e degli uomini in generale.

                                                                   *

     Volevo condurre una vita stimabile e degna, tra amici e parenti, nella terra natale, nella città che avrei potuto chiamare mia. Sui brevi momenti di gioia goduti nella cerchia dei colleghi, quasi dei filòmati, ho edificato poi per anni e anni una vita immaginaria, tale e quale avrei potuto avere fra paesaggi e volti familiari, laddove a nessuno bisognava spiegare chi sei e cosa fai. E il mio destino, l’esilio, ho mal sopportato. L’esilio ha due peculiarità deprimenti: l’anonimato e la falsa apparenza. L’anonimato, quasi avessi cambiato il cognome, recide agli occhi altrui il legame tra quello che fosti e quello che sei, e di conseguenza ti costringe a complicate pratiche di adattamento, in quanto non puoi più richiamarti a nessun tuo precedente successo, come ad esempio le poesie scritte una volta in polacco. È una cosa avvilente per le tue ambizioni, ma ancora peggiore è la falsa apparenza. Intendo qui l’immagine parziale che si crea per effetto di qualche saggio su di te nella stampa estera, che è tale da far «cascare le braccia». Dovetti imparare a vivere come un esule, volontariamente escluso dalla «buona compagnia» degli intellettualisti occidentali, perché avevo osato ferire le loro sacrosante convinzioni, che io considero una collezione di equivoci storici, geografici e politici.

     Quando ero un giovane di Vilno sono partito alla conquista del mondo, solo per vedermi – malgrado il “successo” apparente – come uno zoppo che ha appreso l’arte di muoversi con le grucce. Perché mai un uomo solo, incrinato, senza un suo posto sulla terra, non dovrebbe trattare se stesso con clemenza, ed anche con biasimo, ma un biasimo amichevole?

(I passi citati sono stati tratti dai seguenti libri: Visioni sul Golfo di San Francisco, Doveri privati, La terra di Ulro).

2 Risposte to “Confidenze di Czesław Miłosz tradotte da Paolo Statuti”

  1. marcello comitini settembre 1, 2020 a 11:29 am #

    “Ma quanto più la società è indipendente dai suoi capi, ciò che dovrebbe portare al trionfo della libertà sulla necessità, tanto più è sottoposta all’azione delle forze demoniache sprigionate da se stessa.
    Povero Czeslaw Milosz che cerca in tutti i modi perdonare l’essere umano attribuendo a forze demoniache sprigionate dalla libertà sociale, quando in realtà sono istinti umani dell’uomo si crede libero di commettere azioni delittuose.
    Forse lo fa per giustificare se stesso, senza rendersi conto che sta anche giustificando la società che ritiene preda di forze demoniache:
    ” Perché mai un uomo solo, incrinato, senza un suo posto sulla terra, non dovrebbe trattare se stesso con clemenza, ed anche con biasimo, ma un biasimo amichevole?”

  2. giorgio linguaglossa settembre 2, 2020 a 8:41 am #

    Milosz non considera che per capire gli uomini di tutte le latitudini dobbiamo far ricorso alle categorie della psichiatria piuttosto che a quelle del buon senso e della filosofia kantiana. Gli uomini che popolano il pianeta non sanno nulla di Kant o di Adorno e non vogliono neanche saperne, a loro è sufficiente il piccolo quadrato di terra che calpestano quando passeggiano. E ciascuno di loro si crede importante, anzi, insostituibile. Soprattutto i poeti, una razza da eliminare subito… “canaglie” come li definì Baudelaire –

Scrivi una risposta a giorgio linguaglossa Cancella risposta