Krzysztof Karasek: I miei pittori

23 Mar

 

 

     Il ciclo I miei pittori del poeta Krzysztof Karasek (ho già pubblicato nel mio blog alcune sue poesie) fa parte della sua ultima raccolta La gioiosa conoscenza (2015). Esso è dedicato alla memoria del padre artista grafico. Il poeta esprime il suo grande interesse per la pittura, e in particolare per i pittori come Paul Cézanne, Claude Monet, Vincent van Gogh, Paul Gauguin, Edward Hopper ed altri ancora. Vede l’affinità esistente tra la pittura e la poesia, e considera le visioni pittoriche come visioni del mondo. Per questo nella Lettera a Paul Cézanne scrive: “Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne, è quell’artificiosità che colloca gli oggetti e le cose in una nuova luce”. Sia il poeta che il pittore creano composizioni strettamente collegate, le quali da una certa concreta prospettiva permettono di guardare un fenomeno studiato (descritto, dipinto). Con vero piacere e interesse ho tradotto 11 poesie di questo ciclo con l’animo del poeta e del pittore, dando loro appropriata collocazione nel mio blog, dedicato com’è noto, alla poesia, alla pittura e alla musica.

 

Poesie del ciclo I miei pittori tradotte da Paolo Statuti

 

Lettera a Cézanne

Per tanti anni non ti ho pensato, Cézanne,

eppure davvero eri uno degli ostetrici

della mia giovinezza. Sei volato via chissà dove

nello spazio dell’oblio e a un tratto

hai ricordato la tua assenza dentro di me.

 

Avevo vent’anni, cioè più di mezzo secolo fa,

ma ricordo bene cosa scrivevi a Emile Bernard,

nella lettera che mi affascina ancora oggi:

devi trattare gli oggetti come cilindro, sfera, cono,

il tutto messo in prospettiva, in modo

che ogni parte di un oggetto, di un piano

sia diretta verso un punto centrale.

Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione,

cioè una sezione della natura. Le linee perpendicolari

danno la profondità. Per noi uomini la natura è più

in profondità che in superficie, di qui la necessità

di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce,

rappresentate dai rossi e dai gialli,

una quantità sufficiente di toni blu,

per far sentire l’aria.

 

e vedo quei cubi, coni, sfere

diventare miei. Si compongono

nella mia visione del mondo

piena di fessure e di fori.

Restringo le linee, tra esse allargo le fessure,

aumento lo spazio tra le linee – tridimensiono –

creandone una terza, come interlinea,

svuotata delle parole, ma riempita di significati.

Desiderando una nuova sintesi,

creo una nuova misura del verso,

inesistente ma concretizzata

nella mia e nella tua mente.

 

Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne,

è quell’artificiosità che colloca gli oggetti e le cose

in una nuova luce. L’arte è artificiosa, questo truismo

nel modo più evidente mostra la sua mutevolezza,

non c’è in essa niente di naturale e ciò che vedono gli occhi

si rivela, una volta ancora, un inganno della fantasia,

che ci rimanda all’oggetto.

Perché la verità stessa è artificiosa, convenzionale,

vediamo diversamente e ciò ci avvicina alla natura più

della fedeltà di una fotografia. Questo

e un certo tipo di freddezza – diciamo meglio distanza –

che ritroviamo tra la visuale e la natura. E’ come

se dall’oggetto ci separasse un vetro,

che impedisce di vedere con le dita, con la bocca – per fortuna.

Proprio la freddezza, l’intangibilità delle cose

apre davanti a noi nuove possibilità, una nuova loro verità

e un nuovo orizzonte visibile.

 

Ti ringrazio, Cézanne, per la dimenticata lezione

della giovinezza, il cui conto vorrei lasciare aperto.

Sì, bisogna prima scomporre il mondo per poterlo poi

ricomporre. Cioè calcolare se non si è persa nel frattempo

una sua parte, se non ne manca qualcuna,

per dargli un suono diverso e più espressivo.

 

23.09.2014

 

Monet sulla barca

(da Manet)

 

Luglio. La luce con l’oscurità mi moltiplica,

siedo all’ombra.

La visuale dell’occhio si restringe, l’ombra

si divide in penombre.

 

Un rametto del linguaggio rimane staccato,

non voglio spartire con nessuno la luce e l’oscurità.

Desidero l’ombra. Boschetti e cardi

ombrati.

 

La mano fredda, un impacco sugli occhi

che canta. La visuale

che non tormenta più e non brucia.

La luce attenuata del sapere.

 

20.07.2010

 

Alla maniera di Monet

 

Nei portici di bianco ciliegio

quando il futuro delle api è incerto,

le ortensie nel mio giardino si sono scurite.

La morte è la morte,

perché non ha mai gustato i frutti della vita.

Sta sulla soglia di casa,

e davanti casa giocano i bambini.

 

Di primo mattino tutti i colori della luce

prendono la succosità dell’arancia.

Il grande frutto del sole

percorre la volta celeste

fino al completo smarrimento.

E’ l’istante in cui nascono i sogni.

Qua e là il gufo

emette l’aspro frutto della voce,

che fa rizzare i capelli in testa

agli ultimi cercatori di funghi,

gli alberi allungano le braccia come il Re degli elfi

per afferrare il bambino, alberi incappucciati,

alberi fantasmi.

 

Le rose Dio solo sa quanto belle,

si spengono nell’azzurro chiarore

come le fiammelle di gas

dei lampioni di periferia,

i loro petali si agitano al vento

si spengono sull’altare della notte come candele.

Ma guardate, il giorno sull’altura ad est

in un manto di rose

fa cadere la rugiada,

dice Shakespeare.

E a lui bisogna credere.

 

Gauguin, il sole nero

 

Il Cristo giallo, il sole nero, il palpito

del paesaggio. Il prato rosso invaso

dal verde di sangue.

Mescolava i colori come un giocatore le carte,

il suo viaggio nel suo intimo

si approfondiva ad ogni respiro. L’apostata

lo effettuava al contrario della maggior parte di noi –

nel ritorno alla fonte animistica. Non conosceva Nerval,

ma quel sole nero, che abbiamo scoperto nei suoi scuri,

ci attira ancora oggi, il sole nero delle sue pupille,

e brilla più di un’arancia che avvoltoliamo nel sole.

 

Getta via il nero cilindro e i guanti bianchi,

il cambio della nevrosi con la sifilide, le nozze col colore

sono spossanti come quelle con Matilde. Le sue pupille

assorbirono tale dose di colori, che il mondo perse

la compattezza che cercavano di conservare

tutti, da Rembrandt a Monet.

 

Viveva per il colore e il colore

lo trascinò nel suo abissale

vortice giallo, che vide negli occhi

del dio tahitiano. L’abisso:

dal Cristo giallo alla selvaggia, avida

divinità. Vieni con me, lascia il Cristo giallo.

In me c’è il sole nero della rovina,

l’autodistruzione. Gli abbiamo creduto,

anche senza seguirlo. Proprio a causa

di questo sole.

 

11.04.2011

 

Nostro fratello Vincent

                                            

                                           Apollo mi ha colpito.

Hölderling

 

Il colore è un dio minaccioso,

ci riempie fino al bianco degli occhi

abbaglia

ed esterna

(ne sapeva qualcosa Nietzsche,

ma ha portato il segreto

nella tomba);

un dio

che cela con cura il suo nome

dietro una cortina di nuvole

e si mostra

ora nella parola, ora

nella morte, ora

nell’amore.

Un’altra volta nell’ira

(il colore è la speranza suddivisa,

svela il suo segreto agli eletti, ma al tempo stesso

offusca la mente).

 

Lo vedo, in piedi

nel campo,

nel dolore accecante di luglio,

e la sua testa brucia

di luminosa fiamma

(gli occhi fumano),

il colore è un dio minaccioso,

che consuma dall’interno

– chiarore rinasto orfano, superumana

oscurità. – La luce

è un dio crudele,

visibile,

ma non commestibile,

penetra in ogni cellula

e incenerisce

i frutti. Sapendo ciò

siamo tuttavia incapaci

di respingerla: crudele Apollo

che scortica

la nostra giovinezza.

Per questo

amiamo così tanto

la luce scura, gli umidi

recessi del bosco. Amiamo

tutti la nostra notte.

 

4.09.1990

 

Ensor

 

Totem, maschere, spettri

mi guardano, imitando

il luccichio della memoria, li inserisco

tra le linee dell’orologio

appostato sulla parete, così come mi piace,

senza chiaroscuro e flessioni,

 

dico loro di non guardarmi così

con quello sguardo saponato

qui occorre l’arte drammatica, la forza dell’idea,

ma essi, si sono sistemati di traverso sul tavolo

come l’orologio di Dalí e grondano dal piano

come fresco camambert, in modo surrealistico

sistemando gli accenti, ammirando il paesaggio,

immergendo la fantasia nella visione di un sogno,

 

li invito a passeggiare nei vialetti

invasi dalle righe di poeti prestigiosi,

dove da una parte fiorisce

la primula arcadica, e dall’altra

i mezzi stilistici che ammaliano l’epoca

col canto delle sirene.

 

12.11.2008

 

Mondrian

 

Le cinque erano più volte

più volte erano le quattro

più volte erano anche le dodici

E più volte anche

l’ora zero.

 

Più volte le ore si addormentavano

e si svegliavano

più volte Tracciavano

la traiettoria di un qualche destino

e la mezzanotte era mezzanotte benché nessuno la vedesse

Benché proprio allora fossero le cinque

 

Per niente le cinque

Per niente neanche le quattro le dodici

Ed anche l’ora zero

Per niente

 

marzo 2006

 

Soutine: vene di bile, sangue del bianco

 

Il sangue del bianco mescolato con l’agonia dello spazio

ci fa capire questo viaggio. Il panorama danza

come visto da dentro un vortice

che ci attira nel centro.

Gli alberi respinti dalla centrifuga, come dopo un’esplosione,

si aggrappano ai bordi dello stagno. Mi sforzo di dominare

il caos, di ristabilire l’ordine, che non conosce limiti

né possibilità. Gli intensi impasti

esprimono la tirannia del dramma del cielo, che si svolge

tra colore e preghiera, tra sofferenza

e stupore. Tra i grani del rosario

sparsi nella sinagoga di Mińsk e il kaddish

del pesce quaresinale, appeso a un chiodo nello studio,

e che si guasta da una settimana, quanto basta

perché cominci a puzzare,

perché egli lo possa dipingere. Perché niente è finito ancora,

e già comincia.

 

23.07.2008

 

Hopper

 

Dipingeva di primo mattino o al crepuscolo,

quando l’ombra lascia una lunga traccia bagnata,

tagliando la superficie. Proprio allora

appariva lei, Penelope, Josephine Verstille

Nivison, Jo.

 

Lo stato Hopper e lo stato di Platone, lo stato di due.

Sempre varcava le sue frontiere, e quanto più le contestava,

tanto più le smarriva

negli ombrosi giardini del quadro,

dove i colori ondeggiavano come tenda, quando si alza il vento,

o bruciavano, quando cadevano le foglie.

Si chiamava anche Euridice, ma ciò non contava

per chi come lui amava i colori

e le ombre. E proprio il luccichio della sua sterpaglia,

comunque lo guardasse lo attirava

più di tutto. Ombre tra le ombre di un bar notturno,

uomini che siedono una domenica mattina

sul ciglio della strada deserta

tra i fantasmi delle case. Era il re dell’ombra

in un  giardino di crepuscoli e diluvi,

e lei era la sua regina. Una fessura di luce

nella porta socchiusa del fienile, la mattina,

l’ombra diventava la sua Penelope.

 

24.07. 2008

 

Balthus

 

Le donne nella vecchiaia diventano simili

agli uomini, e al contrario gli uomini

si differenziano sempre più.

 

Era una menzogna ben scritta.

Pensava che il superamento di un pendio

si protraesse all’infinito.

 

Tra molte strade ho scelto la meno frequentata

ed è stata una buona scelta.

Solo i buoni ricordi valgono qualcosa.

 

Le nostre lacrime sono salate e il sangue è rosso,

perché dunque le divisioni? Processo creativo?

Raggiungere lo stato di vuoto,

Non cercare nulla. Non vedere nulla.

La casa è là, dove sono i miei debiti.

 

A lei piacciono i gatti?

Sì. Ma senza reciprocità.

 

Wróblewski, prova di fedeltà

 

Wróblewski lo prevedeva, Wróblewski lo sperimentava.

Siamo fucilati.

Eravamo. Saremo.

Ci fucilano e ci immortalano.

E fucileremo i vostri

e i nostri sogni.

Wróblewski lo sapeva bene, Wróblewski ha visto

qualcosa che dovrà essere, che accadrà.

Tempo passato imperfetto, inevitabile,

imprevedibile.

Lo vedo seduto su una pietra con la ferita aperta del libro

sui ginocchi, presso un sentiero di montagna. La gente passa,

lo supera, non vedono che lo legge un defunto. Che libro è?

E dove conduce il sentiero?

 

Wróblewski sulla pietra con la ferita aperta del libro

sui ginocchi, non riconosciuto, defunto.

Il più bel quadro che ha lasciato,

non dipinto.

 

17.07. 2014

 

Nota: Andrzej Wróblewski (1927-1957). Uno dei più illustri artisti polacchi del dopoguerra. Fino al termine della sua breve vita rimase un ribelle alla ricerca di un suo stile personale, tra arte astratta e figurativa. La sua morte ha dell’incredibile: durante una gita sui monti Tatra si è seduto su una pietra per leggere un libro. Probabilmente ebbe un arresto cardiaco e restò seduto a lungo, e nessuno dei passanti pensava che fosse morto.

 

 

 

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