Il ciclo I miei pittori del poeta Krzysztof Karasek (ho già pubblicato nel mio blog alcune sue poesie) fa parte della sua ultima raccolta La gioiosa conoscenza (2015). Esso è dedicato alla memoria del padre artista grafico. Il poeta esprime il suo grande interesse per la pittura, e in particolare per i pittori come Paul Cézanne, Claude Monet, Vincent van Gogh, Paul Gauguin, Edward Hopper ed altri ancora. Vede l’affinità esistente tra la pittura e la poesia, e considera le visioni pittoriche come visioni del mondo. Per questo nella Lettera a Paul Cézanne scrive: “Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne, è quell’artificiosità che colloca gli oggetti e le cose in una nuova luce”. Sia il poeta che il pittore creano composizioni strettamente collegate, le quali da una certa concreta prospettiva permettono di guardare un fenomeno studiato (descritto, dipinto). Con vero piacere e interesse ho tradotto 11 poesie di questo ciclo con l’animo del poeta e del pittore, dando loro appropriata collocazione nel mio blog, dedicato com’è noto, alla poesia, alla pittura e alla musica.
Poesie del ciclo I miei pittori tradotte da Paolo Statuti
Lettera a Cézanne
Per tanti anni non ti ho pensato, Cézanne,
eppure davvero eri uno degli ostetrici
della mia giovinezza. Sei volato via chissà dove
nello spazio dell’oblio e a un tratto
hai ricordato la tua assenza dentro di me.
Avevo vent’anni, cioè più di mezzo secolo fa,
ma ricordo bene cosa scrivevi a Emile Bernard,
nella lettera che mi affascina ancora oggi:
devi trattare gli oggetti come cilindro, sfera, cono,
il tutto messo in prospettiva, in modo
che ogni parte di un oggetto, di un piano
sia diretta verso un punto centrale.
Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione,
cioè una sezione della natura. Le linee perpendicolari
danno la profondità. Per noi uomini la natura è più
in profondità che in superficie, di qui la necessità
di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce,
rappresentate dai rossi e dai gialli,
una quantità sufficiente di toni blu,
per far sentire l’aria.
e vedo quei cubi, coni, sfere
diventare miei. Si compongono
nella mia visione del mondo
piena di fessure e di fori.
Restringo le linee, tra esse allargo le fessure,
aumento lo spazio tra le linee – tridimensiono –
creandone una terza, come interlinea,
svuotata delle parole, ma riempita di significati.
Desiderando una nuova sintesi,
creo una nuova misura del verso,
inesistente ma concretizzata
nella mia e nella tua mente.
Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne,
è quell’artificiosità che colloca gli oggetti e le cose
in una nuova luce. L’arte è artificiosa, questo truismo
nel modo più evidente mostra la sua mutevolezza,
non c’è in essa niente di naturale e ciò che vedono gli occhi
si rivela, una volta ancora, un inganno della fantasia,
che ci rimanda all’oggetto.
Perché la verità stessa è artificiosa, convenzionale,
vediamo diversamente e ciò ci avvicina alla natura più
della fedeltà di una fotografia. Questo
e un certo tipo di freddezza – diciamo meglio distanza –
che ritroviamo tra la visuale e la natura. E’ come
se dall’oggetto ci separasse un vetro,
che impedisce di vedere con le dita, con la bocca – per fortuna.
Proprio la freddezza, l’intangibilità delle cose
apre davanti a noi nuove possibilità, una nuova loro verità
e un nuovo orizzonte visibile.
Ti ringrazio, Cézanne, per la dimenticata lezione
della giovinezza, il cui conto vorrei lasciare aperto.
Sì, bisogna prima scomporre il mondo per poterlo poi
ricomporre. Cioè calcolare se non si è persa nel frattempo
una sua parte, se non ne manca qualcuna,
per dargli un suono diverso e più espressivo.
23.09.2014
Monet sulla barca
(da Manet)
Luglio. La luce con l’oscurità mi moltiplica,
siedo all’ombra.
La visuale dell’occhio si restringe, l’ombra
si divide in penombre.
Un rametto del linguaggio rimane staccato,
non voglio spartire con nessuno la luce e l’oscurità.
Desidero l’ombra. Boschetti e cardi
ombrati.
La mano fredda, un impacco sugli occhi
che canta. La visuale
che non tormenta più e non brucia.
La luce attenuata del sapere.
20.07.2010
Alla maniera di Monet
Nei portici di bianco ciliegio
quando il futuro delle api è incerto,
le ortensie nel mio giardino si sono scurite.
La morte è la morte,
perché non ha mai gustato i frutti della vita.
Sta sulla soglia di casa,
e davanti casa giocano i bambini.
Di primo mattino tutti i colori della luce
prendono la succosità dell’arancia.
Il grande frutto del sole
percorre la volta celeste
fino al completo smarrimento.
E’ l’istante in cui nascono i sogni.
Qua e là il gufo
emette l’aspro frutto della voce,
che fa rizzare i capelli in testa
agli ultimi cercatori di funghi,
gli alberi allungano le braccia come il Re degli elfi
per afferrare il bambino, alberi incappucciati,
alberi fantasmi.
Le rose Dio solo sa quanto belle,
si spengono nell’azzurro chiarore
come le fiammelle di gas
dei lampioni di periferia,
i loro petali si agitano al vento
si spengono sull’altare della notte come candele.
Ma guardate, il giorno sull’altura ad est
in un manto di rose
fa cadere la rugiada,
dice Shakespeare.
E a lui bisogna credere.
Gauguin, il sole nero
Il Cristo giallo, il sole nero, il palpito
del paesaggio. Il prato rosso invaso
dal verde di sangue.
Mescolava i colori come un giocatore le carte,
il suo viaggio nel suo intimo
si approfondiva ad ogni respiro. L’apostata
lo effettuava al contrario della maggior parte di noi –
nel ritorno alla fonte animistica. Non conosceva Nerval,
ma quel sole nero, che abbiamo scoperto nei suoi scuri,
ci attira ancora oggi, il sole nero delle sue pupille,
e brilla più di un’arancia che avvoltoliamo nel sole.
Getta via il nero cilindro e i guanti bianchi,
il cambio della nevrosi con la sifilide, le nozze col colore
sono spossanti come quelle con Matilde. Le sue pupille
assorbirono tale dose di colori, che il mondo perse
la compattezza che cercavano di conservare
tutti, da Rembrandt a Monet.
Viveva per il colore e il colore
lo trascinò nel suo abissale
vortice giallo, che vide negli occhi
del dio tahitiano. L’abisso:
dal Cristo giallo alla selvaggia, avida
divinità. Vieni con me, lascia il Cristo giallo.
In me c’è il sole nero della rovina,
l’autodistruzione. Gli abbiamo creduto,
anche senza seguirlo. Proprio a causa
di questo sole.
11.04.2011
Nostro fratello Vincent
Apollo mi ha colpito.
Hölderling
Il colore è un dio minaccioso,
ci riempie fino al bianco degli occhi
abbaglia
ed esterna
(ne sapeva qualcosa Nietzsche,
ma ha portato il segreto
nella tomba);
un dio
che cela con cura il suo nome
dietro una cortina di nuvole
e si mostra
ora nella parola, ora
nella morte, ora
nell’amore.
Un’altra volta nell’ira
(il colore è la speranza suddivisa,
svela il suo segreto agli eletti, ma al tempo stesso
offusca la mente).
Lo vedo, in piedi
nel campo,
nel dolore accecante di luglio,
e la sua testa brucia
di luminosa fiamma
(gli occhi fumano),
il colore è un dio minaccioso,
che consuma dall’interno
– chiarore rinasto orfano, superumana
oscurità. – La luce
è un dio crudele,
visibile,
ma non commestibile,
penetra in ogni cellula
e incenerisce
i frutti. Sapendo ciò
siamo tuttavia incapaci
di respingerla: crudele Apollo
che scortica
la nostra giovinezza.
Per questo
amiamo così tanto
la luce scura, gli umidi
recessi del bosco. Amiamo
tutti la nostra notte.
4.09.1990
Ensor
Totem, maschere, spettri
mi guardano, imitando
il luccichio della memoria, li inserisco
tra le linee dell’orologio
appostato sulla parete, così come mi piace,
senza chiaroscuro e flessioni,
dico loro di non guardarmi così
con quello sguardo saponato
qui occorre l’arte drammatica, la forza dell’idea,
ma essi, si sono sistemati di traverso sul tavolo
come l’orologio di Dalí e grondano dal piano
come fresco camambert, in modo surrealistico
sistemando gli accenti, ammirando il paesaggio,
immergendo la fantasia nella visione di un sogno,
li invito a passeggiare nei vialetti
invasi dalle righe di poeti prestigiosi,
dove da una parte fiorisce
la primula arcadica, e dall’altra
i mezzi stilistici che ammaliano l’epoca
col canto delle sirene.
12.11.2008
Mondrian
Le cinque erano più volte
più volte erano le quattro
più volte erano anche le dodici
E più volte anche
l’ora zero.
Più volte le ore si addormentavano
e si svegliavano
più volte Tracciavano
la traiettoria di un qualche destino
e la mezzanotte era mezzanotte benché nessuno la vedesse
Benché proprio allora fossero le cinque
Per niente le cinque
Per niente neanche le quattro le dodici
Ed anche l’ora zero
Per niente
marzo 2006
Soutine: vene di bile, sangue del bianco
Il sangue del bianco mescolato con l’agonia dello spazio
ci fa capire questo viaggio. Il panorama danza
come visto da dentro un vortice
che ci attira nel centro.
Gli alberi respinti dalla centrifuga, come dopo un’esplosione,
si aggrappano ai bordi dello stagno. Mi sforzo di dominare
il caos, di ristabilire l’ordine, che non conosce limiti
né possibilità. Gli intensi impasti
esprimono la tirannia del dramma del cielo, che si svolge
tra colore e preghiera, tra sofferenza
e stupore. Tra i grani del rosario
sparsi nella sinagoga di Mińsk e il kaddish
del pesce quaresinale, appeso a un chiodo nello studio,
e che si guasta da una settimana, quanto basta
perché cominci a puzzare,
perché egli lo possa dipingere. Perché niente è finito ancora,
e già comincia.
23.07.2008
Hopper
Dipingeva di primo mattino o al crepuscolo,
quando l’ombra lascia una lunga traccia bagnata,
tagliando la superficie. Proprio allora
appariva lei, Penelope, Josephine Verstille
Nivison, Jo.
Lo stato Hopper e lo stato di Platone, lo stato di due.
Sempre varcava le sue frontiere, e quanto più le contestava,
tanto più le smarriva
negli ombrosi giardini del quadro,
dove i colori ondeggiavano come tenda, quando si alza il vento,
o bruciavano, quando cadevano le foglie.
Si chiamava anche Euridice, ma ciò non contava
per chi come lui amava i colori
e le ombre. E proprio il luccichio della sua sterpaglia,
comunque lo guardasse lo attirava
più di tutto. Ombre tra le ombre di un bar notturno,
uomini che siedono una domenica mattina
sul ciglio della strada deserta
tra i fantasmi delle case. Era il re dell’ombra
in un giardino di crepuscoli e diluvi,
e lei era la sua regina. Una fessura di luce
nella porta socchiusa del fienile, la mattina,
l’ombra diventava la sua Penelope.
24.07. 2008
Balthus
Le donne nella vecchiaia diventano simili
agli uomini, e al contrario gli uomini
si differenziano sempre più.
Era una menzogna ben scritta.
Pensava che il superamento di un pendio
si protraesse all’infinito.
Tra molte strade ho scelto la meno frequentata
ed è stata una buona scelta.
Solo i buoni ricordi valgono qualcosa.
Le nostre lacrime sono salate e il sangue è rosso,
perché dunque le divisioni? Processo creativo?
Raggiungere lo stato di vuoto,
Non cercare nulla. Non vedere nulla.
La casa è là, dove sono i miei debiti.
A lei piacciono i gatti?
Sì. Ma senza reciprocità.
Wróblewski, prova di fedeltà
Wróblewski lo prevedeva, Wróblewski lo sperimentava.
Siamo fucilati.
Eravamo. Saremo.
Ci fucilano e ci immortalano.
E fucileremo i vostri
e i nostri sogni.
Wróblewski lo sapeva bene, Wróblewski ha visto
qualcosa che dovrà essere, che accadrà.
Tempo passato imperfetto, inevitabile,
imprevedibile.
Lo vedo seduto su una pietra con la ferita aperta del libro
sui ginocchi, presso un sentiero di montagna. La gente passa,
lo supera, non vedono che lo legge un defunto. Che libro è?
E dove conduce il sentiero?
Wróblewski sulla pietra con la ferita aperta del libro
sui ginocchi, non riconosciuto, defunto.
Il più bel quadro che ha lasciato,
non dipinto.
17.07. 2014
Nota: Andrzej Wróblewski (1927-1957). Uno dei più illustri artisti polacchi del dopoguerra. Fino al termine della sua breve vita rimase un ribelle alla ricerca di un suo stile personale, tra arte astratta e figurativa. La sua morte ha dell’incredibile: durante una gita sui monti Tatra si è seduto su una pietra per leggere un libro. Probabilmente ebbe un arresto cardiaco e restò seduto a lungo, e nessuno dei passanti pensava che fosse morto.
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