Omaggio a Wisława Szymborska. Nella mia versione presento qui alcune poesie di Wisława Szymborska, scomparsa il 1 febbraio 2012.
Tuttora
Dentro i piombati vagoni
attraversano i nomi
il paese. Dove andranno,
e se mai scenderanno,
non chiedete, non dirò, non so.
Il nome Natan contro il ferro picchia,
il nome Izaak demente canticchia,
il nome Sara un po’ d’acqua chiede
per il nome Aaron che muore di sete.
Nome David, non saltare in corsa.
Sei un nome che vuol dir sconfitta,
non dato a nessuno, senza forza,
che è duro avere in questa terra afflitta.
Il figlio abbia un nome slavo,
perché qui contano i capelli,
scindono il buono dall’ignavo
secondo il nome e gli occhi di quelli.
Non saltare. Sia Lech il figlio.
Non saltare. Non è il momento questo.
La notte risuona come un ghigno
e alle ruote rifà il verso funesto.
Il fumo umano è spinto dal vento,
da un gran dolore – solo un lamento,
una lacrima, il cuore leggero.
Corre il treno nel bosco nero.
Taratran sui binari. Il bosco è senza uscita.
Taratran. Nel bosco il trasporto delle grida.
Taratran. Di notte ascolto tra le ruote,
taratran, come il silenzio il silenzio scuote.
Canto d’amore per la terra natia
Senza questo amore si può campare,
avere il cuore asciutto come una noce,
la piccola sorte bere col ditale
lontano dal conforto e dal dolore,
conoscere come si può la speranza,
farsi un nascondiglio nelle tenebre,
dei raggi del legno marcio dire “è l’alba”,
dei raggi del sole non dire niente.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Terra luminosa, terra natia,
non sarò come una quercia abbattuta.
Con la gioia, la tristezza, la boria e l’ira
sempre di più in te sono racchiusa.
Non sarò come un filo spezzato.
Getto via i suoni che echeggiano muti.
Si può non amarti – e tuttavia campare,
ma senza avere – senza dare frutti.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Discorso nell’ufficio oggetti smarriti
Ho perso parecchie dee per la strada da sud a nord,
ed anche molti dei per la strada da est ad ovest.
Mi si spensero per sempre alcune stelle, apriti cielo.
Mi si affondò nel mare un’isola, una seconda.
Nemmeno so con precisione, dove ho lasciato gli artigli,
chi porta la mia pelliccia, chi alloggia nel mio guscio.
Persi i parenti, quando strisciando sbucai sulla terra,
e solo qualche ossetto festeggia in me l’anniversario.
Ho gettato via la pelle, ho sperperato vertebre e gambe,
ho perduto i sensi innumerevoli volte.
Da tempo ho socchiuso su tutto questo il terzo occhio,
ho alzato le pinne, mi sono stretta nei rami.
Tutto smarrito, tutto scomparso, disperso ai quattro venti.
Stupisco con me stessa, quanto poco di me sia restato:
una singola persona di genere per ora umano,
che soltanto l’ombrello ha perso ieri nel supermercato.
Ritratto femminile
Deve essere a scelta.
Cambiare, solo perché non cambi nulla.
E’ facile, impossibile, difficile, degno di prova.
Gli occhi ha, se occorre, ora azzurri, ora grigi,
neri, allegri, senza motivo pieni di lacrime.
Dorme con lui come la prima che capita, l’unica al mondo.
Gli partorirà quattro figli, nessun figlio, uno solo.
Ingenua, ma darà ottimi consigli.
Debole, ma ce la farà.
Non ha la testa sul collo, ce l’avrà.
Legge Jaspers e le riviste femminili.
Non sa a che serve un bullone e costruirà un ponte.
Giovane, come al solito giovane, eternamente giovane.
Stringe nelle mani un passerotto con l’ala spezzata,
i suoi soldi per un viaggio lungo e lontano,
il coltello per la carne, un impacco e un bicchierino di vodca.
Dove corre così, non è stanca?
Ma no, solo un po’, molto, non importa.
O lo ama, oppure è un’impuntatura.
Per il bene, per il male e per amor del cielo.
Riabilitazione
Sfruttando l’antico diritto di fantasia
per la prima volta nella vita evoco i morti,
scruto i loro volti, tendo l’orecchio ai loro passi,
benché sappia che chi è morto, è morto a perfezione.
E’ tempo di prendersi la testa nella mano
dicendole: Povero Yorick, dov’è la tua ignoranza,
dov’è la tua cieca fede, dov’è la tua innocenza,
il tuo saràquelchesarà, lo spirito in bilico
tra la verità non accertata e quella accertata?
Li credevo traditori e indegni d’avere un nome,
poiché l’erbaccia schernisce le loro tombe ignote
e le taccole le beffano, e la neve le deride –
ma quelli erano, Yorick, falsi testimoni.
L’eternità dei morti dura, finché
con la memoria li si pagherà.
Labile valuta. Non c’è giorno, che
qualcuno non perda l’eternità.
Oggi l’eternità conosco meglio:
può essere data e ritolta.
Chi è chiamato traditore – ch’egli
muoia col suo nome in una volta.
Questo nostro potere verso i morti
esige un peso risoluto
e che la corte non giudichi di notte,
e che il giudice non sia nudo.
La terra ribolle – e quelli che già sono terra,
si levano, zolla per zolla, pugno dopo pugno,
escono dalla reticenza, ritornano ai nomi,
alla memoria del popolo, ai serti e ai bravo.
Dov’è dunque il mio dominio sulle parole?
Esse son cadute sul fondo d’una lacrima,
parole, parole inadatte alla risurrezione,
morto descrivere come scattare una fotografia.
Neppure per un mezzo respiro riesco a destarle
io, Sisifo assegnato all’inferno della poesia.
Vengono da noi. E come il diamante acute –
le vetrine rilucenti sul davanti,
le finestrelle delle accoglienti dimore,
gli occhiali rosati, i cervelli e i cuori
vetrosi – in silenzio incidono.
Vietnam
Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perché ti sei scavata una tana nella terra? – Non lo so.
Da quanto tempo ti nascondi qui? – Non lo so.
Perché mi hai morso un dito? – Non lo so.
Lo sai che non ti faremo nulla di male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
C’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Sono tuoi questi bambini? – Sì.
Il terrorista, lui guarda
La bomba scoppierà nel bar alle tredici e venti.
Ora sono solo le tredici e sedici.
C’è chi fa ancora in tempo a entrare,
chi a uscire.
Il terrorista attraversa la strada.
La distanza lo protegge da ogni rischio
ma è anche uno spettacolo come al cinema:
Una donna in casacca gialla, ella entra.
Un uomo con gli occhiali scuri, egli esce.
Ragazzi in jeans, essi conversano.
Le tredici diciassette e quattro secondi.
Quel bassetto ha fortuna e monta sullo scooter,
lo spilungone invece entra.
Le tredici dicassette e quaranta secondi.
Ecco una ragazza con un nastrino verde sui capelli.
Accidenti a quell’autobus che la copre.
Le tredici e diciotto.
La ragazza non c’è più.
Se è stata così scema da entrare, o no,
si vedrà, quando li porteranno fuori.
Le tredici e diciannove.
Chissà com’è nessuno entra.
Mentre esce ancora un grassone calvo.
Ma sembra cercare qualcosa nelle tasche e
alle tredici e venti meno dieci secondi
egli torna per i suoi miseri guanti.
Sono le tredici e venti.
Il tempo, com’è lento.
Forse adesso.
Ancora no.
Sì, adesso.
La bomba, ed essa scoppia.
Paroline
– La Pologne? La Pologne? Ci si muore di freddo, vero? – mi chiese e tirò un sospiro di sollievo. Perché di questi paesi ne hanno fatti tanti, che il più sicuro argomento di conversazione è il clima.
– Oh, signora – voglio risponderle – i poeti del mio paese scrivono con i guanti. Non intendo dire che non se li tolgono mai; se la luna scotta, allora sì. In strofe composte di rombanti rampogne, perché soltanto questo può rompere il mugghiare degli uragani, cantano la semplice esistenza dei pastori di foche. I classici con un ghiacciolo d’inchiostro incidono i mucchi di neve indurita. I restanti, i decadenti, piangono la sorte versando stelline di neve. Chi vuole annegarsi deve avere una scure per fare una crepa nel ghiaccio. Oh, signora, oh, mia cara signora.
Così volevo risponderle. Ma avevo dimenticato come si dice foca in francese. Non sono certa del ghiacciolo e della crepa nel ghiaccio.
– La Pologne? La Pologne? Ci si muore di freddo, vero?
– Pas de tout – rispondo gelidamente.
Riassunto
Giobbe, provato nel corpo e nei beni, maledice la sorte umana. Alta poesia. Arrivano gli amici e stracciandosi le vesti esaminano la colpa di Giobbe al cospetto del Signore. Giobbe grida di essere stato giusto. Giobbe non sa perché il Signore lo ha toccato. Giobbe non vuole parlare con loro. Giobbe vuole parlare col Signore. Appare il Signore sul carro del turbine. Davanti a lui schiuso sino al midollo egli loda la sua opera: i cieli, i mari, la terra e gli animali. E particolarmente Behemot, e in special modo Leviatan, bestie che lo riempiono d’orgoglio. Alta poesia. Giobbe ascolta – il Signore non tratta l’argomento, perché non gradisce trattarlo. In fretta quindi si prostra davanti al Signore. Ora gli eventi si susseguono velocemente. Giobbe recupera asini e cammelli, buoi e pecore accresciuti del doppio. La pelle ricopre il suo teschio digrignante. E Giobbe acconsente. Giobbe si rassegna. Giobbe non vuole sciupare il capolavoro.
La stanza del suicida
Pensate di certo, che la stanza era vuota.
E invece tre sedie con robuste spalliere.
E una buona lampada contro il buio.
Uno scrittoio, sullo scrittoio il portafogli, giornali.
Un Budda gaudente, un Gesù dolente.
Sette elefanti amuleti, e nel cassetto un notes.
Pensate che non c’erano i nostri indirizzi?
Pensate che mancavano libri, quadri e dischi?
E invece una tromba consolatrice tra mani negre.
Saskia di Rembrandt con un fiorellino cordiale.
La gioia scintilla degli dei.
Odisseo sullo scaffale in un sonno ristoratore
dopo le fatiche del quinto canto.
I moralisti,
i nomi scritti a lettere d’oro
sui dorsi ben conciati.
I politici di fianco impalati.
E non senza uscita, benché dalla porta,
non senza vedute, benché dalla finestra,
appariva la stanza.
Sul davanzale gli occhiali per guardare lontano.
Ronzava una mosca, cioè viveva ancora.
Pensate che almeno una lettera spiegava qualcosa.
E se vi dicessi che non c’era alcuna lettera –
e siamo tanti gli amici, ma siamo entrati tutti
in una busta vuota appoggiata a un bicchiere.
Le donne di Rubens
Gigantesse, fauna femminile,
nude come il rombo delle botti.
S’annidano nei letti pestati,
dormono – le bocche schiuse al canto del gallo.
Le pupille fuggite in profondo
penetrano dentro le glandole
da cui stillano il lievito nel sangue.
Figlie del barocco. S’ingrassa la pasta nella madia,
vaporano i bagni, si arrossano i vini,
galoppano in cielo porcelli di nubi,
nitriscono le trombe l’allarme ai corpi.
O zucche enormi, o smisurate
e raddoppiate dal togliersi le vesti,
e triplicate dall’impeto della posa
grasse pietanze d’amore!
Le sorelle magre si sono alzate più presto,
prima che sul quadro si facesse giorno
E nessuno ha visto, come se ne andavano in fila
sulla faccia non dipinta della tela.
Esuli dello stile. Costole conteggiate,
natura uccellea di piedi e palmi.
Con le scapole sporgenti provano a volar via.
Il Duecento darebbe loro un fondo dorato.
Il Novecento – darebbe uno schermo argenteo.
Il Seicento non ha nulla per le piatte.
Poiché perfino il cielo è rigonfio,
rigonfi sono gli angeli ed è rigonfio dio –
Febo baffuto, che sul trasudato
destriero irrompe nella rovente alcova.
Sulla torre di Babele
– Che ore sono? – Sì, sono felice,
mi manca solo una campanella al collo,
che tintinni su di te, quando dormi.
– Non hai udito? Il vento squassava il muro,
la torre ha sbadigliato come un leone,
la grande porta ha cigolato. – Non ricordi?
Indossavo un vestitino grigio
fermato sulla spalla. – E subito dopo
il cielo s’incrinò nel plurilampo. – Non entrai,
perché non eri solo. – D’un tratto scorsi
tinte preesistenti alla vista. – Peccato
che non puoi promettere. – Hai ragione,
fu un sogno, a quanto pare. – Perché menti,
perché mi chiami col nome di lei,
l’ami ancora? – Oh, come vorrei
che tu restassi con me. – Non ho rimpianti,
avrei dovuto immaginarmelo.
– Pensi ancora a lui? – Ma no, non piango.
– E questo è tutto? – Nessuno come te.
– Almeno sei sincera. – Sta tranquillo,
lascerò questa città. – Sta tranquilla,
me ne andrò. – Hai le mani così belle.
– E’ una vecchia storia, la lama passa
senza intaccare l’osso. – Non c’è di che,
mio caro, non c’è di che. – Non so
e non voglio sapere che ore sono.
1962
La stazione
Il mio nonarrivo nella città di N.
è avvenuto puntualmente.
Sei stato avvertito
con una lettera non spedita.
Hai fatto in tempo a non venire
all’ora prevista.
Il treno è entrato al terzo binario.
E’ scesa molta gente.
Ha varcato l’uscita nella folla
l’assenza della mia persona.
Alcune donne mi hanno sostituito
alla svelta
in quella fretta.
Verso una di loro è corso
qualcuno che non conosco,
ma lei lo ha riconosciuto
subito.
Entrambi si sono scambiati
il non nostro bacio,
nel frattempo si è persa
la non mia valigia.
La stazione della città di N.
ha superato bene l’esame
di esistenza oggettiva.
L’insieme era al suo posto.
I dettagli si movevano
lungo i binari stabiliti.
E’ avvenuto perfino
l’incontro convenuto.
Oltre la portata
della nostra presenza.
Nel paradiso perduto
della probabilità.
Altrove.
Altrove.
Come suonano queste paroline.
Concorso maschile di bellezza
Dalle mascelle ai talloni è tirato,
Su di lui un firmamento oliato,
Può essere eletto solamente chi
E’ contratto ed intrecciato così.
Con un orso feroce lotta alla pari
(anche se l’orso lì non c’è affatto).
E tre invisibili giaguri
Cadono con tre pugni detto fatto.
Maestro di spaccata e di flessione
Sulla pancia ha di smorfie due dozzine.
Lo applaudono, s’inchina con passione
Su tutte le opportune vitamine.
Un gatto nell’appartamento vuoto
Morire – a un gatto questo non si fa.
Perché cosa può fare un gatto
in un appartamento vuoto.
Arrampicarsi sulle pareti.
Strofinarsi tra i mobili.
Tutto sembra rimasto com’era,
eppure tutto è cambiato.
Nulla sembra fuori posto,
eppure tutto è spostato.
E la sera la lampada è spenta.
Risuonano dei passi sulle scale,
ma non sono quelli.
La mano che mette il pesce sul piatto,
non è quella che lo metteva.
Qualcosa qui non comincia
alla solita ora.
Qualcosa qui non accade
come dovrebbe.
Qualcuno qui era ed era,
e poi a un tratto è scomparso
e caparbiamente non c’è.
Si è guardato in tutti gli armadi.
Si è cercato negli scaffali,
e sotto il tappeto.
Si è violato perfino
il divieto di sparpagliare le carte.
Che altro si può fare.
Dormire e aspettare.
Che torni finalmente,
che appaia di nuovo.
Che sappia una buona volta,
che un gatto non si tratta così.
Gli andrà incontro,
come controvoglia,
lentamente,
sulle zampe molto offese.
E all’inizio niente salti né miagolii.
Wisława Szymborska: La vita
La vita è l’unico modo
per coprirsi di foglie,
riprendere fiato sulla penna,
levarsi sulle ali;
essere un cane
o accarezzare il suo caldo pelo;
distinguere il dolore
da tutto ciò che non lo è;
trovare posto negli eventi,
perdersi nelle vedute,
cercare il più piccolo degli errori.
È un’occasione unica
per ricordare un istante
ciò di cui si conversava
con la lampada spenta;
e per una volta almeno
inciampare in un sasso,
bagnarsi in una qualunque pioggia,
smarrire le chiavi nell’erba;
e seguire con lo sguardo una scintilla nel vento;
e senza sosta non sapere
qualcosa d’importante.
(Versione di Paolo Statuti)
(C) by Paolo Statuti
Una Risposta a “Wislawa Szymborska”